#TreQuarti14 - Intervista a Federico Baccomo

Federico Baccomo e Debora Lambruschini a #TreQuarti14
Libreria CLU, Pavia
©GMGhioni

Federico Baccomo, conosciuto anche con lo pseudonimo di Duchesne, è tornato da poche settimane in libreria con un nuovo titolo; un romanzo che segna un punto di svolta, diversificandosi per temi ed ambientazioni rispetto alle opere precedenti, ma anche per la conquista di uno stile più maturo e un’amplificata capacità di analisi di personaggi e situazioni. Ritroviamo intatti lo stile ironico e i dialoghi fulminanti, abilmente inseriti in una storia capace insieme di far sorridere e commuovere con la sua pungente critica alla vacuità dello show business, una macchina che affascina e abbaglia per quei 15 minuti di celebrità concessi ad un uomo qualunque, senza particolari talenti e disperatamente solo, trascinato sempre più a fondo nella lotta per sopravvivere in un mondo cinico e spietato.

Incontriamo l’autore, per la seconda volta ospite a ¾ di weekend, per discutere con lui del romanzo da poco in libreria:

Foto ©GMGhioni
Con Studio illegale e La gente che sta bene hai raccontato uno spaccato di quel mondo di avvocati e multinazionali che personalmente conoscevi molto bene, rielaborandolo al servizio della narrazione, mettendone in luce meschinità e contraddizioni con il tuo stile ironico. Peep show si pone come un punto di svolta: cambia l’ambiente rappresentato, lo stile e le riflessioni si fanno più mature. Da dove nasce l’ispirazione per un romanzo come questo, e come mai la scelta di mettere in scena proprio la decadenza dello show business?

L’idea del libro nasce diversi anni fa, addirittura durante la scrittura di Studio Illegale, ricordo che mi venne in mente l’immagine di un personaggio più o meno arrogante, più o meno famoso, che in diretta televisiva fa una battuta terribile, di quelle che non si possono dire in televisione. E pensai che quell’ambiente, quello della celebrità, potesse essere un ottimo scenario per una storia: non tanto per la dimensione pubblica, quanto per quella privata, raccontare la testa, gli umori, gli abissi di un uomo che scala le vette della fama per poi raccontarne la rovina. Poi, visto che gli uomini di successo mi divertono poco, ho pensato che potevo tralasciare la scalata e concentrarmi direttamente sulla caduta. Da questo nucleo iniziale, negli anni, la storia si è arricchita di personaggi, di dettagli, di vicende, mentre io, piano piano, cercavo di conquistare i mezzi tecnici per poterla scrivere.


I dialoghi fulminanti sono ormai la tua cifra più caratteristica. Quanto è difficile comporli sulla pagina? Nascono per lo più spontanei o sono il frutto di un attento lavoro di limatura?

Quando cominciai a scrivere, i dialoghi mi sembravano la cosa più difficile da mettere sulla pagina, per cui cercavo di evitarli. Poi, mi son reso conto che, quando riuscivo a tirarne fuori uno credibile, che suonasse vero e divertente, quel dialogo finiva per oscurare tutto il resto, era di gran lunga la cosa meglio scritta. Da allora ho cominciato a lavorarci sopra, a cercare di affinare la tecnica, e oggi, per quanto restino oggetto di decine di limature e aggiustamenti, sono quasi una scorciatoia, un modo per sbloccarmi quando ho difficoltà ad andare avanti nella pagina.

Anche in questo romanzo il protagonista ci appare fin da principio come un uomo in crisi: milanese, poco più che trentenne, ha sprecato la sua occasione di celebrità e sta affondando sempre più (anche se non sempre possiamo imputare la colpa alla sua inadeguatezza). Come mai hai scelto ancora una volta di raccontare un uomo che inesorabilmente sta andando a fondo?

Foto ©GMGhioni
C’è un’opera di Learco Pignagnoli che dice: “Se non c’è niente da ridere vuol dire che non c’è niente di tragico, se non c’è niente di tragico, che valore che vuoi che abbia.” Ecco, quell’unione di comico e tragico è la cosa che più mi interessa raccontare, e la trovo solo in quei personaggi disperati, che vanno a fondo, e se poi la colpa è soprattutto loro, allora son perfetti.

Le figure femminili nei tuoi romanzi restano sullo sfondo di un mondo prevalentemente maschile. Anche in Peep Show l’universo maschile è predominante, ma le poche figure femminili che compaiono sono ognuna a loro modo fondamentali per gli sviluppi della storia. Come scrittore credi ti sia più congeniale dare voce al genere maschile? 

Sì, probabilmente la mia voce si esprime meglio da un punto di vista maschile, anche se i personaggi più belli, più complessi, più vivi, in Peep Show, mi sembra siano le due donne, mamma e figlia, Camilla e Sofia. Se fossi uno scrittore migliore, era di loro che avrei dovuto scrivere.

E anche nel caso di Nicola Presci, il protagonista di Peep Show, è difficile provare fino in fondo empatia nei suoi confronti, ci sono momenti in cui la sua incapacità di affrontare la vita fa quasi rabbia, altri in cui proviamo una pena terribile. È più interessante per te raccontare un antieroe, un eroe imperfetto e comune?

Nicola è un personaggio che definire squallido non sarebbe poi sbagliato. Non è cattivo, ma si comporta da cattivo, non è stupido, ma si comporta da stupido, non è egoista, ma si comporta da egoista. È un amante ferito, sia dalla vita che da una donna, e come ogni amante è uno che ha perso lucidità, sragiona, si comporta in un modo che suscita rabbia, pena, e mille altri sentimenti che nessuno di noi vorrebbe suscitare negli altri. Eppure, volenti e nolenti, spesso siamo anche cattivi, stupidi, egoisti, e pure ridicoli, patetici, disperati, terrorizzati, ecc. ed è in queste pieghe che cerchiamo di spianare che mi piace cercare i miei personaggi. Non saprei spiegare perché, mi sembra siano in qualche modo più “degni” di un personaggio che ci fa dire: “Oh, come vorrei essere lui” e che, poi, ci lascia come Woody Allen che, di fronte ad Humphrey Bogart, dice: “Ma chi voglio prendere in giro, io non sarò mai come lui.”

È un romanzo a più livelli di lettura: da una parte c’è la pungente ironia del protagonista, con le sue battute folgoranti e gli incontri surreali con personaggi dello show business e della politica, la sua incapacità cronica di combinare qualcosa di buono e le avventure tragicomiche; dall’altra una precisa critica alla vacuità del mondo dello spettacolo che pare contagiare anche la vita reale, la profonda disperazione di un uomo, la sua solitudine, le umiliazioni. Qual è il senso profondo di questa sfilata di fallimenti e miserie?

Ah, non saprei dire se c’è davvero un senso. In fondo, al di là degli intenti satirici o di critica, resta solo un romanzo con un piccolissimo scopo: regalare qualche ora di intrattenimento, nel senso più bello del termine, e se qualcuno è fuori a bere una birra e intanto pensa: “Che bello, stasera arrivo a casa e leggo un po’ che cosa succede a Nicola”, mi pare di avere in mano tutto il senso necessario di questo libro.