Le Lettere appassionate (e alcuni altri scritti) di Frida Kahlo de Rivera


Dal 20 marzo al 31 agosto 2014 le Scuderie del Quirinale ospitano una retrospettiva dedicata alla pittrice messicana Frida Kahlo (1907-1954), curata da Helga Prignitz-Poda. Molti anni fa, quando la storia dell'arte vantava maggiore autorevolezza e dignità nei nostri licei nazionali (perfino quelli meno gloriosi della provincia) seguii una lezione con film-documentario sulla vita e le opere di questa leggendaria, pasionaria Frida. I semi della sua arte fecondarono la mia nozione del mondo e mai avrei previsto una sua esposizione in Italia, già immaginando di partire alla volta di Città del Messico e della sua casa blu, dove lei nacque e morì, e nel 1958 divenuta Museo Frida Kahlo ovvero, secondo le volontà di Diego Rivera, eredità del popolo messicano. Non mi avventuro qui in considerazioni di natura tecnica sull'opera di Frida, sui periodi della sua produzione né sulle operanti – se pure lo fossero – suggestioni dei vari -ismi del primo Novecento sul suo stile (dal Pauperismo al Realismo magico attraverso il Surrealismo); le quali, in ogni caso, varrebbero a ben poco e sarebbero disorganiche o tutt'al più parziali.
La retrospettiva a cui voglio accostarmi adesso è un'altra, usa altri colori ed è contenuta nelle sue Lettere appassionate (Abscondita, Milano 2002) che ho comprato lo scorso 11 aprile, dopo un'inaspettata e intensa visita della mostra romana. Per la mia esperienza della personalità di Frida, ho ritenuto imprescindibile la lettura dei suoi scritti, e soprattutto di questi: per quadrare il cerchio e completare il quadro della sua storia.

Il tracciato biografico delle lettere (43 in totale) va dal 1924 al 1948 e ha svariati destinatari, dal suo amore adolescente a Diego Rivera, suo marito due volte, dagli amici al suo medico di fiducia ai suoi malcelati amanti e l'ultima, al presidente del Messico Alemán. Nell'indice dei contenuti, alle lettere seguono altri scritti, in ordine: una poesia, l'immagine di un biglietto a caratteri ornati, gli appunti di una conferenza informale in cui descrive il suo Mosè, un'altra poesia, un saggio del 1949 che è un ritratto di Diego scritto per il catalogo di una mostra, un invito, una dichiarazione tratta dall'autobiografia e infine una poesia a Diego.

Come la mostra, anche questa collezione di lettere ha un corredo corposo di fotografie e autoritratti. E in tutti questi Frida non ride mai; qualche volta adombra un sorriso, ad esempio nel ritratto insieme a Rivera del '39, ma sembra che debba sempre durare poco. Complici anche le sopracciglia quasi giunte che a lei non parevano affatto un inestetismo, ma anzi una sottolineatura del proprio femminino. Nelle Lettere Frida non discute mai la sua opera: non occorre. Le sue carte epistolari rispondono, piuttosto, a un bisogno elementare e infantile di comunicazione e di amicizia. E si attestano sulla narrazione – per la quale ha un talento – della vita domestica che presto coinciderà con la vita coniugale; le traversie del suo corpo, insultato troppe volte (prima la poliomielite, poi l'incidente sull'autobus che la spezza in un numero determinato e indeterminato di punti); i periodi di magra, in cui si affanna a cercare compratori per le sue tele; fugaci ma sanguinose requisitorie contro l'ideologia di classe, contro i traditori del comunismo (nella cui Gioventù si arruola a soli tredici anni). Diceva a tutti d'esser nata nel 1910, l'anno della Rivoluzione messicana.
L'immaginario in cui agiscono i sentimenti dell'artista è sempre quello della Cultura messicana, lo sfondo su cui si stagliano i fatti della sua biografia; anche durante i suoi viaggi negli Stati Uniti e in Europa, il Messico libero e quello indigeno, opposto a e ferito dall'arrivismo e dall'arroganza dei Gringos (come lei apostrofa gli americani), resta l'inamovibile alfa e omega. Frida, lei stessa, è una radice etnica. Lo è nei suoi dipinti, nei suoi abiti, nei suoi turbamenti. Ma la sua educazione acquisita è puramente marxista. Difendendo un murale di Rivera, oscurato dalla Gioventù cattolica perché vi figurava la frase «Dio non esiste», scrive al presidente del Messico:
(…) il Messico non è il paese ignorante e selvaggio dei Pancho Villa. (…) [In Messico] si dipingono allo stesso modo santi e vergini di Guadalupe e affreschi di soggetto rivoluzionario sulle scalinate monumentali del Palazzo Nazionale.
La pietra miliare di queste lettere, e anche lo zoccolo duro, è l'umanesimo agito nella forma delle donne, di tutte le donne. Ma si badi a non scivolare nello stereotipo femminista, che Frida Kahlo non è. Non lo è nelle dinamiche interpersonali, dunque non lo è nei suoi dipinti. È la tua chicua, tua sorella, la vostra amica, una malinche, una malfattrice, e sempre degli altri. Riserva a se stessa parole non gentili per i ritardi con cui risponde alle lettere e per i silenzi prolungati, altre volte invece proprio per l'insistenza con cui chiede notizie, perché il sollievo è sempre nel sapere dagli altri, nel sapere gli altri. I numerosi, ostinati aborti cui dovette andare incontro a causa delle deformazioni del suo bacino, la resero madre dei figli degli altri, commare di tutte le amiche nel significato etimologico di co-madre, e soprattutto madre di Diego, che mai sarebbe stato il marito di nessuno. A questo proposito mi piace citare un excerptum del suo Ritratto, in particolare la sequenza descrittiva della sua forma esteriore:
con la sua testa asiatica sulla quale nascono dei capelli scuri, tanto sottili e delicati da sembrar fluttuare nell'aria, Diego è un bimbo grandotto, immenso, con un volto amabile, e lo sguardo un po' triste. I suoi occhi sporgenti, scuri, intelligentissimi e grandi, sono trattenuti a fatica nelle orbite – quasi vi escono attraverso palpebre gonfie e prominenti, come quelle di un rospo (…). tra questi occhi così distanti l'uno dall'altro, affiora l'invisibile saggezza orientale e molto raramente un sorriso ironico e tenero, la parte più bella della sua immagine, abbandona la sua bocca da Buddha, dalle labbra carnose. Vederlo nudo fa pensare a un bambino-rana (…). Del suo petto bisogna dire che se fosse sbarcato sull'isola in cui regnava Saffo, non sarebbe stato ucciso dalle sue guerriere. La sensibilità dei suoi seni meravigliosi lo avrebbe reso bene accetto, sebbene la sua virilità, specifica e bizzarra, lo renda desiderabile anche in territori dominati da imperatrici avide di amore maschile. (…) Dorme in posizione fetale e durante la veglia si muove con elegante lentezza, come se vivesse in un ambiente liquido. (…) La forma di Diego è quella di un mostro affettuoso che la nostra ava, Antica Occultatrice, la materia necessaria ed eterna, la madre degli uomini e di tutti gli dèi che gli uomini inventarono nel loro delirio originato dalla paura e dalla fame, LA DONNA – e tra tutte le donne IO – vorrebbe tenerlo sempre tra le braccia come un bimbo appena nato.

Tutto questo, nonostante i tradimenti sleali di Rivera, congeniti alla sua natura incolpevolmente bugiarda e amorale. L'immagine di lui che lei sovente ritrae sul proprio volto al centro della fronte, come un talismano, è quasi totemica: Diego è la summa dei suoi figli non nati, un eterno feto che ricorda gli idoli messicani della cultura uto-azteca.
Lei comprendeva e giustificava ogni comportamento dell'uomo, anche a scapito della sua dignità, salvandosi dal crimine del pregiudizio e a scapito del suo dolore. Che, non a caso, si incunea nei suoi Autoritratti, nelle linee-radici e spine che frastagliano le sue composizioni: perfette, pazienti e gravide di colori e simboli. Nel 1950 annota sul suo diario:

Sette operazioni alla colonna vertebrale, il dottor Farill mi ha salvata, mi ha ridato la gioia di vivere. Sono ancora seduta su una sedia a rotelle e non so se potrò riprendere presto a camminare. Devo portare un busto di gesso, una pena terribile, ma mi aiuta a reggere la spina dorsale. Non ho dolori, ma sono sempre stanchissima e, ma questo è naturale, spesso sono disperata, in un modo indescrivibile. E tuttavia ho ancora voglia di vivere.

Un'ultima parola sullo stile delle Lettere. Impera, presto detto, una vocazione descrittiva paratattica che tende all'accumulazione e alla ripetizione. La sua lingua, sul piano del lessico, è estremamente produttiva e immaginifica. Pur prevalendo la lingua d'uso, l'occhio del lettore deve familiarizzare di continuo con i neologismi e i molti prestiti dall'inglese e dal tedesco che si diverte a deformare. Un esempio, da una lettera del 1946 ad Alejandro Arias, suo primo fidanzato:
Alex darling, non mi permettono di scrivere a lungo, ti mando questa mia solo per dirti che ho passato the big momentaccio operatorio. Tre weeks fa hanno proceduto al taglia-taglia delle ossa e questo medicamen è talmente meraviglioso e il mio body così pieno di vitalità che oggi mi hanno già messo sui miei poveri feet per due minutini, e nemmeno io ci bilivo [ispanizzazione dell'inglese to believe].
Le metafore che predilige sono in prevalenza ricavate dal mondo animale (speculare dell'umano, paritetico ma più giusto); Frida allude di frequente alla società come a una fauna, e percepisce se stessa come un animale, riferendosi e. g. al suo piede malato quasi sempre come alla sua zampa. Noto a tutti, del resto, il dipinto Il cerbiatto (1946), con la sua testa sul corpo dell'animale trafitto dalle frecce; fino alla stessa apoteosi di Diego, citata sopra. Nella stessa casa in cui viveva, a Coyoacán, era circondata da molte specie animali (pappagalli, scimmie, gatti e cani spelacchiati).
Negli anni, la sua scrittura epistolare si affina, lei stessa se ne accorge e più volte fa ironia su questi suoi progressi.
L'incontro con l'opera omnia di Frida Kahlo è un incidente. Per ciò è cosa buona e giusta che avvenga, avendo esercitato se stessi e la propria pancia al coraggio della comprensione. Frida insegna che una colonna spezzata, molte volte e in più punti, non smette per questo di essere una colonna. Allo stesso modo va accettata la vita, severa e appassionata.

Bene, compagni, vi lascio, vi ho raccontato a grandi linee la mia vita attuale, spero di ricevere (e di corsa!) la risposta che merita questa lettera tanto insolita, inaspettata, eterogenea e quasi surrealistoide. Sempre a disposizione, la vostra fedele, Doña Frida, la malfattrice. (A Ella e Bertram Wolfe, 1944)

Andrea Gatto




Bibliografia e filmografia:
  • Il diario di Frida Kahlo. Un autoritratto intimo, introduzione di Carlos Fuentes, a cura di Sarah M. Lowe, Leonardo, Milano 1995
  • Hayden Herrera, Frida, La Tartaruga, Roma 2001; Baldini Castoldi Dalai, Milano 2010
  • Pino Cacucci, ¡Viva la vida!, Feltrinelli, Milano 2010
  • Frida, di Julie Taymor. USA, Canada, Messico, 2002, 118'
  • Frida, naturaleza viva, di Paul Leduc. Messico, 1986, 108'