Una lettera senza indirizzo: «Giorni di spasimato amore» di Romana Petri

Romana Petri
Giorni di spasimato amore
Longanesi
2014



Una questione di prospettive: un sottile gioco tra la realtà delle cose, la loro negazione, e il mondo dell’irreale, dell’onirico. Un fiume che sfocia nel mare dell’ucronia e dell’utopia. Chi è il pazzo? Chi è il sano? Chi se ne va? Chi resta? Chi muore? Chi vive? Chi vince? Chi perde? Cos’è la solitudine? Cos’è il silenzio? Tutto e niente. Ombre e luci. Vicino e lontano. Il romanzo di Romana Petri, Giorni di spasimato amore, è tutto questo. 
É una continua comprensione della realtà, dei suoi limiti, e, al contempo, la negazione degli stessi. 
Non c’è un protagonista in carne e ossa: potrebbe essere Antonio, potrebbe essere Lucia, potrebbe essere Teresa, potrebbe essere Silvana. In realtà, il vero protagonista è il tempo, ossessione, negata o accettata, di tutti i personaggi. Un tempo che si dilata, che si restringe, che passa, che si immobilizza, che corre, che cammina lentamente. Eppure un tempo presente, sempre: persino in quello che è stato (e non è più) e in quello che sarà (e che potrebbe non essere). 
Romana Petri gioca con la percezione della vita e della morte, con la memoria, intesa come tempo, ma anche concretizzata in uno spazio, in ettari di terreno: un gioco sapiente e riuscitissimo tra quello che è, quello che non è, quello che sarebbe potuto essere, quello che non sarà, quello che sarà. 
Giorni di spasimato amore è un romanzo perfetto, costruito secondo un ritmo binario, che crea, volutamente, potenti cesure temporali, ma continuità spaziali. Una casa, sempre la stessa, intervallata da un campo (spazio aperto del primo amore), un ufficio postale (zona limbo, anonima, priva di colori e priva di suoni, ma crocevia di vite, di identità, di desideri, di speranze e di emozioni), un ristorante da matrimonio, un albergo da luna di miele (spazi claustrofobici, dove la tragedia del secondo (non) amore vede gli albori). 
Per chi scrive ripercorrere la trama è impossibile, perché il lettore non può accontentarsi: deve vivere le parole e la storia che esse raccontano. Leggere questo romanzo significa immergersi in un mondo altro, lontano, ma anche straordinariamente vicino. Un mondo che potrebbe essere paragonato (e si prende in prestito un’immagine della stessa Petri) ai fuochi d’artificio: vicini nella percezione della vista, ma in realtà lontani, essendo ignoto, e soprattutto non visibile, il loro luogo di nascita. 
Un romanzo popolato di ombre, ma anche di vivi; di corpi, funzionanti o no, ma anche di fantasmi; di cuori, anatomicamente intesi, ma anche di anime. 
Un amore che nasce attraverso uno scontro, durante uno scontro ancora più grande, la guerra; una conoscenza che si consuma attraverso gli appuntamenti per andare alla borsa nera; una fenomenologia dell’innamoramento di Antonio descritta dalla Petri in ogni dettaglio, in ogni piega dell’anima; una dichiarazione che occupa pochissime righe, come a voler conservare la sacralità del momento; la convinzione di Antonio e Lucia che l’amore è più forte della contingenza, e i desideri, i progetti, i sogni e le speranze che nascono, in riferimento a quello che sarà dopo. Il coraggio di amare e di pensare al futuro in mezzo allo scoraggiamento generale. 

La storia, la tragedia mondiale, il male non possono avere l’ultima parola: ma la morte può averla. E quel caso che li aveva fatti incontrare decide di sviare una pallottola.
E quella deviazione permetterà a una voragine di aprirsi e di inghiottire, pezzetto per pezzetto, la realtà, mischiando i piani della sanità mentale e della follia. 
Ripercorrere le tappe di questo romanzo è il più grande torto alla tecnica narratologica di Romana Petri, volutamente e razionalmente confusa. Il lettore non può perdersi nel labirinto del tempo (intersecarsi di piani temporali, ripetuti e continui passaggi), perché gli spazi (circoscritti al limite della claustrofobia) sono dalla sua parte. E laddove gli spazi si allargano (luogo principe del romanzo è la mente di Antonio), il tempo si immobilizza (il presente, l’eterno presente, il presente sempre presente a se stesso). 
L’opera è una dichiarazione di poetica in ogni sua parte: una poetica pensata e pensante, che poggia le basi su elementi forti, struggenti e consolatori. Un poetica alfabetica (si prende in prestito una metodologia già usata da Cristiana Lardo per leggere i microcosmi narrativi).

A come Astrazione e Attesa: l’uomo astratto non esiste; l’attesa, in fondo, non esiste, perché si aspetta il nulla. Ma si apprendono la solitudine e il silenzio. 
B come Bellezza e Battiti: la bellezza (di ogni cosa) che passa, ma che lascia traccia attraverso il fascino; i battiti sempre tenuti sotto controllo, come a voler dare un ritmo alla vita, che, invece, dà solo l’illusione di poter essere ritmata.
C come Corpo: si può curare il corpo, ma non si può curare l’anima. E l’ennesima illusione è che il rinvigorimento del corpo possa coincidere perfettamente con la salute (etimologicamente intesa) del cuore (non anatomicamente inteso).
D come Discrezione e Dialetto: vivere nella discrezione significa vivere nell’astrazione, quindi nella torre d’avorio del proprio io, fortificato; il dialetto è l’unica voce altra restituibile, perché endofasica, del genuino. 
E come Elemento acquatico ed Esistenza: l’acqua è l’elemento ancestrale, mitico, consolatorio che va a riempire i vuoti lasciati dalla vita; l’esistenza è continuamente provata e negata dalle contingenze: tutto esiste, ma tutto non esiste. 
F come Fuochi artificiali e Futuro: i fuochi d’artificio sono simbolo di tutto quello che appare, ma non è, ma è, ma che potrebbe essere. Sinonimi del futuro? Futuro come limbo che passa, o che sta per arrivare, a cui gli uomini si adattano e si rassegnano.
G come Gatto e Gioco: il gatto è la consolazione, è il presente che si intrufola nel presente stesso. Il gioco è il romanzo stesso: un tema e contro-tema, un altare e un contro-altare, un coro e un contro-coro tra chi si allontana, chi ritorna, chi non ritorna. Tra chi appartiene, chi non appartiene e chi appartiene a metà. 
I come Indirizzo e Inversione (di ruoli): la mancanza di indirizzo in una lettera che si porta dietro per tutta la vita. E se quell’indirizzo non ci fosse? Se si stesse assistendo semplicemente alla mancanza di ogni luogo? Se si stesse nell’utopia? E se questa utopia fosse anticipata dall’inversione di ruoli tra madre e figlio? Se la richiesta della madre di dormire nel letto con il figlio dia vita alla catena di intersecazioni tra fantasia e ricordi?
L come Labirinto e Lontano o Labirinto Lontano: un equilibrio perfetto tra indistinto, lontano, labirintico, distacco dal reale e dal sogno, rifugio nel reale e nel sogno, tra accettazione e rifiuto silenzioso. Un labirinto (luogo dell’io nell’io) di rivoluzioni contro il reale, ma anche contro il sogno. Contro il vicino. Una rivoluzione labirintica lontana, perché il vicino ingannerebbe la prospettiva e la vista. 
M come Mare e Madre e Memoria: il mare non può essere asciugato, perché non è superficiale, perché orizzonte della redenzione, promessa di una morte che arriverà, e che avrà i colori dell’acqua, elemento a cui tutto sempre torna. Lo sguardo che si perde nel mare permette la nullificazione del contingente, del superfluo, e la permanenza dell’essenziale. Come la madre, vera essenzialità in grado di rallentare, dilatare, di stare e di non stare. Come ruolo da sostituire e onorare. E come memoria, da onorare e maledire, da rispettare e acciaccare, da recuperare e da superare. In un gioco di specchi e riflessi che vortica, tanto in vita quanto in morte. 
N come Nuova (vita): una nuova vita che si allunga grazie alla vecchia vita. La novità che è meramente propaggine del ricordo e del passato. Il passato che si fa garante del futuro, reagente del futuro. Un nuovo che ha come fondamenta il vecchio, il già stato. Un nuovo che si guarda come se fosse altro da sé, come se non si riguardasse. 
O come Odori e Ombra e Onomatopee: le ombre hanno odori? Hanno colori? Hanno suoni? Forse. Un ombra si può accarezzare? Forse. Nell’interstizio di un vortice contenente cerchi e cerchi concentrici. In un suono, in un rumore che può esistere solo se trasposto in un piano onomatopeico. In un altrove che può esistere, ma può anche non esistere. 
P come Pioggia e Perdita: aspettare il tempo, aspettare il succedersi del tempo equivale a sentirsi piovere addosso una pioggia che non c’è. Significa piovere da se stessi, pioversi addosso. Significa liquefarsi per astrarsi nell’altrove dell’io. Significa perdersi, perdere per non ritrovarsi, per non ritrovare. Ma significa appartenersi, perché ci si pensa. Perché si pensa. 
Q come Quid: quid come discrimine. Quid come orizzonte. Ma Quale è Questo Quid? 
R come Ricordo e Redenzione e Ritmi: il ricordo è un qualcosa di stabilito, che accade in maniera irripetibile. Vengono date delle sofferenze alla nascita, oltre le quali ci si anestetizza al dolore. Il ricordo del dolore non può essere redento, se non guardando a un qualcosa che è altro dal normale. All’orizzonte, per esempio, dove tutto si distingue congiungendosi. E dove i ritmi che l’uomo impone alla propria vita mostrano il loro vero volto: nulla può essere contato, nulla può essere ritmizzato. Perché nulla, in realtà, appartiene davvero: perché, in fondo, tutto fugge, tutto si allontana. 
S come Strappo e Solitudine e Sospiri: lo strappo è ciò che più appartiene alla sfera del sentire umano. L’uomo riconosce in ogni accadimento uno strappo, una (micro)rivoluzione a quello che era in precedenza. E nel momento che precede lo strappo si scopre come l’urlo soffocato, il silenzio imposto siano il vero lasciapassare per raggiungere la feconda solitudine. Una solitudine che non esclude, ma include. Che screma, restituendo, forse, il vero senso della vita. Che non accetta paludi o scorciatoie. Una solitudine che si alleggerisce con la consapevolezza che le scorie possono essere espunte non dalle lacrime, ma dai sospiri, dall’aria interna all’io medesimo. 
T come Telegrammi: la grande tela di Penelope. Il telegramma come il feticcio della realtà, come la fonte della commozione, della pietàs, e non dell’ilarità. Telegramma come emblema di una vita sempre uguale, regolata da ritmi estranei e imposti (o meglio appiccicati). Una pretesa di previsione di sapere. 
U come Urgenza e Unicità e Uccelli: l’urgenza delle comunicazioni commuoveva Antonio perché si legava al ricordo della nascita dell’amore. Un amore che, consumandosi nel suo stesso sentimento e ricordo, esaurisce l’unicità degli individui, trasformandoli (vivi e morti) in fantasmi di se stessi. Fantasmi che si perdono nel volo degli uccelli, nella volontà delle rondini (di pascoliana memoria?) di preparare un nido, di andarsene, di ritornare e di risistemare il già fatto. 
V come Valigie e Vitello e Voce: le valigie di Teresa che se ne vanno, lasciando, però, il contenuto nella casa. Le valigie di Lucia che restano, ma che non vengono mai disfatte, nell’attesa costante di una (di)partita. Quella valigia di Lucia che comincia a farsi nel momento in cui un vitellino vede per la prima volta la vita, nonostante la voce dei tedeschi, colpita dalla damnatio memoriae dell’afasia. 
Z come Zimbello: l’aggrapparsi al passato, l’immobilizzare il presente, il non prendere in considerazione il futuro porta Antonio a farsi zimbello per gli altri e per se stesso. 

I Giorni di spasimato amore di Romana Petri sono questo e molto altro: sono lo spasimo, quello vero, quella che proviene dalla radice dell’anima, di ognuno e di nessuno.