Pillole d'autore - "Gli amori difficili" di Italo Calvino


Gli amori difficili è una raccolta di racconti scritti da Italo Calvino e pubblicati in volume per la prima volta nel 1958 da Einaudi. Sono quindici racconti suddivisi in due parti disomogenee: la prima, dal titolo Gli amori difficili, raccoglie i primi tredici, dedicati alle avventure di diversi personaggi (L’avventura di un soldato, L’avventura di un bandito,…); la seconda parte è intitolata La vita difficile, ed è composta dagli ultimi due racconti, più lunghi: La formica argentina e La nuvola di smog. I quindici scritti sono preceduti da una “presentazione” scritta da Calvino stesso, in cui l’autore introduce non solo la sua opera, ma anche la sua biografia e la critica che ha incontrato la sua raccolta di racconti. Non sono racconti d’amore, bensì storie di amori cercati e spesso mancati, storie di silenzi e di vuoti comunicativi, dove il soggetto non può fare altro che rassegnarsi a constatare la quotidianità con le sue bruttezze (come nell’ Avventura di un poeta) e con i suoi incanti momentanei e lontani (come nel caso dei protagonisti del racconto La formica argentina).
Ripropongo qui il racconto più corto – per ragioni di spazio – ma probabilmente anche il più tenero e struggente: L’avventura di due sposi. Mario Monicelli ne ha tratto il cortometraggio Renzo e Luciana (che rappresenta un episodio del film Boccaccio ’70), e Sergio Liberovici l’ha musicata e intitolata Canzone triste.
È la storia di un amore assodato e confermato dal vincolo matrimoniale già dal titolo, ma non per questo condiviso: la quotidianità urbana di due innamorati che riescono a incontrarsi solo nel caldo solco lasciato dall’altro nel letto che entrambi ritrovano vuoto.


L'avventura di due sposi in Gli amori difficili (Milano: Mondadori, 2013), pp.109-113.

Libri Sotto L'ombrellone e #Rileggiamoconvoi - agosto 2014

Saluti dalla campagna pavese - Foto di GMGhioni



Cari lettori,
ecco i nostri consigli di fine-mese! Abbiamo pensato di anticiparli di un giorno perché magari qualcuno di voi è a caccia di libri per il weekend!
Come sempre, novità e classici dalle nostre librerie, con il link alle recensioni per scoprire se il titolo fa per voi!

Buona lettura e ottimo settembre!
La Redazione

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L'estate dei segreti perduti


L'estate dei segreti perduti
di E. Lockhart
DeAgostini, 2014




Il primo sentimento che suscita il romanzo di E. Lockhart è sicuramente curiosità: la storia presentata è piuttosto intrigante e per un momento convince quasi a dimenticare il target di riferimento del romanzo, quel young adult sempre più difficile da definire; ignorando quindi momentaneamente il sottogenere di appartenenza, We are liars – titolo originale del romanzo, senza dubbio molto più efficace e adatto di quello scelto per l’edizione italiana- appare come la storia di una ricchissima e potente famiglia americana, che ogni estate si riunisce nell’isola privata dei Sinclair per trascorrere insieme le settimane di vacanza tra spiaggia, gite in barca, chiacchiere, falò e cene nella casa patronale. I nipoti più grandi del patriarca Harris anno dopo anno sono diventati inseparabili in quelle settimane trascorse insieme sull’isola, una sorta di club dei Bugiardi (così si definiscono) chiuso al resto del mondo e che solo in quel piccolo microcosmo privato esiste, mentre a vacanze finite ognuno torna alla propria vita e si perdono i contatti fino all’anno successivo. Adolescenti ricchi e inquieti, i ragazzi Sinclair – Cadence, Johnny e Mirren- pochi anni prima hanno accolto Gat, il nipote dai tratti esotici del nuovo compagno di Carrie Sinclair, che i ragazzi presto considerano un membro della famiglia, e soprattutto dei Bugiardi, a tutti gli effetti, nonostante la sua estraneità pesi non poco al resto della famiglia. Quattro adolescenti quindi, un’isola privata dove trascorrere una manciata di settimane, la scoperta dei sentimenti, il primo amore intenso e struggente. Ma soprattutto segreti.

Oltre le Colonne d'Ercole: Un divertente viaggio per mare e per terra ricco di scoperte

Oltre le Colonne d'Ercole
di Lorenzo Bracco e Dario Voltolini
BookSprint Edizioni, 2014




L’estate, si sa, è tempo di vacanze e di viaggi. Un libro interessante, divertente e coinvolgente per chi non può permettersi un vero viaggio, ma vuole imbattersi nelle briose sensazioni della crociera è Oltre le colonne d’Ercole di Lorenzo Bracco e Dario Voltolini, già autori del fortunato diario d’avventure per mare Da costa a costa (clicca qui per la recensione). I protagonisti, nonché autori del libro, sono sempre loro due, L e D (Lorenzo e Dario), che un anno dopo il primo viaggio, ripartono, come due prodi Ulisse, per una nuova e allegra crociera, ricca di sorprese, spunti di riflessione e colpi di scena inaspettati. 


La prima tappa della loro e della nostra avventura si svolge a Barcellona, città della Catalogna con delle prospettive artistiche strepitose; si va dal medievale Barrio Gotico in cui sorge la cattedrale, capolavoro del gotico catalano, a eleganti palazzi neoclassici, fino ad arrivare ai quartieri colorati in cui si alternano case liberty, neogotiche e floreali. Barcellona è anche la citta in cui visse e operò Antoni Gaudì, immaginifico architetto capace di creare splendide e avveniristiche opere: Casa Battlò, con le sue finestre dalle forme sinuose e rotondeggianti (vedi foto facciata a destra); Casa Milà, detta anche La Pedrera (letteralmente cava di pietra) per la sua facciata esterna rivestita di pietra grezza come una parete di roccia modellata dalle forze della natura; il fantasmagorico e onirico Parco Guell, con la sua vegetazione incantata e i suoi portici costruiti con pietre informi ricavate dal terreno circostante; e la Sagrada Familia, con le sue torri affusolate che assomigliano a pinnacoli di castelli di sabbia innalzati da mani gocciolanti di bambini.

Letture incrociate: nobiltà decaduta e palazzi negli scritti di Tomasi di Lampedusa e Tommaso Landolfi



Racconto d'autunno
di Tommaso Landolfi
a cura di I. Landolfi
Adelphi, 1995

pp. 141
€ 18

1^ edizione: 1947




C’è un sottile filo rosso che lega i nobili decaduti del primo Novecento. Visconti sentiva di avere molto in comune con Tomasi di Lampedusa e persino Racconto d’autunno di Tommaso Landolfi rimanda echi molto simili agli scritti dell’autore del Gattopardo. Sembra stenti un po’ a entrare nel vivo questo racconto landolfiano che vede un partigiano allontanarsi dal terreno dello scontro per fuggire nel fitto di un bosco, fino a che non raggiunge una casa che sembra abbandonata. In realtà si tratta di un palazzo nobiliare senza l’antico splendore, in cui il partigiano fa fatica a entrare, per via di certi cani rabbiosi e per l’apparente assenza di un padrone. Dopo aver raccontato l’incontro ostile tra il protagonista e il vecchio abitante della casa, Landolfi si dedica alla descrizione minuziosa di tutti gli ambienti, da cui si deduce quale ricco palazzo dovesse essere stato quello. Lo spazio assume un ruolo di primo piano, quasi fosse un altro personaggio. Poi la frase 
Dal poco vedutone m’era tuttavia facile concludere che essa [la casa] era di quelle che i loro stessi proprietari non si illuderebbero di possedere interamente. 
Ricorda una frase molto simile del romanzo Il gattopardo, in quelle pagine in cui Tomasi di Lampedusa descrive le fughe di Tancredi e Angelica per casa Salina: 
Le scorribande attraverso il quasi illimitato edificio erano interminabili; si partiva come verso una terra incognita, ed incognita era davvero perché in parecchi di quegli appartamenti sperduti neppure Don Fabrizio aveva mai posto piede, il che del resto, gli era cagione di non piccolo compiacimento perché soleva dire che un palazzo del quale si conoscessero tutte le stanze non era degno di essere abitato. 

"I mercanti di stampe proibite" di Paolo Malaguti




I mercanti di stampe proibite
di Paolo Malaguti
Editrice Santi Quaranta, 2013

pp. 271


“Cosa cerchi in quest’angolo di mondo?”. Lo straniero guardò per un attimo con espressione attonita quello sconosciuto, non più tanto sicuro di aver fatto la scelta giusta, domandando a lui la direzione da prendere per arrivare alla sua destinazione. Insomma, quell’uomo aveva appena rimestato tra i morti come se nulla fosse, e ora gli parlava tranquillo, quasi allegro. Restava però il trascurabile vantaggio di aver trovato qualcuno con cui ci si poteva capire, e lo straniero decise di continuare a tentare la sorte “ Son vegnesto a incontrar, par conto del sior Luigi Bonnardel de Cadice, Jacopo Hiegra Salazar, mercante de libri e stampe de Santi dei Remondini da Bassan…ma no me credeva de trovar tali spettacoli, oltre oceano, altrimenti tornavo a baita!”.[1]


Il mondo borghese mercantile rappresentato in questo romanzo si differenzia molto da quello letterario  trecentesco. Le peregrinazioni frequenti contraddistinguono la vita, in particolare, della famiglia di Sebastiano Gecele e sono ambientate tra gli anni sessanta e settanta del Settecento.  Il commercio riguarda la produzione di preziose stampe popolari della famiglia Remondini di Bassano del Grappa e il viaggio itinerante coinvolge sia i territori montani del Trentino e del Veneto, tra valli e sentieri incontaminati, tra luoghi incantevoli e “teatri commerciali” di vita come la Val di Brenta e la Valsugana, sia luoghi extranazionali, in particolare spagnoli, come Cadice e Malaga.
Fino a qualche anno fa erano in pochi a conoscere i Remondini, in Spagna. Certo c’era chi, come te, girava per il Regno vendendo qualche stampa.[…] Quella stampa, nonostante le figure minute e l’immagine complessa, era colorata. Dominava l’azzurro tenue del cielo, il rosa delle nubi su cui i beati già godevano della Gloria Celeste e, in basso, il rossore delle fiamme infernali, e dei corpi dei satanassi  intenti a tormentare i dannati. Un Giudizio Universale, questa era stata la scelta del Bonnardel. Il soggetto andava più che bene, i messaggi raggiungevano l’obiettivo: le figure fittamente assiepate, in particolare le nudità scomposte delle anime all’inferno, avrebbero colpito e acceso l’immaginazione del popolo. I numerosi cartigli e le iscrizioni latine, dal canto loro, avrebbero appagato con un’essenziale catechesi i pochi acquirenti in grado di leggere.[2]

"Nella casa di vetro" di Giuseppe Munforte

Nella casa di vetro
di Giuseppe Munforte
Gaffi editore in Roma, 2014
pp. 199



Entrato nella dozzina dei candidati all'edizione 2014 del Premio Strega, Nella casa di vetro si accosta all'immaginario del lettore con un incipit caratterizzato da un lirismo oltremodo incisivo in cui si cela l'essenza della storia che andrà delineandosi, pagina dopo pagina, con crescente nitore.
Da una sorta di struggente preghiera, che rimanda a un anelito di purezza, levità e coraggio (Portami ancora leggerezza e voglia di correre, il fruscio della bicicletta su uno sterrato, la neve che placa le strade, quello sguardo, quel profumo, e poi chiarezza [...] Portami la libertà dei pensieri, e del desiderio. Il coraggio della veglia), Davide, voce narrante del racconto, vive la dimensione quotidiana che si staglia ai margini di Milano, con il suo incedere metallico e asetticamente surreale, nella sua grigia possenza dentro quelle vasche oscure della sotterranea che il protagonista costeggia
come ombra feroce sui metalli [...], affondando verso il mezzanino dentro il popolo lumaca che alza le sue mille teste e le ritrae ritmicamente, respirando, sfiorate dai liquidi bagliori dei neon. 

Pillole d'Autore: "I clienti di Avrenos" di Georges Simenon

In uno dei vicoletti della vecchia Istanbul, al di là del porto, si trova il ristorante di Avrenos; ha le pareti dipinte di giallo, ospita una decina di tavoli e un lungo bancone sempre pieno di roba da mangiare. 
I clienti di Avrenos sono sfaccendati - "artisti, giornalisti, uomini d'affari, nobili decaduti, viveur di mezza tacca" - e si rifugiano nel locale per passare le serate tra un sorso di raki e una boccata di fumo.

Istanbul, la porta che da Occidente conduce in Oriente, è la prima protagonista di questo romanzo di Simenon, maestro indiscusso nella scelta di quei chiaroscuri della parole con cui dà forma alle città delle sue pagine.
I vicoli di Galata,  le ville di Tarabya affacciate sul Bosforo, i cimiteri di Eyup in cui passeggiare al chiaro di luna, il Pera Palas con le pareti addobbate da pesanti tappeti orientali e i mobili di mogano scuro, per ogni luogo c'è un dettaglio da ricordare, un colore che si fissa nella memoria come simbolo dominante di un personaggio, un paesaggio, un'emozione. 
Accanto al Simenon delle atmosfere c'è quello che scolpisce memorabili caratteri e proprio in questo libro si trova una delle figure femminili più speciali di tutta la sua produzione: Nouchi

Lucia a Londra: tornano in libreria le divertenti avventure dell'eroina di Benson

Lucia a Londra
di Edward Frederic Benson
Fazi Editore, 2014

pp. 276
€ 13




Gli anni Venti, la provincia inglese e la buona società, arguzia ed umorismo nel più tipico stile anglosassone: che gioia ritrovare in libreria la serie di E. F. Benson! Con Lucia a Londra, la casa editrice Fazi ristampa il secondo volume delle avventure di Lucia, la celebre eroina creata da Benson, e troppo a lungo finita nel dimenticatoio nello sterminato marasma dell’editoria italiana. 
Una copertina bellissima e volutamente vintage che immediatamente conduce il lettore nel cuore dell’epoca in cui la storia è ambientata e che dopo appena un paio di pagine riesce a stregarlo completamente: noi lettori di oggi proviamo lo stesso piacere che non fatichiamo ad immaginare abbiano suscitato le avventure della nostra eroina nel pubblico del 1927 quando il romanzo uscì per la prima volta in Inghilterra, così come aveva affascinato i lettori italiani nella prima traduzione di questo volume alla fine degli anni Novanta, sempre per Fazi editore. 

La grazia, l’ironia, la perfetta ricostruzione dell’epoca e della società, la spensierata ma tutt’altro che volgare comicità, rendono le storie di Benson piccoli capolavori del genere capaci senza dubbio di superare la prova del tempo - come solo i classici sanno fare- e divertire oggi come ieri senza essere banale, ma regalando piacevoli ore in compagnia di personaggi stravaganti e determinati che sicuramente siamo ansiosi di ritrovare presto in nuove avventure. Certo, la scelta di ristampare la serie partendo non dal primo romanzo ma dal secondo lascia un po’ perplessi, ma confidiamo che la casa editrice italiana porti presto in libreria tutte le avventure di Lucia e della sua cerchia per godere ancora della compagnia di così unici e imprevedibili amici!

#CriticaNera. Un'indagine lirica: "Il cargo giapponese" di Giorgio Manacorda

Il cargo giapponese
di Giorgio Manacorda
Edizioni Voland, 2014

«Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero»


Queste parole, che Pier Paolo Pasolini scrisse nel 1974 sul Corriere della Sera, mi hanno accompagnato durante l'intera lettura de Il cargo giapponese di Giorgio Manacorda. In particolare dal momento in cui il commissario Sperandio ha iniziato ad utilizzare la poesia, di cui è nella finzione del romanzo un cultore e praticante, per risolvere una serie di omicidi che hanno come vittime uomini della Yakuza e che ruotano attorno a un misterioso cargo incagliatosi nel porto di Cagliari. Una nave completamente vuota che si adagia una notte d'inverno nel porto del capoluogo sardo.
Il procuratore della città, non sapendo da che parte cominciare, richiama il commissario Sperandio, romano, e mandato qualche anno prima in “esilio” a Gavoi, un piccolo borgo della Barbagia (zona montuosa della Sardegna, ndr). Sperandio è un poeta poliziotto, un uomo colto che ha il vizio di ragionare fuori dagli schemi convenzionali, che conduce le proprie indagini utilizzando gli strumenti non solo della scientifica, ma della letteratura. Un personaggio che potrebbe essere uscito dalla penna di Leonardo Sciascia, o da quella di Jorge Luis Borges. Un commissario lontano dalle figure che popolano le pagine del noir contemporaneo: Sperandio non ha nulla di Pepe Carvalho o di Bacci Pagano. È un uomo solitario, acuto e che legge il mondo che lo circonda secondo gli schemi della poesia. Non del romanzo o di un altro genere letterario, ma della poesia, espressione più alta della lingua in senso universale, che non conosce barriere per essere compresa.

#PagineCritiche - "La freccia di Cupido" di Robert J. Sternberg




La freccia di Cupido Come cambia l’amore teorie psicologiche,
di Robert J. Sternberg,
traduz. di Riccardo Mazzeo
Erickson, 2014

pp. 234



Quante facce ha l’amore? Attraverso quali forme si manifesta? La passione e l’amore possono convivere? La dedizione appassionata ed esclusiva, istintiva o intuitiva tra due persone è durevole? Robert J. Sternberg, celebre studioso della psicologia e dello sviluppo cognitivo, docente universitario a Yale, all’Oklahoma State e alla Tufts University, attualmente direttore dell’American Psychological Association, ci conduce all’interno del difficile universo delle relazioni amorose, attraverso un’approfondita analisi delle sfere emozionali riguardanti i processi che determinano il perdurare o meno di un rapporto:

«E vissero felici e contenti» non può limitarsi a essere la conclusione di una storia: se vuole essere qualcosa di reale, deve coincidere con la felicità sulla base di diverse configurazioni dei sentimenti reciproci. Le coppie che si aspettano che la passione duri per sempre, o che l’intimità rimanga inalterata, vanno incontro a grandi delusioni. Le relazioni sono costruzioni che decadono con il tempo se non vengono alimentate, mantenute o perfino migliorate. Una relazione non è in grado di prendersi cura di se stessa, come non può badare a se stesso un edificio di mattoni. È invece necessario  che ci prendiamo noi stessi la responsabilità di rendere la nostra relazione la migliore possibile, lavorando costantemente per comprenderla, costruirla e ricostruirla.[1]

#PagineCritiche - Renato Venturelli, L'età del noir



L’età del noir
di Renato Venturelli,
Einaudi, Torino, 2007




Genere (per quanto tale termine sia superato o forse solo inefficace nel delimitare frontiere e demarcazioni relative a meccanismi inclusivi/esclusivi) alquanto duttile e trasformista, transepocale e difficilmente inquadrabile in estetiche esatte, il noir dagli anni novanta del secolo scorso in poi ha invaso l'immaginario telecomandato delle mode contemporanee, proponendosi come un marchio che al di là del cinema si espande nella letteratura, nel fumetto, nei videoclip e quant’altro. Ma come definirlo in termini critici senza risultare imprecisi, o peggio estenderlo ad ogni tipo di narrazione criminale con forti connotazioni di violenza? Volendolo affrontare con rigore filologico e da un’esclusiva angolazione cinematografica, è necessario ricostruire le diverse tappe della sua nascita, sviluppo ed evoluzione, ipotizzandone il suo esordio intorno al 1940, quando in un ampio bacino di raccolta confluiscono incroci e contaminazioni di generi in voga nel cinema americano del decennio precedente: gangster-film, poliziesco, horror, giallo, thriller, melodramma, woman's film apporterebbero ognuno un contributo al nuovo mood di rendere in termini cinematografici storie a sfondo criminale, dall'atmosfera cupa e opprimente, girate con uno stile visivo ben delineato: bianco e nero contrastato, giochi di luce e ombra con netta prevalenza della seconda, profondità di campo, illuminazione artificiale e senza filtri, evidenti debiti con l'espressionismo tedesco e il realismo poetico francese, distorsioni visive e narrative, caratterizzazione dei personaggi in senso cinico e disilluso, forse anche esistenzialista. La nota saliente che rende queste pellicole diverse dai crime movie precedenti si rivela l’interiorizzazione del racconto criminale, lo spostamento dell’attenzione dalle dinamiche esterne (la soluzione di un giallo, l’ascesa di un gangster, lo sfondo sociale) a quelle interne (i traumi del passato, i sensi di colpa, la lotta impotente contro il destino, il rapporto con la morte, ecc).

"Un pezzo di uomo" di Kari Hotakainen

Un pezzo di uomo 
di Kari Hotakainen
Iperborea, 2012
pp. 306



Dire che il mondo sta cambiando è la cosa più stupida che possiamo fare: il mondo cambia ogni giorno, cambia da sempre. È la cosa più stupida che c'è se ce ne serviamo per attaccare conversazione al bar tra un giro di briscola e l'altro, ma se mettiamo a fuoco il tipo cambiamento in corso, se ne registriamo le reazioni aggiungendo poi al tutto dialoghi divertenti e riflessioni che vanno ben oltre il sentito dire rischiamo di ottenere persino qualcosa di bello. Kari Hotakainen, ad esempio, su questo – e su molto altro, in verità – costruisce un ottimo romanzo.



In Un pezzo di uomo scorre la linfa impazzita di una realtà indecifrabile in via di scorporazione. Quella che chiamiamo logica del profitto e del capitale non è l'applicazione razionale di leggi di mercato ma un confuso, illogico e pervasivo colpo di straccio sul mondo, è un rimescoliò di carte in cui le vite umane figurano soltanto come elementi irrilevanti e trascurabili, utili nella misura in cui riescono a creare e a far circolare denaro.
Tra i genitori, Salme e Paavo, e i tre figli (uno muore a pochi anni di età) vi è un divario generazionale, com'è ovvio, ma l'inevitabile distanza è accresciuta dalla rapidità dei mutamenti a cui l'anziana coppia guarda con gli occhi stupiti di chi non sa capire ciò che si sta muovendo davanti alle proprie pupille: «Poi il mondo è cambiato, e io e Paavo non ci abbiamo capito più niente» (p. 48). Qual è, dunque, la trasformazione in atto? Le trasformazioni sono molte, naturalmente. Dalla precarizzazione del lavoro al capitalismo rampante e alla desertificazione morale che lascia lungo il suo cammino, ma forse il vero grimaldello con cui il “nuovo che avanza” si è aperto la strada è sostanzialmente dato dal ruolo egemone assunto dalle vacue parole a discapito dell'azione.
Salme e il marito hanno sempre lavorato in una merceria, hanno vissuto entro i confini di un universo fatto di strette di mano, di fili e ditali, di cose tangibili e definibili mediante termini univoci. I figli, che la madre crede consulenti aziendali, si muovono in un ambiente completamente diverso, ne subiscono la ferocia senza cadere nella passività o in critiche lanciate con più o meno compiaciuto fatalismo.

Pillole d'autore: Papà Goriot di Honoré de Balzac


Papà Goriot è un romanzo scritto da Balzac nel 1834, all'interno del suo grandioso progetto della Comedie Humaine. Uno sterminato universo narrativo, con personaggi che appaiono da un romanzo all'altro, che vuole descrivere la società francese di quegli anni. Balzac stesso si definisce più storico di costumi che romanziere e il suo obiettivo è dipingere un ritratto dei vari tipi umani che popolano Parigi.

Nel quaderno degli appunti di Balzac si trova questa indicazione di lavoro sul suo romanzo
Soggetto di Papà Goriot. Un buon uomo; pensione borghese; 600 franchi di rendita; va in miseria per le figlie che hanno, tutte e due, 50.000 franchi di rendita, e muore come un cane.
La vicenda è ambientata in una pensione parigina, la pensione Vauquer, dove alloggiano vari personaggi provenienti da vari strati sociali.
La pensione conosciuta come Casa Vauque accetta tutti, uomini e donne, giovani e vecchi, senza che la maldicenza abbia mai sclafito l'onorabilità di quella rispettabile istituzione. (…) La casa in cui si gestisce la pensione appartiene a madame Vauquer e si trova nella parte inferiore della rue Neuve-Sainte-Geneviève, in un punto ove il suolo si abbassa verso rue de l'Arbalète con una pendenza così brusca e ripida che ben di rado i cavalli la risalgono o la discendono. Motivo per cui regna il silenzio in quelle vie anguste (…).

Un #Ferragosto in viaggio con la letteratura (parte 2)

Foto di Gloria Ghioni


Passato un buon Ferragosto? 
Rieccoci con la seconda parte del nostro viaggio tra letteratura e Italia! Anche oggi, citazioni e foto da parte dei nostri redattori! 

Buone vacanze e ottima lettura,
La Redazione!

Un #Ferragosto in viaggio con la letteratura (parte 1)

Foto di Claudia Consoli

Buon Ferragosto!

Cari amici lettori,
quest'anno per augurarvi un bellissimo weekend di Ferragosto, vi portiamo nelle nostre mete preferite con le parole che secondo noi hanno raccontato al meglio quella terra... 

Oggi e domani parole e foto ci accompagneranno a spasso per l'Italia! 

Buona lettura e buon relax,
La Redazione




Laura e la Sicilia di Sciascia

"È vero" disse il professore, un po' abbattuto. Ma subito trovò da esaltarsi di fronte al mare di Taormina. "Che mare! E dove c'è un mare così?"
"Sembra vino" disse Nenè.
"Vino?" fece il professore perplesso. "Io non so questo bambino come veda i colori: come se ancora non li conoscesse. A voi sembra colore di vino, questo mare?".
"Non so: ma mi pare ci sia qualche vena rossastra" disse la ragazza.
"L'ho sentito dire, o l'ho letto da qualche parte: il mare colore del vino" disse l'ingegnere.
"Qualche poeta l'avrà magari scritto, ma io un mare colore del vino non l'ho mai visto" disse il professore; e a Nenè spiegò "Vedi: qui sotto, vicino agli scogli, il mare è verde; più lontano è azzurro, azzurro cupo".
"A me sembra vino" disse il bambino, con sicurezza. [...]
'Il mare colore del vino: ma dove l'ho sentito' si chiedeva l'ingegnere. 'Il mare non è colore del vino, ha ragione il professore. Forse nella prima aurora, o nel tramonto: ma non in quest'ora. Eppure, il bambino ha colto qualcosa di vero: forse l'effetto, come di vino, che un mare come questo produce. Non ubriaca: si impadronisce dei pensieri, suscita antica saggezza'.

L. Sciascia, da Il mare colore del vino

"Stalin + Bianca" di Iacopo Barison


Stalin + Bianca
di Iacopo Barison
Tunuè, 2014

pp. 175


Così capimmo una cosa. La meta è nulla rispetto al gerundio dell'andare. 

Comincio citando Paolo Rumiz (L'Oltre e l'Altro, UTET, 2014) perché la sensazione più forte che ho provato durante la lettura di Stalin + Bianca è la percezione del viaggio, la particolare emozione che si prova quando abbandoni un posto per scoprirne mille altri, fosse anche un viaggio che alla fine ti riporta al punto di partenza. Il romanzo di Iacopo Barison, che fa parte della nuova collana di narrativa di Tunuè curata da Vanni Santoni, è la storia di un viaggio e di tutti i sentimenti che stanno dietro all'esigenza di mettersi in cammino, primi tra tutti l'amore e la paura
Stalin + Bianca è come una formula, un'equazione necessaria fatta di due elementi che non potrebbero che stare insieme: un ragazzo e una ragazza perfettamente complementari.
Lui ha diciotto anni, soffre di crisi che lo portano a non controllare la rabbia e il suo soprannome deriva dai baffi che lo fanno somigliare al noto dittatore. Lei è di una bellezza fragile e delicata e, pur non vedendo il mondo attorno a sé perché cieca, ha tutta la forza necessaria per guidarlo laddove è lui a non vedere.

La ballata di Charley Thompson

La ballata di Charley Thompson
di Willy Vlautin
Mondadori, 2014

pp. 264
€ 17




Se esiste un genere in cui gli scrittori nord americani sono da sempre maestri difficili da eguagliare è il romanzo di formazione on the road: chilometri e chilometri di strada e di vita da percorrere, avventura, scoperta di sé, un po’ vagabondando in quell’America polverosa e ribelle che abbiamo imparato ad amare da Kerouac in poi. L’Inghilterra ha l’orfano dickensiano e le sue innumerevoli declinazioni, gli Stati Uniti il giovane alla ricerca del proprio posto nel mondo. Un genere che ha dato ovviamente esiti assai differenti, ma che ancora resta terreno fertile e che più di altri è diventato emblema di una letteratura giovane, spesso audace e sperimentale, da tempo ormai affrancata dal modello europeo e che aveva trovato nel romanzo on the road il mezzo ideale per rappresentare miti e insicurezze di generazioni di giovani ribelli. Oggi il più recente straordinario romanzo di formazione è senza dubbio Il cardellino, ma se il talento della Tartt resterà difficile da eguagliare non mancano altri esempi di un genere con cui ancora molti scrittori si misurano. 
Un caso per certi aspetti interessante è l’ultimo lavoro di Willy Vlautin, già noto come leader del gruppo alternative country dei Richmond Fontaine, che torna in libreria con un breve romanzo malinconico e allo stesso tempo pieno di speranza, protagonista un ragazzino rimasto solo in viaggio attraverso un’America polverosa e violenta, popolata di personaggi eccentrici.

"Gli eroi imperfetti". Stefano Sgambati

Gli eroi imperfetti
di Stefano Sgambati
minimum fax, 2014
collana: nichel

pp. 279
cartaceo 15
ebook 7.99






Gli eroi imperfetti: è questo il titolo ossimorico che Stefano Sgambati, classe 1980, ha scelto per il suo esordio letterario.
Fin dalle prime pagine troviamo dichiarazioni e presentazioni schiette del protagonista che mette subito in chiaro le coordinate entro le quali leggere l'intera vicenda
Io non sono una persona speciale.Mi chiamo Corrado Marini, mica Syd Barrett, e vendo bottiglie, poi chiudo il negozio e vado a casa. Di me non resterà niente e mi va benissimo così: non sono nato per rimanere nella memoria. Non m'interessa, l'immortalità.

L'ordinarietà della sua vita si trova immediatamente in primo piano; quella di Corrado è una normalità difesa con forza, un riparo tranquillo e una cura per l'anima: "Questa roba, che la maggior parte della gente potrebbe chiamare routine, per me significa esistenza, cioè salvezza". Il romanzo non presenta solo la descrizione di una vita regolare ma esplora soprattutto una normalità interiore che lotta e annaspa nel momento in cui viene sconvolta; l'autore cerca di seguire lo spasimo che avviene quando una stasi intima, che si crede o si spera eterna, viene intaccata.

Successivamente la scena si dilata e si completa con gli altri personaggi. Carmen, moglie di Corrado, che non è mai riuscita a compiere quello che viene definito dal marito un "atto straordinario" ovvero accettare la propria normalità; Gaspare, un uomo anziano e affascinante che con gentilezza entra nella loro vita e con disinvoltura la scompagina; Irene, figlia bellissima di Gaspare, che si logora nel ricordo della madre morta, che si autodistrugge ma lotta per sopravvivere; e infine c'è Matteo, libraio romano che vorrebbe in ogni modo far sua Irene ma non ha ancora imparato che "l'unico modo per non perdere la sabbia è tenerla sul palmo, senza stringere le dita". Le loro esistenze vengono intessute in una Roma che si rimpicciolisce e si fa microcosmo attorno a Ponte Milvio.

CriticaLibera - Francesco Pecoraro: una vita, una pace, un tempo



Lo spirito moderno secondo Alberto Savinio: la coscienza cinicamente lucida di chi «liberamente e spassionatamente contempla intorno a sé il mondo sdivinizzato» (Alberto Savinio, Luciano di Samosata).

Ci si appoggia alle pieghe del tempo, alla memoria, a quel bagaglio invisibile ma pulsante e pesante, per ritrovare cosa? 
Lo scandalo e l’indignazione per una vita  vissuta? Per un posto nel mondo che non è fatto su misura per il sé che si crede di essere? Per un passato che per essere davvero tale, profondamente tale, prepotentemente tale, deve  essere percorso a ritroso? 
Per affermarsi bisogna davvero chiudere gli occhi e tuffarsi, a capofitto, con la testa leggera, in un mondo che ci è appartenuto, ma mai fino alla radice dell’anima?
La vita in tempo di pace: un ossimoro celato. La vita non può essere pace, perché per sua natura è una socratica contraddizione. 
Dalla prospettiva di questo ossimoro, Francesco Pecoraro contempla il mondo sdivinizzato: un mondo che non prevede più una rigida distinzione tra passato, presente e futuro. Tutto concorre a una scrittura a incastri, che non confonde, tuttavia. Un entrelacement ordinato, pur contenente il magma del labirinto. 
Una narrazione dominata dal verbo e dal sostantivo “potere”: un personaggio che potenzialmente attraversa luoghi, spazi, tempi ed epoche. Ma in nuce rimane sempre attaccato alla stasi del fare umano. Un libro di movimento che è la negazione stessa del movimento. 
Ivo Brandani è affetto dalla stasi del questuante: domande su domande, che nascono non dalla curiosità, non dallo stupore, non dalla meraviglia, ma dal tedio, matrice che permette una coincidentia oppositorum che annulla ogni spiraglio di dialettica, che sterilizza ogni germe di dinamismo. 
Nel presente c’è l’attesa, in un aeroporto (precisamente di Sharm el-Sheikh), luogo spersonalizzante per eccellenza, in cui la persona (anche etimologicamente intesa come “maschera”) diventa un numero, un qualsiasi della massa (anonima a sua volta). Un’attesa che potrebbe portare a qualcosa: ma a cosa? 

La Storia: questo immenso palcoscenico dai volubili impresari


L’armata dei sonnambuli
di Wu Ming

Einaudi, 2014
pp. 792


La prima cosa che va detta di questa nuova avventura letteraria del collettivo è: comunque complimenti. Ci vuole un grande sforzo, un lavoro importante di ricerca, di documentazione, di frequentazione di archivi per imbastire un romanzo di tale portata e qualità. Questo sforzo va riconosciuto, ne vanno esaltati ambizione e risultato.
Il problema semmai è che i livelli di “Q” non sono raggiunti. “Q” resta quel capolavoro d’esordio affascinante e perfetto che continua a perseguitarmi. Ricordiamolo: ispirandosi alla vicenda dell’oscuro predicatore anabattista Tiziano, i bolognesi Wu Ming, che all’epoca si firmavano Luther Blisset, costruirono una storia dove Tiziano assume questo nome dopo essere stato un anonimo studente tedesco di Wittenberg, un discepolo di Muentzer, Gert dal Pozzo protagonista dell’epopea anabattista, membro di una setta di Anversa capace di ordire una colossale truffa ai danni dei padroni d’Europa, i banchieri Fugger, e il tenutario di un bordello di Venezia, in stretto contatto con librai, editori e finanzieri sefarditi che diffondevano in segreto “Il Beneficio di Cristo”, opera che all’epoca del concilio di Trento prospettava una pacificazione con i protestanti.

"La pioggia fuori" di Ekaterina Josifova, Premio Ciampi 2013 sezione straniera


La pioggia fuori
di Ekaterina Josifova
Premio Ciampi Valigie Rosse 2013

p. 79



Ekaterina Josifova è una delle voci più importanti della poesia bulgara contemporanea. Autrice che ha alle spalle già tredici raccolte poetiche. Artista da anni impegnata in un’operazione di “ribaltamento nel canone letterario bulgaro”, come ha scritto Mitko Novkov nella prefazione al nostro libro. Poetessa autentica, fonte d’ispirazione per le nuove generazioni.

La pioggia fuori è l’antologia realizzata per la sezione straniera dell’edizione 2013 del “Premio Ciampi”. Il premio, inaugurato nel 2010 dal progetto editoriale Valigie Rosse, che prevede la pubblicazione di due libri; “una plaquette inedita di un poeta italiano e un’antologia o raccolta di un poeta straniero”. Volumi molto eleganti sia dal punto di vista estetico che editoriale, che compongono la piccolissima ma estremamente raffinata collana diretta da Paolo Maccari e Valerio Nardoni.

La raffinatezza però è sempre una questione di metodo e di qualità. Per questo motivo alla realizzazione dell’antologia ha partecipato una squadra di indubbio valore; dal curatore Juan Antonio Bernier, poeta e fine conoscitore della poesia bulgara, al già citato prefatore Mitko Novkov, dalla giovane e ottima traduttrice Alessandra Bertuccelli, ai due poeti Andrea Inglese e Giacomo Trinci, che hanno fornito una preziosa collaborazione. Non poteva che venirne fuori un lavoro di altissimo livello.

Il ritorno magnetico e dissacrante di Irvine Welsh

La vita sessuale delle gemelle siamesi
di Irvine Welsh
Guanda, 2014

pp. 426
€ 18.50
Traduzione di M. Bocchiola

«Sui nostri social network psicotici fingiamo di poterci ridurre a un ordine cronologico, e invece siamo uno stufato, una pentola che non smette di ribollire e cuocere.» (p. 298)

Ci aveva abituati alla forza verbale, a trame che ti rapiscono, ti aprono a spintoni mondi che non sempre vuoi vedere, ma poi ti conquistano. Narrazioni potentissime, quelle di Irvine Welsh, da Trainspotting in poi, senza mai abbassare l'aggressione narrativa e verbale. Normale, quindi, aspettarsi un altro schiaffo con questo nuovo romanzo, che scortica la potenza dei media, sempre con la consapevolezza che «South Beach resta un rifugio cotto dal sole per pagliacci dello struscio e narcisi disperati». (p. 100)
Impietoso, sarcastico, grottesco a tratti ma terribilmente verosimile, nonostante le due protagoniste siano quanto di più difficile da tratteggiare ci sia. Lucy, l'io-narrante principale, è un'insegnante di fitness che sa calcolare le calorie di qualsiasi pasto, e sevizia le sue clienti sovrappeso con esercizi massacranti e insulti vari (sempre e comunque edulcorati rispetto all'aggressività verbale dei suoi pensieri). Lena, al contrario, è una ragazza di novanta chili che si trincera dietro le sue sculture di successo, fatte di ossa animali ricomposte (sì, proprio così) e resina, si abbuffa di bomboloni che le invia sua madre. Sesso libero, compulsivo e quasi abulico per Lucy, che ostenta la sua bisessualità; nostalgie amorose scavate nel sovrappeso per Lena. Eppure, stenterete a crederci, ma Lena e Lucy hanno molte cose in comune, al punto che Lena arriverà a chiedersi:
Sono io che sto cercando di capire me stessa, o lei? Siamo opposte o identiche, come le gemelle siamesi dell'Arkansas? (p. 382)

CriticARTe - Yayoi Kusama, Infinity Net. La mia autobiografia

Infinity Net.
La mia autobiografia
di Yayoi Kusama
Traduzione di Gala Maria Follaco

Johan & Levi, 2013

pp. 158

euro 19,00


Il binomio genio-sregolatezza – o, se più piace, genio-follia – non solo gode ancora oggi di un primato imbattibile tra le categorie interpretative del cosiddetto senso comune, ma, in qualità di spettro piuttosto resistente all'esorcismo, finisce con l'insidiare anche i più sofisticati e disincantati presupposti critici di catalogazione e valutazione artistica. Se nel corso di innumerevoli dibatti, tanto accademici quanto militanti, è stato ormai accertato come il processo di creazione estetica non necessiti di alcuna grave alterazione psichica, è però pur vero che non mancano casi in cui proprio il disturbo cosciente si pone alla base dell'impulso a “fare arte”. Ed è proprio questo che capita anche alla giapponese Yayoi Kusama, come lei stessa racconta in Infinity Net. La mia autobiografia, tradotto da Gala Maria Follaco per Johan & Levi (2013) a un decennio dalla prima pubblicazione in patria.

#LibrinTrincea: Ernst Jünger, "Nelle tempeste d'acciaio"

Nelle tempeste d'acciaio (In Stahlgewittern, 1920)
di Ernst Jünger

Traduzione dal tedesco di Giorgio Zampaglione
Guanda Editore, Parma 2014
pp. 329



Avevamo lasciato aule universitarie, banchi di scuola, officine; e poche settimane d'istruzione militare avevano fatto di noi un sol corpo bruciante d'entusiasmo. Cresciuti in tempi di sicurezza e tranquillità, tutti sentivamo l'irresistibile attrattiva dell'incognito, il fascino dei grandi pericoli. La guerra ci aveva afferrati come un'ubriacatura. Partiti sotto un diluvio di fiori, eravamo ebbri di rose e di sangue. Non il minimo dubbio che la guerra ci avrebbe offerto grandezza, forza, dignità. Essa ci appariva azione da veri uomini: vivaci combattimenti a colpi di fucile su prati fioriti dove il sangue sarebbe sceso come rugiada. "Non v'è al mondo morte più bella..." cantavamo. Lasciare la monotonia della vita sedentaria e prender parte a quella grande prova, Non chiedevamo altro.

Agli inizi del 1915 il giovane Ernst Jünger si arruola nell'esercito tedesco e raggiunge il Fronte Occidentale, ansioso di partecipare a quella che a lui e a innumerevoli suoi coetanei si presenta come una meravigliosa avventura, un passo obbligato nel cammino verso l'età adulta.

Jünger, soldato semplice prima, poi allievo ufficiale e infine comandante di plotone, trascorrerà su quel fronte - una serpentina di trincee lunga migliaia di chilometri, dal Mare del Nord alla Svizzera - tutto il periodo della guerra, allontanandosene definitivamente nell'estate del 1918 a causa di una grave ferita al petto, la più grave delle quattordici ferite "collezionate" negli oltre tre anni di combattimenti. Tre anni nei quali il Tenente Jünger, con teutonica precisione, annota minuziosamente gli eventi quotidiani in un diario che sarà il nucleo portante di questo In Stahlgewittern, pubblicato nel 1920 dopo che il padre, letti gli appunti sparsi, lo aveva invitato a organizzarli e a integrarli in senso narrativo in modo da crearne un'opera da dare alle stampe.

Pillole d'Autore: "L'avversario" di Emmanuel Carrère

Finito di leggere L'avversario, ho chiuso il libro e l'ho lasciato da parte per qualche giorno, senza riaprirlo. Allontanarmi dalla storia è stata una necessità, più che una scelta; questo testo sconvolge più di quanto possa suggerire la quarta di copertina e ho avuto bisogno di tempo per riflettere sulla vicenda di Jean-Claude Romand e della sua famiglia, per assimilare quello che avevo letto. 

Per cominciare, è un romanzo verità costruito su un anticlimax, Carrère compie l'interessante operazione di iniziare il libro con un picco di tensione che poi si diluisce in un racconto dai ritmi sempre diversi.
L'autore ha raccontato la storia di Jean-Claude Romand che il 9 gennaio 1993 ha brutalmente assassinato la moglie, i due figli, i genitori e poi ha dato fuoco alla casa dove viveva cercando invano di togliersi la vita. 

Sono bastati pochi giorni di indagini per scoprire che tutta la vita di Romand si reggeva in realtà retta su un'enorme bugia. Una finta laurea in medicina, un lavoro inesistente, una relazione clandestina e appropriazioni indebite ai danni dei suoi familiari: per quasi vent'anni ha mentito a tutte le persone della sua vita. 

CriticaLibera - I colori del romanzo






Con la modernità letteraria nasce il romanzo. Una gestazione lunga, ma che ha prodotto risultati notevoli: oggi la maggior parte di ciò che leggiamo è un romanzo. Per la storia della letteratura italiana il processo è stato ancora più lento che nel resto d'Europa, però tra l'Unità d'Italia e gli inizi del secolo successivo vengono alla luce i “grandi romanzi italiani”: Mastro Don Gesualdo, I Vicere, Il Piacere, Il Fu Mattia Pascal, Una Vita. Eccetera. Si assiste a una vera e propria proliferazione del genere e ad un dinamismo che comporta presto la ripartizione in sottogeneri: verista, di formazione, epistolare, per ragazzi, d'avventura. Il romanzo si fa complesso, assume la piena legittimità. Alcuni sono generi nuovi, altri hanno alle spalle una certa tradizione (si pensi al romanzo storico). Molti autori lavorano su piani diversi, la struttura è complessa e variegata, il romanzo è per tutti. Negli anni 30 del 900 il romanzo esplode. Il genere si consolida in modo straordinario e lo fa anche partendo dal basso. Con due nuovi tipi di romanzo: il giallo e il rosa. Si tratta di una letteratura di genere, forme di storytelling che emergono con la modernità.

CriticARTe - Giuseppe Fornari, "La verità di Caravaggio"



La verità di Caravaggio
di Giuseppe Fornari
Nomos edizioni, 2014

pp. 172
€ 19,90


Docente non di storia dell’Arte, bensì di storia della filosofia all’Università di Bergamo, Giuseppe Fornari propone in questo saggio un’interpretazione personale dell’opera di Michelangelo Merisi da Caravaggio.
Confrontandosi sia con alcune montature nate dall’enorme e crescente notorietà dell’artista seicentesco, sia con la critica storica prima e con quella recente poi, egli elabora una teoria non scevra da convinzioni ideologiche personali.
Parte dall’assunto che “Caravaggio va cercato là dove egli voleva essere trovato”, cioè nelle sue opere e, per questo motivo, ne analizza molte in modo dettagliato e tecnico, a partire dai lavori giovanili, definiti “precaravaggeschi”, con la loro trasparenza vetrosa e il non rifiuto del colore, fino agli ultimi capolavori prima della morte.
I miti da sfatare sono due: lo psicologismo e il naturalismo. A Caravaggio non interessa la psicologia dei personaggi, ecco perché i suoi ritratti sono una delusione sotto questo profilo. Egli inserisce la figura umana nel complesso dell’azione, racconta un fatto così come si svolge, nella sua immediata e cruda verità, senza scandagliare l’animo dei protagonisti e senza cercare il contatto estremo con la realtà, bensì, piuttosto, l’allusione al simbolo religioso. (Fornari, infatti, riconduce lo sviluppo della cultura a esperienze estatico religiose). Il canestro di frutta, ad esempio, presenta pomi corrotti, in omaggio, sì, alla nuda oggettività di ciò che ci circonda, ma anche come simbolo barocco di caducità, di effimero, di corruzione.