"L'impronta dell'editore" di Roberto Calasso: l'editoria universale

L’impronta dell’editore
di Roberto Calasso
Adelphi, 2013

pp. 161
€ 12,00

La vera storia dell'editoria è in larga parte orale - e tale sembra destinata a rimanere. Una teoria dell'arte editoriale non si è mai sviluppata - e forse è troppo tardi perché si sviluppi ora. Andando contro a questi dati di fatto, ho provato a mettere insieme due elementi: qualche passaggio nella storia di Adelphi, quale ho vissuto per cinquant'anni, e un profilo non di teoria dell'editoria, ma di ciò che una certa editoria potrebbe anche essere: una forma, da studiare e da giudicare come si fa con un libro. Che, nel caso di Adelphi, avrebbe più di duemila capitoli.


È un regalo alla casa editrice il libro che Calasso ha pubblicato in occasione dei cinquant’anni di storia Adelphi, riunendo undici scritti  sull’editoria composti tra il 1975 e il 2009. È un regalo ai lettori - quelli della “Biblioteca” e non solo – che rivivranno decenni di successi e capolavori letterari riconoscendosi nelle pagine di ieri e di oggi.
L’impronta dell’editore è un monumento al mestiere editoriale. Con la raffinata ricercatezza a cui ci ha abituati, Calasso riesce a raccontare a tutti il senso e le pratiche del lavoro dell’editore. In questo si esprimono la sapienza dell’autore e la felicità dei suoi scritti.
La raccolta conduce per mano à rebours, alla scoperta dei libri unici, primi mattoni del grande edificio che sarebbe diventata Adelphi: Kubin, Walser, Potocki, Gosse, Burney e naturalmente Nietzsche, Kafka. “Il libro unico è quello dove subito si riconosce che all’autore è accaduto qualcosa e quel qualcosa ha finito per depositarsi in uno scritto” [pp.15-16].
Questi erano i libri che più attiravano Bazlen, sui quali pazientemente – lettura dopo lettura – si costruì il catalogo della casa. E poi le scelte grafiche, la carta, le copertine (si legga, a proposito, l’illuminante discorso del rovescio dell’ecfrasi a cui Calasso fa riferimento per spiegare il processo di accostamento testo-immagini), quel “nesso adamantino tra il nome Adelphi e la Mitteleuropa che si stabilì tra il 1970 e il 1980”. Come non pensare alle edizioni di Wittengstein, Musil, Kraus, Freud, Schnitzler e, soprattutto, del grande Joseph Roth che grazie ai numerosi traduttori ma specialmente a Luciano Foà – suo revisore unico – è entrato con la sua prosa e il suo fraseggio inconfondibili nelle biblioteche dei lettori italiani.
Calasso non tralascia nulla, ci trascina nel vivo della sua passione grazie a indimenticabili aneddoti che, da soli, restituiscono l’idea di quel sistema di rapporti che è il regno dell’editore.
Con estrema onestà intellettuale parla di come si presentava la scena editoriale e culturale degli anni Cinquanta, quando Adelphi vi fece la sua prima comparsa. Non possono che affiorare i nomi dei protagonisti, Giulio Einaudi su tutti, che dominava la scena con il suo “alto livello, severo filtraggio”. Ma non solo di cultura si parla: come tralasciare la politica? Qui il discorso di Calasso si svincola dagli stanchi e sfibranti dibattiti sull’influenza ideologica della sinistra sulla cultura di quegli anni, quasi a testimoniare che non c’è bisogno di alzare bandiere e abbracciare ideologie per mettere in piedi una casa editrice con una forma intellettuale di grande respiro.
Ma è di respiro universale che si dovrebbe parlare, con riferimento ai grandi maestri: Goethe con la sua Weltiliteratur e Borges con la teorizzazione di una letteratura che tutto comprende.
Adelphi, con la sua “Biblioteca”, giunta a più di seicento titoli, si dimostra un’eccezionale concretizzazione di quella che – estendendo i concetti espressi nel volume – potrebbe anche essere definita “editoria universale”. Si arriva, dunque, al cuore della tesi di Calasso: un'idea di editoria come operazione di stesura di un enorme unico libro – facile cogliere l’assonanza con i già citati libri unici – i cui capitoli non sono altro che tutti i volumi pubblicati dall’editore. Infinite connessioni, legami, fili a volte invisibili altre evidentissimi, li tengono assieme in un discorso che prende la forma di un’anima, di un sentimento. 

Queste misteriose congiunzioni, quando sorrette dall’intuizione e dal genio (parola che Calasso, tuttavia, non usa mai), si trasformano in felici rapporti tra la casa editrice e il suo pubblico, “oscuro, composito e percettivo” nel caso di quello adelphiano.
Tutto ciò vi sembra forse irrazionale e misterioso? Tutt’altro. Leggete L’impronta dell’editore e lo troverete incredibilmente concreto. Vi sorprenderete a pensare che molti studi sulle condizioni culturali, economiche, politiche e sociologiche dello sviluppo dell’industria editoriale non sanno arrivare al cuore come questo libretto.
Sicuramente le doti fabulatorie di Calasso sono in grado di catturare anche i lettori più diffidenti, ma credo che si tratti massimamente di quella fiducia che istintivamente si prova, di quel “valore aggiunto” che contraddistingue l’attività di pubblicazione Adelphi, punto di forza del suo marchio.
Se l’autore restituisce pienamente la rete dei rapporti culturali, basta poco perché questi si trasfondano in rapporti personali, di amicizia e di stima. Ecco allora che la parte centrale del volume è occupata da ritratti di grandi editori, un omaggio pieno di riconoscenza a figure che hanno segnato la storia del libro moderno. Gli enchiridia di Manuzio, i primi tascabili della storia, la collana “Der Jüngste Tag” (“Il giorno del giudizio”), ideata da Kurt Wolff che, ai primi del Novecento, per primo colse l’eccezionalità dell’opera di Kafka, i “vasti domini” di Gallimard, la “Libreria degli scrittori” nella Russia della Rivoluzione d’ottobre, il rigore del metodo Einaudi e il giudizio fermo di Foà, il divertimento di Roger Strauss, la lungimiranza di Suhrkamp e il “culto dell’ostacolo” di Dimitrijević. Calasso si appropria per un attimo delle loro voci per fare capire a tutti cosa voglia dire essere un “grande editore”.
Non mancano, di certo, nel volume discussioni sullo stato dell’editoria contemporanea. Parte di uno scritto è dedicata a un articolo dal titolo “Che cosa succederà ai libri?”, che Kevin Kelly ha pubblicato sul «New York Times Magazine», da cui Calasso prende spunto per discutere le prospettive della “digitalizzazione universale” (non mancano ovviamente riferimenti alla disputa legale avviata nel 2005 intorno al piano di Google). Senza toni da catastrofe e annunci da apocalisse, l’editore mostra la sua posizione, mette in chiaro quelli che considera i rischi di una digitalizzazione senza confini. Invece di combattere il nemico digitale, come molti fanno, si limita a ricordare che – pur nel caos e nell’inconsistenza in cui ci si muove, pur nell’omologante indistinguibilità dei profili editoriali – all’editore rimane il compito di un debussiano “fair plaisir a quella tribù dispersa, predisponendo una forma e un luogo che sappia accoglierla”.
Tutto acquista un senso, alla fine di questo libro “metaeditoriale”, le connessioni si mostrano nella loro limpidezza e non verrà più difficile capire come Simenon, Pessoa, Nemirovsky, Loos, Canetti e Bennet convivano in quel grande libro che è la casa editrice Adelphi. L’impronta dell’editore ne è, in un certo senso, un po’ il catalogo o forse una grande prova d’amore e dedizione.
E arrivati alle ultime pagine, ci si sente un po’ incoraggiati, fiduciosi che la tanto temuta editoria senza editori sia ancora in là da venire, se ci sono ancora in giro coloro che pubblicano solamente i libri che trovano buoni, che come lettori sceglierebbero. Molti son convinti che ormai sia una causa persa….

…mentre è solo una causa molto difficile. Ma non più difficile di quanto lo fosse nel 1499, quando Aldo Manuzio, a Venezia, pubblicò un romanzo di ignoto autore, scritto in una lingua composita, fatta di italiano, latino e greco. Anche il formato era inusuale e così pure le numerose xilografie che costellavano il testo. Eppure si trattava del libro più bello che sia stato stampato sino a oggi: la Hypnerotomachia Poliphili. Un giorno, qualcuno potrà sempre tentare di uguagliarlo.


Claudia Consoli