"L'inverno dell'alveare", di Devis Bellucci



L’inverno dell’alveare 
di Devis Bellucci,
A&B Editrice, 2010

pp. 149

Proteggere e desiderio erano le parole importanti, pensò lungo la strada. Allora si ricordò dei suoi primi giorni di vita. Quando aveva chiesto alla Nutrice perché l’avessero messa una settimana a guardare fuori dalla porta, lei aveva risposto: perché tu imparassi a trasformare i sogni in desideri. “Per superare l’inverno  bisogna coltivare un desiderio” scrisse la piccola esploratrice. “Bisogna proteggerlo” scrisse ancora. “Bisogna trasformarlo in un sogno” concluse.[1]
Questo racconto, ambientato all’interno della società delle api, è simbolicamente soprattutto un colloquio irreale  tra una “buona Nutrice” e una lei indefinita, tra un’ “adulta” e una piccola e curiosa ape esploratrice. Il plot della favola si svela lentamente, tanto che, nei primi capitoli, al lettore sembra di entrare in un immaginario percorso finale di un embrione in gravidanza.  Alla scoperta della vita, la piccola esploratrice instaura un rapporto privilegiato con la Nutrice che la accompagna nelle prime fasi di crescita, nel suo inserirsi come soggetto vivente all’interno della comunità; la circonda la bellezza della Natura e l’esploratrice vive tutte le gioie e le insicurezze peculiari al periodo infantile, come ad esempio la paura del buio:
Dettaglio o no, era il buio che non la lasciava dormire, e se nel buio si sforzava di pensare al polline non riusciva a dormire lo stesso. «Nutrice, anche tu hai paura del buio?» «Certamente. Però ricorda, non ti devi preoccupare del buio. Il buio non ti riguarda». Poi s’alzò, s’allontanò e scomparve. Non sembrava che Nutrice avesse paura del buio. Era una bugia, ecco che cos’era. Allora la piccola cominciò a tremare di vergogna perché era ben diversa da Nutrice.[2]  
Alla Nutrice è assegnato un ruolo decisivo per la sua crescita: saggia ed enciclopedica, quasi da vera erudita, segue la piccola ape in ogni spostamento, prendendosene cura. La personificazione crea una significativa simbiosi tra la Natura e la vita terrena, tra la protezione dell’esploratrice all’interno della comunità delle api e la crescita del fanciullo all’interno della società umana, con le stesse ansie, gli stessi progetti  e la medesima speranza nell’osservare il mondo che scorre davanti…
L’aria diventava fredda e il sole scendeva dietro le montagne. Tutto era senza energia, tutto si spegneva. La piccola, dalla sua altalena, guardava il sole cadere con tutti quei colori uno sull’altro, il sole più colorato dei fiori, il sole col colore delle viole e senza nessun profumo. Poi veniva la sera senza fare rumore[3]
Come in una qualsiasi vera comunità, lentamente la piccola si appropria di uno spazio vitale, inizia a conoscere l’ambiente che la circonda, il mondo naturale prende corpo, si anima, si colora, si tinge anche di arrabbiature per le ferree regole di vita e per un destino che ancora non le appartiene, e che  non le verrà rivelato. La sua perspicacia la porta a interrogare spesso la Nutrice e anche le sue compagne di viaggio che nel frattempo ha imparato a conoscere, si interroga sulla saggezza altrui e sui cambiamenti sorprendenti che la Natura le offre di continuo:
Quella mattina la piccola, guardando verso le montagne, s’accorse che non erano più bianche. Sono cose che capitano, pensò. Ma non riusciva a smettere di pensarci. Andava e veniva dall’alveare e intanto teneva gli occhi verso l’orizzonte dove i monti erano verdi e color della terra sulla cima. Ora brillavano meno ed erano molto più brutti. Mentre la piccola guardava verso le montagne, gli uomini delle cascine erano già andati al lavoro. Gli uomini si vedevano poco. Solo al mattino, quando andavano al lavoro sui loro mezzi rumorosi, e la sera, quando rientravano. Erano poco interessanti gli uomini.  Niente a che vedere coi prati. [4]
La personificazione della natura diviene espediente di una favola che in alcuni tratti della narrazione rinvia ai racconti di Mario Lodi: allo stesso modo del percorso di Bandiera, la foglia protagonista della storia di Lodi, in alcuni frangenti cogliamo lo svolgersi del tempo della Natura  similmente al progredire del tempo e alle fasi del ciclo vitale dell’esistenza.
«Che cosa stai facendo?» Le chiese un mattino l’albero. La piccola stava cercando di parlare con un uccello migratore che era appollaiato su un ramo. «Mi sto informando sull’inverno» rispose lei con la matita sulle zampe. «Non è che sei venuta a sapere come può fare un vecchio albero a superare l’inverno senza danni? Sai, ho solo tre foglie adesso e manca ancora tanto tempo. Se a primavera non avrò nemmeno una foglia mi scambieranno per un albero secco. Come sono sfortunato. È una tragedia».[5]
Uno dei leitmotiv che attraversano la favola è l’avversione verso la stagione invernale: è la più fredda e la meno illuminata, è quella che maggiormente incute timore alla piccola e molte sono le tracce dell’intensa reazione emotiva avvertita di fronte al pericolo che l’inverno può provocare a lei e a tutta la comunità, un istintivo moto di repulsione che avviene anche dentro il suo cuore:
«Ho paura di finire stecchita per l’inverno dentro. L’inverno del mondo ha sempre una sua primavera ma l’inverno del cuore chissà quanto può durare». E saltò felice  fra i fili d’erba, scomparendo fra le sue compagne. La piccola scrisse il prezioso insegnamento della cavalletta sul suo quaderno. Aveva capito senz’altro la cosa più importante: che esistono un inverno del mondo e un inverno del cuore. Bisogna difendersi da entrambi, ma l’inverno del cuore è senz’altro peggiore.[6]
Realtà e fantasia si fondono e creano un racconto arricchito da qualche licenza poetica perché «l’acqua della vita scorre in un solo verso e rincorrendo se stessa ha una strada ben precisa per servire al mondo». Una storia che rispetta la realtà naturale delle cose e della Natura, osservata in questo caso da uno scrittore che sa coniugare il fantasioso linguaggio rivolto all’infanzia con spunti di riflessione sul significato di appartenenza ad una comunità, sul dialogo fra diversi e sul profondo rispetto per la vita.   


[1] Devis Bellucci, L’inverno dell’alveare, A&B Editrice, 2010, p. 86.
[2] Ivi, p. 22.
[3] Ivi, p. 45.
[4] Ivi, p. 65.
[5] Ivi, p. 87
[6] Ivi, p. 102