Le colpe del poeta (e la salvezza della poesia) secondo Paolo Lisi

E la colpa rimane
di Paolo Lisi

Passigli, Firenze, 2013
Prefazione di Francesco Napoli
€ 12,00


"Ho scritto quello che ho vissuto, / ho vissuto quello che ho letto" (Talenti). In questo binomio lettura-scrittura, messo in risalto dalla struttura chiastica del distico, si potrebbe rintracciare, forse, la "colpa" che sin dal titolo 'macchia' la nuova opera poetica di Lisi (già animatore culturale nell'ambito della rassegna 'IsolaPoesia') e che al lettore viene svelata solo alla fine, nell'ultima ed epomima lirica E la colpa rimane: "Di aver speso parole. Di aver taciuto. / Di aver mentito. Di aver / dimenticato. Di aver tradito. La colpa, / di aver speso parole quando / c'era solo da ascoltare, di aver taciuto / quando invece era necessario / gridare più forte".
Stando così le cose, la colpa del poeta sembra venire da lontano, da un 'vissuto' letterario e, più propriamente, poetico. La "vergogna" della poesia di petrarchesca memoria, nella dimensione dell'incontro con la storia ("Al momento / abito con rigore il mio tempo", scrive Lisi sempre in Talenti), nel viluppo inestricabile di parola e silenzio ("di aver taciuto..."), diventa un fardello che grava sul poeta, il quale, animato da una tensione etica, scrive:

Occorre passare la mano, ora.
Per mantenere intatto
quello che intatto non può rimanere
non basta un mazzo truccato.

La posta in gioco è alta.
Nessuna via di fuga. Quando
il sospetto di una vita spesa male

morde lo stomaco
è tempo di giocare a carte scoperte,

per rispetto di chi si è fermato
prima dell'alba.
Partita a scacchi o lancio di dadi, il tempo presente nelle pagine di Lisi appare come sospeso tra l'incudine del passato (Quando tutto è ormai stato si intitola la seconda sezione del libro) e il martello di un divenire (lemma-chiave della sezione Il museo dei viaggiatori) che è, a un tempo, processo in atto e futuro dai contorni non sempre idilliaci: "Il futuro non fa regali. // Non arretra. Non cede a galanterie. / Fattene una ragione. // La mossa del Re / non darà seguito alle attese" (È tempo d'umiliazioni); "Qui - dove non saremo mai - / restituisci quello che siamo stati: // una coppia di dadi sul tavolo da gioco" (Spegni la luce); "Tracceremo il futuro / nell'inchiostro di questo mare, / nell'attesa che il presente // ci dia ragione. Inganneremo / le diottrie fissando / un punto preciso all'orizzonte // mentre il passato rimarrà / per sempre, mistero / tra le onde" (Affronteremo le onde). 
Nonostante ciò, la certezza più intima che anima la lirica di Lisi, poeta 'essenziale' e a tratti perfino sintetico, oltre a suggellare, non a caso, il libro ("Ma rimane l'amore, / nell'immediato. Sopra ogni cosa"), viene declinata - come scrive Napoli nella prefazione - in un colloquio serrato con un "alter-tu (meglio che alter-ego), vagamente femminile" (p. 9) che si protrae per tutto l'arco della raccolta: "Scrivo per te / che non sai"; "Ho bisogno di allinearmi su di te / in un'unica croce. Ho bisogno / di segnare una rotta inutile / che mi riporti in vita", "Tutto / se pieghi il tuo guardo / dalla mia parte"; "Non andare via / senza il mio perdono"; "Unica consolazione: / invecchiare / insieme, noi due".
Ma non si creda che questo porto salvifico, che in fondo mette in scena uno dei topoi letterari e poetici più frequenti, equivalga a un sottrarsi del poeta dalle responsabilità a cui il tempo e, nello specifico, il presente storico inchioda: "Hanno un bel da fare / non si tirano indietro mai. / Non per niente sono giovani / non per niente hanno talento. / Sicuri di sé affrontano / il mondo. Non cercano padri: / s'infrangono / contro il loro riflesso".
Nella paternità della parola si annida la 'colpa' più grande, non solo del soggetto poetante ma di tutto il genere umano; lo sa bene Lisi che in una delle liriche più intime e più belle del libro, rivolgendosi al figlio, scrive:

Chissà se il padre che gioca
a bocce con le parole
avvicinandosi al pallino sino
a sfiorarlo, sino
a sentire il tocco leggero
tra significante e significato,
tra suono e senso
nello spazio minimo
tra amore e disincanto

è il padre che avresti scelto
o sognato di diventare.
 Arrivati all'ultimo verso di quest'opera non possiamo che sgravare il poeta dal macigno che si porta dietro e, dunque, in ultima istanza, condividere un senso di colpa che, a ben guardare, è pure nostro.

Pietro Russo