Critica Libera: Blade Runner in salsa thai. Poi solo tempo in dissolvenza

Foto di Marco Caneschi

 Il viaggio assume aspetti destabilizzanti quando non ti lascia vivere il presente ma soltanto futuro e passato. La dimensione mezzana, tangibile, è superata da uno slancio metafisico. Uno strappo violento nel gorgo dell’attesa. La prima volta che ho visto “Blade Runner”, non avrei creduto di diventare io stesso il protagonista di una situazione riconducibile alla pellicola.




Invece, la Thailandia costringe a recitare in contesti simili a quelli del mio film preferito. Città-ingorgo, gambe impazzite che s’intrufolano in grattacieli infiniti, treni dal clima glaciale che sfrecciano su binari sopraelevati, pubblicità rotanti con geishe sorridenti in cima a palazzi concepiti per condizionare anche il più fiero dei sudditi.
Vi sbarcai in un’afosa mattinata di agosto, dopo aver sentito molti racconti sulla Città degli angeli, Krungthep in thai. Bangkok vuol dire praticamente Los Angeles, declinato in grugnito da fumetto di Walt Disney. I suoi abitanti seguono una delle due varianti del buddismo, la dottrina Theravada. Tipica del sud est asiatico. A guardarli dall’alto, che so, da un trentesimo piano di un albergo, sono una folla indistinta, un’idra dalle innumerevoli teste. Se parti alla ricerca del fascino dell’oriente, è meglio allora prendere un taxi e andare al tempio del Buddha di smeraldo o fra i canali della sponda occidentale. Qualcosa è rimasto. Sennò, restano astronavi al largo di Orione, raggi B alle porte di Tannhäuser… momenti perduti nel tempo. Un filo di voce, paura di morire poi solo lacrime nella pioggia.

Non sono stati molto originali i thailandesi nel corso della storia pur avendone avuta di gloriosa. Mentre tutti i territori contermini, birmani, laotiani, khmer, indocinesi, cadevano come birilli in mani europee, il regno del Siam, l’equivalente storico dell’attuale monarchia, concesse importanti privilegi alla corona britannica ma non venne colonizzato. A palazzo reale gli affreschi raccontano di Ramakien, il poema epico locale che è una scopiazzatura dell’indiano Ramayana. Quando una delle antiche capitali thailandesi Ayutthaya venne distrutta nel 1767, si rischiò di perderne tutte le copie. Oggi ne restano tre. Anche le maschere che vedete nei palcoscenici del paese o che riportate a casa come souvenir sono solo personaggi, positivi o demoniaci, di questa saga.
Ma, come accennavo all’inizio, la Thailandia e questa intera area geografica dell’Asia ti scaraventano nel passato mano a mano che sali verso il triangolo d’oro. È strano che questa zona, famosa nel mondo per la produzione di eroina e che il Mekong solca come un serpe che mai ha cambiato pelle, non sia stata immortalata dalla letteratura. Che viga una sorta di rispetto, o paura, verso un mondo infestato da triadi sanguinarie? 
Immagine neanche troppo valida oggi. Io vi ho trovato solo un certo passato, incarnato da popolazioni che vivono in capanne poverissime e adottano usanze da medioevo. Specialmente, pare scontato, verso le donne. Mong, Akha, Karen sono etnie che stanno lì sospese, tra confini limacciosi, paradisi di contrabbandieri e trafficanti, contesi come ogni confine che si rispetti. Imbastiscono giornate a metà fra gesti necessari e pretese inesistenti, a scandire una memoria che scappa alla prima pioggia abbondante. Immancabile anche qui, seppur lontani dalle rive meridionali a rischio tsunami. Linea d’orizzonte che unisce il mare del passato e il cielo del futuro. Con te in mezzo a non capire.