Tra ablazione e tradizione: "Ablativo" di Enrico Testa

Ablativo
Enrico Testa
Einaudi, 2013

pp.126

Dopo la lirica in quali forme e modalità può darsi la poesia contemporanea? Una risposta (parziale of course), o meglio un motivo di riflessione ce lo offre l'uscita per la "bianca" einaudiana di Ablativo, ultima fatica del "poeta" Enrico Testa. Attributo d'obbligo, considerato che l'attività creativa di Testa da sempre si intreccia con il suo lavoro di stimato docente universitario e critico letterario. Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000 (2005) è, infatti, forse la più importante antologia di poesia contemporanea del primo decennio del nuovo secolo/millennio.

Dunque, salpati dalle sicure e soleggiate spiagge della tradizione italiana, al poeta-critico o critico-poeta (nel caso in questione binomio inscindibile: creatura bicefala) non resta che prendere il largo in un mare che rimesta e confonde "veglie albe notti, / preghiere a volti muti, ascolti / sempre in duplice tensione: / rivolto altrove e ad altri / o nell'attesa di una chiamata" (la litania dei casi recitata al ginnasio). 

L'ablazione si presenta pertanto come la cifra distintiva di quest'opera che accoglie sezioni o raggruppamenti di testi che dir si voglia piuttosto eterogenei. Un processo (studiato, costrutio a tavolino) di rimozione che genera una poesia volutamente anemica, minimalista al punto da rasentare un nihil variamente declinato: "non portava notizie di nessuno / l'ape che ti punse la mano / nel camposanto di Dego; / né richieste di preghiere / o di suffragi e neppure / una momentanea attenzione / rivolta ai nostri passi. / Era solo un capriccio della natura, / una stizzosa manovra dell'insetto / incattivito dall'afa" (non portava notizie di nessuno).

Tuttavia, è nei momenti in cui questa poetica ablativa riesce a instaurare, "tra la celeberrima angoscia dell'influenza e [...] la gioia dell'influenza" (cfr. Roberto Galaverni su 'La lettura' del 31/3/2013), un dialogo con la migliore tradizione poetica italiana, specificatamente del secondo Novecento, che la scrittura di Testa raggiunge esiti di indubbio rilievo: 
il tempo: quasi trent'anni fa
tra fine primavera e inizio estate
il luogo: un'osteria deserta
dietro corso Aurelio Saffi
vicino alla Scuola Ortofrenica.
Gerani rossiin vecchie scatole di conserva
tavolini di lamiera smaltata
e, dentro, ancora il rosso
- anche se più spento -
delle tovaglie di cerata.
Il cibo e il vino non erano un granché:
le briciole dimenticate sul pavimento
invitavano i colombi ad entrare.
Si sentiva vicino il mare.
Allora - in quei primi incontri -
successe qualcosa che solo ora ricordo:
dalla pergola della rosa
scendeva un passaggio di luce
che, insieme a te,
immaginavo così dolce e domestica
da fare anche a meno di me
A tal proposito si legga tutta la sezione Tropico dello Scorpione dove un incedere evidentemente mutuato da Sereni, Caproni, Luzi (solo per citare alcuni nomi) fa da contrappunto allo sguardo acuto del poeta che penetra, non senza averla prima registrata, la realtà fenomenica circostante. In questo quadro, anche i frequenti interrogativi denotano una partecipazione più diretta dell'io poetante (non di rado schermato da una prima persona plurale), il quale sembra aderire alle singole 'occasioni': la retorica lascia dunque spazio a un genuino slancio gnoseologico. La poesia di Testa "scivola", suo malgrado, in un lirismo che tuttavia non eccede mai, rimane sospeso in un felice equilibrio tra le effusioni che normalmente accompagnano questi moti e l'asciuttezza della narrazione tout court, e che per questa ragione viene smascherato, sminuito a "un'allegoria scaltra" dallo stesso poeta: 
dopo aver visitato imitazioni neoclassiche
ed edifici d'architettura hitleriana
(ora istituti benefici
biblioteche o conservatori)
siamo finiti, la sera,
in una chiesa per la veglia pasquale.
Buio fitto all'entrata
da non riconoscere volto o figura.
Poi, piano piano, le candele
si sono accese l'una dall'altra.
Un'allegoria scaltra
ma anche una breccia
nel muro della giornata
In questa dialettica, come si diceva, è ravvisabile lo snodo di maggiore interesse del libro. La voce di Testa, infatti, sembra infiochirsi, benché in linea con la programmatica ablazione del titolo, laddove l'aspetto 'diaristico' (si vedano le sezioni Molo di Alcantara, Balcaniche, Breve escursione in Sudamerica), anche (o forse soprattutto) nell'accezione sereniana del lemma, prevale sulle ragioni espressive e dunque, in senso stretto, della poesia. Non sempre è così, come nella bellissima a mio figlio mi viene da dirgli
a mio figlio mi viene da dirgli:
non buttare via anche il babbo
con l'acqua sporca.
Ti ho solo - quasi inconsapevole - 
custodito un vuoto
una possibilità senza risposte, 
popolata però di storie e voci:
una radura nel bosco
che è una preghiera in tuo nome.
Nient'altro.
Pegno o eredità sino a quando 
non cominci quell'orrida infanzia alla rovescia
che già mi si preannuncia nei sogni.
Speriamo sia breve.
E poi a te il mondo
e a me forse l'aprirsi dell'inifinito 
o forse, invece, solo vacua materia 
e cenere..
¡No se preoccupe, señor!
chi morrà vedrà
Come a voler dire che nel valore pedagogico, cioè di trasmissione da padre in figlio di un'emozione, è ancora possibile una poesia 'dopo la lirica': "i versi, se vuoti di ogni albagia / e ridotti quasi a patiti patemi del pathos, / servono ancora. / A poco ma servono / anche se a chi e a cosa non so" (A Edoardo Sanguineti). 


Pietro Russo