#vivasheherazade - The story of a modern woman: un esempio di New Woman fiction


THE STORY OF A MODERN WOMAN 
di Ella Hepworth Dixon


Come si accennava a proposito di New Grub Street, l’ultimo ventennio dell’Ottocento è caratterizzato da grandi mutamenti sociali e culturali che investono l’Inghilterra segnando il declino dell’epoca vittoriana e dei suoi valori e da cui scaturisce una mentalità nuova che porterà nei decenni a seguire allo stravolgimento dei rigidi codici comportamentali borghesi. Ma è anche un’epoca contraddittoria, dove ad elementi di democratizzazione ed emancipazione si accompagnano resistenze e forti critiche.

La figura che –insieme al dandy- diventa emblema di questa fin de siècle è la New Woman[1], etichetta usata per indicare una femminilità del tutto nuova che si pone in netto contrasto con il tradizionale simbolo dell’angelo del focolare; sono donne delle classi medie, con un’istruzione superiore, più libere ed emancipate della generazione che le ha precedute e che sono pronte a rivendicare i diritti civili troppo a lungo negati al genere femminile. Esse proseguono infatti le battaglie politiche di Mary Wollstonecraft[2] e di autrici come Frances Trollope, Elizabeth Gaskell, Charlotte Bronte e George Eliot. La New Woman si inserisce quindi nel dibattito sulla questione femminile avendo alle spalle una solida tradizione di intellettuali e scrittrici le quali, ognuna in forme diverse, hanno dato il proprio contributo nel tentativo di cambiare il sistema vittoriano e garantire anche alla donna quei diritti civili che sono la base di una società moderna e liberale; la novità invece sta in una più completa trasformazione di queste nuove donne che inequivocabilmente appaiono moderne, più libere e consapevoli, non soltanto nelle idee e richieste politiche ma anche negli atteggiamenti e nel costume. Diventano quindi icone di questi decenni, oggetto di discussione su giornali e saggi, ma anche protagoniste di romanzi (scritti da donne ma anche da autori maschi) e il dibattito intorno alla nuova femminilità che sembra rifiutare - o quantomeno non accettare allo stesso modo delle loro madri- il tradizionale ruolo della moglie vittoriana si fa spesso molto acceso. I detrattori (non solo uomini ma anche scandalizzate intellettuali donne) accusano la New Woman di non rispettare gi impegni di moglie e madre preferendo la ricerca di una pericolosa indipendenza fuori dalle mura domestiche, di immoralità per la spregiudicatezza con cui si presentano in pubblico e si muovono in città senza un accompagnatore esponendosi al pericolo e al vizio, seguendo la nuova moda che abbandona i rigidi corsetti e si fa più comoda. Alla critica sull’emancipazione di queste donne si lega inevitabilmente il discorso etico e l’accusa contro tali «wilde women» [3] dalla morale discutibile che tentano di liberarsi dai vincoli sessuali. Tuttavia, per la New Woman di fine secolo l’emancipazione sessuale non è tra gli obiettivi contemplati e nonostante si dipingano queste donne come sessualmente spregiudicate, il movimento è a quest’altezza storica ancora tendenzialmente puritano; ciò che chiedono a gran voce sono il diritto all’istruzione e all’indipendenza economica , cardini del movimento e base imprescindibile per ogni possibilità di emancipazione, a cui si legano il riconoscimento della proprietà personale anche per le donne sposate e il suffragio femminile.

Per quel che concerne il panorama più strettamente letterario, la New Woman fiction ovviamente non nasce improvvisamente e priva di influenze e precedenti, ma si pone in continuità e sviluppo di tematiche che con esiti e intenti diversi erano state trattate da autori vittoriani: pensiamo per esempio alla Dorothea Brooke di George Eliot protagonista di Middlemarch, a Shirley di Charlotte Bronte, a Margaret Hale di Elizabeth Gaskell, senza contare i già citati saggi della Wollstonecraft e della Trollope, di John Stuart Mill e della moglie Harriet Taylor[4]. A partire dagli anni ’80 quindi vengono pubblicati molti romanzi che danno voce a queste nuove donne apparse sulla scena culturale, di cui il primo esempio è l’eroina di The story of an African Farm (1883) della sudafricana Olive Schreiner, prototipo della moderna New Woman che sarà protagonista di numerosi altri romanzi di autori anche molto diversi per formazione ed intenti.
In questo filone si colloca quindi The story of a modern woman, unico romanzo della Dixon che, va precisato, finora non è mai stato tradotto in italiano; esiste tuttavia un’accurata edizione in inglese curata da Steve Farmer per la Broadview literary texts basata sulla prima versione pensata dall’autrice, interessante anche per l’apparato di note e testi critici in appendice. A chi abbia un minimo di dimestichezza con l’inglese questo breve romanzo non sarà quindi difficile da comprendere, con la speranza che prima o poi qualche editore italiano lo renda disponibile anche per un pubblico non anglofono. L’autrice, nata a Londra nel 1857 in una famiglia borghese, grazie al lavoro di editor del padre e ad un’istruzione non comune in quegl’anni per una donna era presto entrata in contatto con il mondo intellettuale. Alla morte improvvisa del padre la necessità di badare a sé stessa la costringe a cercare quindi un impiego nel mondo dell’editoria ed inizia l’attività di giornalista che la porterà a lavorare come direttore di riviste femminili parallelamente all’impegno come scrittrice di racconti, saggi, soggetti per il teatro e questo unico romanzo pubblicato nel 1894. Una vita passata frequentando i circoli letterari di Londra, nel pieno delle trasformazioni che hanno coinvolto l’industria culturale e la società del tempo, che la Dixon registrerà nei suoi testi; morirà nel 1932, nubile.
Londra è il centro del mondo in cui si muove la Dixon e la capitale inglese degli anni ‘80 sarà il palcoscenico su cui si svolge anche la vicenda privata e professionale di Mary Erle, protagonista del romanzo in cui non mancano numerosi punti di contatto con la vicenda biografica dell’autrice. The story of a modern woman è infatti storia di formazione, emancipazione e ricerca della propria indipendenza della giovane eroina che, alla morte improvvisa del padre, si ritrova senza guida e con scarsi mezzi economici e decisa quindi a trovare un impiego. Persa la madre quando lei e il fratellino Jimmy erano ancora molto giovani, Mary grazie al padre aveva ricevuto un’istruzione non comune per una ragazza e aveva sviluppato un profondo interesse per la cultura che presto l’aveva portata ad assistere il professor Erle nel proprio lavoro. Gli anni giovanili erano quindi trascorsi tra studio, letture stimolanti, soggiorni all’estero e primi amori; ma la spensieratezza era spesso adombrata dalla precoce coscienza della profonda ingiustizia del mondo che affligge soprattutto le donne. Rimasta sola con il fratello –per fortuna già da tempo sistemato in collegio ad Oxford-  Mary si trova quindi costretta a pensare seriamente al proprio futuro e decisa a guadagnarsi da vivere tentando di essere ammessa alla Royal Academy. Nonostante si sia dedicata all’arte per molto tempo, Mary tuttavia non viene accettata e decide di cercare un impiego come giornalista; grazie al nome e alle frequentazioni giuste nella buona società londinese, le vengono quindi offerte diverse opportunità e la ragazza si immerge nel lavoro, decisa a garantirsi la propria indipendenza. La vicenda professionale dell’eroina si intreccia perciò alla vita privata: la sincera amicizia con Alison Ives, appartenente a quella buona società su cui Mary scrive regolarmente, con la quale condivide anche una certa insofferenza per gli impegni mondani e un sentimento profondo che le lega come sorelle; e il rapporto con Vincent Hemming, da sempre in bilico tra amicizia e amore, che porta Mary a riflettere tra desiderio di libertà e sentimento. Alla vigilia di un viaggio che lo allontanerà da Londra per molti mesi, Vincent chiede infatti a Mary di sposarlo, in una scena dove la passione tra i due appare subito evidente ma allo stesso tempo frenata dai dubbi della giovane. Il sentimento dell’uomo è sicuramente profondo, ma l’indecisione di Mary e il suo desiderio di indipendenza, ma soprattutto l’ambizione di Vincent che aspira ad una buona posizione sociale ed economica lo spingono, di ritorno in città dopo mesi di assenza – e durante i quali Mary ha subito ancora una volta il dramma femminile dell’attesa-, a frequentare una giovane ereditiera con la quale di lì a poco si fidanzerà ufficialmente. Una scelta che forse porterà alla soddisfazione delle proprie aspirazioni, ma che allo stesso tempo non cancellerà il sentimento che nonostante tutto nutre per Mary, alla quale non è disposto a rinunciare.
Frattanto la carriera giornalistica di Mary era proseguita tra resoconti di feste dell’alta società, brevi storie che accompagnano i disegni dell’artista del momento e il tentativo di scrivere un romanzo giudicato però troppo sperimentale dagli editori e quindi impossibile da pubblicare a meno che la ragazza non riesca ad adattarlo al gusto del pubblico facendone un tradizionale three deckers più nelle corde dei lettori. Impegnata nel ruolo di giornalista e romanziera, Mary si aggira per la città osservando le persone e le loro storie potenziali: signore eleganti, giovani innamorati, e una ragazza vestita in modo provocante che chiaramente aspetta un amante che purtroppo non verrà. Una città grande e cosmopolita, ma dove può capitare che le storie di quelli che all’apparenza sono sconosciuti si intreccino in forme che paiono inspiegabili e che non sempre portano ad un happy ending.
Nello spazio piuttosto breve di nemmeno duecento pagine la Dixon riesce nella sua eroina a ricostruirne la complessità femminile, il tormento di un’anima divisa tra desiderio di libertà e passione, tra il coraggio di costruire da sé il proprio futuro e l’arrendevolezza al sentimento. Londra, così ricca di possibilità, è lo scenario ideale per questa storia di autodeterminazione e Mary è pronta a sfidare quella città che si dispiega davanti a lei mentre la osserva –in una costruzione circolare del romanzo, all’inizio e alla fine della storia- dall’alto della collina dove è sepolto il padre. È una new woman pronta a sfidare la città e le convenzioni dentro e fuori le mura domestiche, in un bruciante desiderio di vita più che di ambizioni letterarie che comunque vengono presto represse dalle richieste del mercato o dalla marginalizzazione delle donne in precisi settori –minori sa va san dire-  dell’industria culturale. Insieme a Mary entriamo quindi nei moderni meccanismi del New Journalism e dell’ambiente culturale in genere, e con lei osserviamo la città con gli occhi del romanziere in cerca di storie da raccontare.
Ma è più di tutto la riflessione su questa nuova femminilità a rendere così interessante questo romanzo - giustamente rivalutato dalla critica nell’ambito di gender studies e dibattito sulla New Woman fiction- la ripresa di un topos tradizionale come il tema dell’attesa vissuta sia da Mary che dalla ragazza intravista nel parco (che il lettore capirà essere un personaggio determinante per alcuni sviluppi della storia) ma con esiti e sentimenti tanto diversi, e soprattutto il messaggio di solidarietà femminile che fortissimo emerge dalla pagine. Stranamente è proprio Alison, il personaggio che in un primo momento potrebbe apparirci come il meno moderno ed emancipato o poco interessato alla questione femminile, ad essere invece portavoce di questo nuovo spirito anti individualista, di una sorellanza che diventerà nel corso del Novecento uno dei cardini del movimento femminista e che la ragazza riassume nella semplicità di una sola frase rivolta all’amica:
Promise me that you will never, never do anything to hurt another woman. […] If women only used their power in the right way! If we were only united we could lead the world[5].
 Parole che all’animo diviso di Mary suonano ancora più intense. Perché non esiste un compromesso, sfera emotiva e sessuale possono prevalere su onore e libertà o viceversa, ma una cosa necessariamente esclude l’altra e qualsiasi aspetto l’eroina scelga di sacrificare sarà una decisione definitiva. L’eros, ancora una volta presentato come punto debole delle donne, diviene nella New Woman fiction anche qualcosa di incompatibile con la battaglia femminista, la parte affettiva e sessuale di sé un ostacolo sulla strada dell’emancipazione: impossibile sembra infatti conciliare il tradizionale ruolo della moglie e madre vittoriana relegata al ruolo di angelo del focolare, con la donna nuova colta e indipendente che si muove libera per le vie della città chiedendo la parità con gli uomini dentro e fuori le mura domestiche.
Un romanzo breve che permette al lettore di riflettere quindi su molte delle questioni fondamentali del dibattito intorno alla New Woman di fine secolo, una nuova figura di donna vista nell’ottica di prototipo di quella femminilità che troverà la prima più completa espressione nel movimento delle suffragette, per arrivare infine al femminismo novecentesco. Tra spinte sperimentali e legami con la tradizione vittoriana, il romanzo della Dixon si fa perciò interessante interprete di un’epoca, delle sue contraddizioni e di un fenomeno, la New Woman, che merita di trovare pienamente il giusto posto nella storia del movimento femminista.   



[1] La prima ad usare l’espressione di New Woman in riferimento alla nuova femminilità di fin de siècle pare essere stata Sarah Grand che lo ha usato durante uno dei suoi dibattiti pubblici e poi ripreso su giornali e fiction
[2] Uno su tutti, il saggio A vindication of the rights of woman
[3] Espressione usata da Eliza Lynn Linton in The wilde women as social insurgents (Nineteenth Century, ottobre 1891)
[4] Di J.S.Mill ci riferiamo qui soprattutto a The Subjection of Women (1869) su cui grande influenza ha avuto la moglie
[5] “Promettimi che mai, mai farai qualcosa che possa ferire un’altra donna. Se soltanto le donne usassero il loro potere nel giusto modo! Se solo fossimo unite potremmo guidare il mondo” traduzione di Debora Lambruschini