H.P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita
di Michel Houellebecq
traduzione di Sergio Claudio
Perroni
postfazione di Stephen King (tradotta da Gemma Russo)pasSaggi Bompiani, 2005 (2001)
pp. 171
Euro 9
Chi, da adolescente attratto dal mistero e
dall’orrore, non si è abbuffato dell’opera omnia di Howard Phillips Lovecraft
(1890-1937)? Magari dopo averlo scoperto grazie a qualche raffazzonato
videogioco o a qualche amico metallaro fan di Metallica e Morbid Angel? E chi,
vedendo poi le sue foto, non ha pensato che dovesse essere un tipo un po’
strano, del quale cercare la compagnia giusto per fare numero a un funerale? Mi
rendo conto di quanto possa essere percepita come irrispettosa questa ultima
osservazione ma, dopo aver letto il saggio di Michel Houellebecq, H.P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la
vita, non risulta fuori luogo. L’autore francese scrive, a inizio opera:
«Adesso ascoltiamo le parole di Howard Phillips Lovecraft: “Sono talmente stanco dell’umanità e del mondo che nulla suscita la mia attenzione se non comporta almeno due omicidi a pagina, o se non tratta di innominabili orrori provenienti da altri spazi.”[…] Se si ama la vita, non si legge. Né, d’altronde, si va al cinema. Checché se ne dica, l’accesso all’universo artistico è riservato quasi esclusivamente a chi ne abbia un po’ le palle piene.Lovecraft, dal canto suo, ne aveva parecchio le palle piene. Nel 1908, a diciott’anni, rimane vittima di quello che è stato definito un “collasso nervoso” e sprofonda in un letargo che durerà una decina di anni. All’età in cui i suoi ex compagni di classe voltano impazientemente le spalle all’infanzia per tuffarsi nella vita come in un’avventura meravigliosa e inedita, Lovecraft si chiude in casa, parla soltanto con la madre, di giorno rifiuta di alzarsi dal letto, di notte si trascina per casa in vestaglia. E non scrive. Che fa? Forse legge un po’. Non è chiaro. In effetti i suoi biografi concordano nel dire che non ne sanno molto e che Lovecraft, con ogni probabilità, almeno tra i diciotto e i ventitré anni, non fa assolutamente niente.»
In questo breve e denso saggio, Houellebecq mette
su carta una perfetta commistione tra biografia e opera lovecraftiane,
rivelandoci aspetti meno conosciuti dell’autore americano, che grande
importanza hanno avuto nel concepimento dei suoi libri; e nonostante la vita
del “solitario di Providence” sia scarna di avvenimenti (“Non succede mai
niente”, scrive spesso nelle sue lettere), Houellebecq individua il classico
spartiacque che influenzerà le successive opere: il matrimonio con Sonia Haft
Greene (1924). I due si conoscono nel 1921: lei è più grande (trentotto anni),
è una bella e solare donna, esperta della vita (ha già una figlia di diciassette
anni) mentre lui, come sappiamo, è meno socievole di una pietra. Sonia si
innamora e, vista l’apatia dell’uomo, “fa tutto lei”:
«Pare che si innamori di lui immediatamente. Lui, invece, mantiene un atteggiamento riservato. La verità è che Lovecraft non ha alcuna esperienza in fatto di donne. È lei a dover fare il primo passo, e anche i successivi. Lo invita a cena, va a trovarlo a Providence. Infine, in una cittadina del Rhode Island chiamata Magnolia, prende l’iniziativa e lo bacia. Lovecraft arrossisce, poi sbianca. Quindi, visto che Sonia lo prende garbatamente in giro, è costretto a spiegarle che è la prima volta che qualcuno lo bacia da quando era bambino.»
Questa unione tra due mondi così diversi pare una
bizzarria, non rara però tra gli umani:
«Nelle relazioni tra esseri umani vi sono elementi assolutamente incomprensibili – concetto che trova lampante dimostrazione in questo caso. Sonia sembra aver capito perfettamente Lovecraft, la sua frigidità, le sue inibizioni, il suo rifiuto e il suo disgusto per la vita. Quanto a lui, che a trent’anni si considera un vecchio, sorprende come abbia potuto vedersi unito a questa creatura dinamica, prosperosa, piena di vita. E per di più divorziata ed ebrea – cosa che, per un conservatore antisemita come lui, avrebbe dovuto costituire un ostacolo insormontabile.»
Il matrimonio, più che influenzare direttamente
l’opera di Lovecraft, lo farà indirettamente: dopo di esso, infatti, i due si
trasferiranno a Brooklyn. Inizialmente:
«Il recluso misantropo e un po’ lugubre di Providence si trasforma in un uomo affabile, pieno di vita, sempre pronto ad andare al ristorante o al museo.»
Prende addirittura contatti con alcuni editori, e
sembra sognare il successo letterario. Però:
«[…] tutto viene compromesso da un piccolo evento carico di conseguenze: Sonia perde il posto. […] E Lovecraft è costretto a cercarsi un lavoro per mantenere se stesso e la moglie.La ricerca si rivelerà vana. Lovecraft risponderà a centinaia di inserzioni, si presenterà a centinaia di colloqui… Fiasco totale. Certo, lui non ha la minima idea della realtà che si nasconde dietro parole come dinamismo, competitività, senso commerciale, efficienza. […] Per una persona come Lovecraft non c’è letteralmente posto nell’economia americana dell’epoca.»
E, di conseguenza:
«Il suo atteggiamento rispetto all’ambiente si deteriora. Per capire New York occorre essere poveri. […] Vediamo manifestarsi le prime tracce di quel razzismo che successivamente nutrirà le pagine di HPL. […] comincia ad amareggiarsi nel constatare che, mentre migliaia di immigrati di ogni provenienza si calano senza alcuna difficoltà in quel vorticoso melting pot che è l’America degli anni Venti, lui, malgrado la pura ascendenza anglosassone, è sempre in cerca di lavoro.»
E infine, nel 1926, Lovecraft torna a Providence.
Capiamo a questo punto come il matrimonio e New York abbiano condizionato la
sua successiva produzione letteraria, quella che Houellebecq considera – dopo i
racconti sparsi pre-1926 – la sua “vera opera”: la serie dei “grandi testi”:
«Il richiamo di Cthulhu (1926); Il colore venuto dallo spazio (1927); L’Orrore di Dunwich (1928); Colui che sussurrava nelle tenebre (1930); Alle Montagne della Follia (1931); I sogni nella casa stregata (1932); L’ombra su Innsmouth (1932); L’ombra venuta dal tempo (1934).»
Lo scrittore francese infatti dice:
«Il segno lasciato da New York non si cancellerà. Nel corso del 1925 l’odio contro l’“ibridismo fetido e amorfo” di quella moderna Babilonia, contro il “colosso straniero, bastardo e mistificato, che biascica e urla volgarmente, incapace di sognare e rintanato nei suoi biechi confini” non cesserà di esasperarlo fino al delirio. Tanto da consentirci di affermare con sicurezza che una delle figure fondamentali della sua opera – l’idea di una città titanica e grandiosa, nelle fondamenta della quale pullulano ripugnanti creature da incubo – deriva direttamente dalla sua esperienza a New York.»
Veniamo così a conoscenza del fatto che Lovecraft
era razzista:
«In realtà Lovecraft è sempre stato razzista. Ma in gioventù il suo razzismo non supera quello di prammatica nella classe sociale di cui fa parte – l’antica borghesia, protestante e puritana, del New England. Per la stessa ragione, ovviamente, Lovecraft è reazionario. Che si tratti della tecnica di versificazione o dell’abbigliamento delle ragazze, egli esalta sempre e comunque le nozioni di ordine e di tradizione piuttosto che quelle di libertà e progresso. […] Ed è a New York che le sue opinioni razziste si trasformeranno in una vera e propria nevrosi razziale. Essendo povero, gli toccherà vivere negli stessi quartieri di quegli immigrati “osceni, ripugnanti e vomitati da un incubo.” Li incrocerà per strada, li incrocerà nei giardini pubblici. In metropolitana verrà urtato da “mulatti ghignanti e bisunti”, da “orripilanti negri simili a giganteschi scimpanzé.”»
Un’ulteriore piccola pennellata di Houellebecq
assume carattere, se non proprio comico, almeno grottesco:
«Stando alle testimonianze di chi gli sta vicino, Lovecraft stringe i denti e impallidisce quando incrocia gente di razza diversa; però mantiene la calma.»
Disse infatti alla zia, il solitario di Providence:
«Non è degno degli appartenenti alla nostra classe mettersi in mostra con parole o gesti sconsiderati.»
Houellebecq ribadisce questo aspetto, quando ci dice:
«Si è spesso sottovalutata l’importanza dell’odio razziale nella produzione di Lovecraft.»
Ma cosa succede? Ci potremmo aspettare che, negli scritti, il ruolo della vittima venga assegnato a ciò che si odia, per una specie di pusillanime rivincita o vendetta – almeno estetica, e per questo catartica. E invece:
«[…] occorre precisare che nei suo racconti il ruolo della vittima è generalmente svolto da un docente universitario anglosassone, colto, riservato e beneducato. In effetti, un tipo molto simile allo stesso Lovecraft. Quanto ai carnefici trionfatori, sono quasi sempre dei meticci, dei mulatti, dei mezzosangue “della più bassa specie”.[…] È evidente che la passione centrale che innerva l’opera di Lovecraft è molto più nell’ordine del masochismo che in quello del sadismo; il che, per inciso, non fa che confermare la sua infida profondità. Come sosteneva Antonin Artaud, dal punto di vista artistico la crudeltà verso gli altri genera solo risultati mediocri, mentre quella verso se stessi è molto più interessante.»
E Lovecraft è ben conscio di ciò: in relazione alla sua ammirazione per “i biondi colossi nordici”, i “forsennati vichinghi sterminatori di celti”, scrive a Belknap Long:
«Lei ha perfettamente ragione a dire che solo chi è debole adora i forti. È esattamente il mio caso.»
Per Houellebecq, quindi, Lovecraft:
«Si è compenetrato fino al midollo nel proprio fallimento, nella predisposizione totale, naturale e fondamentale al fallimento. E, anche nel suo universo letterario, non ci sarà per lui che un solo ruolo: quello della vittima.»
È importante considerare le ideologie degli autori
nei confronti delle loro opere? O va letta l’opera praticando una sorta di
astrazione dalle biografie? Domande a mio parere oziose, soprattutto quando si
tratta di artisti che hanno avuto idee o ideologie ritenute condannabili o
discutibili. André Gide (riferito alle famose vicissitudini giudiziarie di
Oscar Wilde) nella Postfazione al De
Profundis di Wilde scrive (traduzione di Raffaele Donnarumma):
«Ecco perché non posso trattenere una certa irritazione leggendo nella prefazione che Joseph Renaud unisce alla sua traduzione di Intenzioni: “Questi fatti, d’altronde mai chiariti, che gettarono improvvisamente in galera uno scrittore glorioso, ricco, stimato da tutti, non provano nulla contro la sua opera. Dimentichiamoli… non leggiamo forse, malgrado la loro vita privata, Musset o Baudelaire? Se qualcuno rivelasse che Flaubert e Balzac commisero dei crimini, dovremmo bruciare Salambò e La cugina Betta? Sono le opere ad appartenerci, non gli autori.” […] A che serve affermare che “se Flaubert avesse compiuto dei crimini”, Salambò non ci interesserebbe di meno? Quanto è più interessante e giusto comprendere che “se Flaubert avesse compiuto dei crimini”, non avrebbe scritto Salambò, ma qualche cos’altro, o niente affatto; e che se Balzac avesse voluto vivere la Commedia umana, questo gli avrebbe impedito di scriverla.»
Howard Phillips Lovecraft |
Insomma, è più costruttivo attuare logiche
includenti, nell’analisi e critica di un’opera d’arte, includendo appunto
elementi biografici “scomodi” (penso anche a Céline) perché, come scrive Gide,
la biografia e le ideologie influenzano sempre l’opera, e più strumenti di
analisi abbiamo meglio è. Ciò non vuol dire che il giudizio estetico sull’opera
debba essere condizionato da quello etico sull’autore (ho scritto un’ovvietà,
ma capita che alcuni non la pensino così).
Per cui, tornando al razzismo di Lovecraft, i
mostri raccapriccianti dello scrittore americano non sarebbero, dunque, altro
che proiezioni di odio; altri, sensibili alla psicanalisi, ci vedono invece
simbolismi sessuali: Stephen King, nella postfazione, scrive:
«[…] quando Cthulhu fa una delle sue apparizioni nelle storie di Lovecraft ci troviamo di fronte a una vagina-killer gigante e tentacolare, che giunge dal di fuori dello spazio e del tempo.»
Lovecraft reputava Freud come un ciarlatano, e
considerava la psicoanalisi solo un “simbolismo puerile”. Houellebecq, rispetto
a King, non ci vede infatti repressioni sessuali, nelle sue pagine, ma semplice
disinteresse verso il sesso: non mancherà infatti di sottolineare come in tutta
la sua opera, oltre al distacco dalla “vita reale” e dall’odiato “realismo”,
siano completamente assenti due temi fondamentali per l’uomo occidentale: il
sesso e il denaro. E si capisce come il disinteresse verso quelli che per
l’Occidente sono valori assoluti non ci metta molto a creare un disadattato. Ovviamente,
ci dice Houellebeq, sono quasi assenti le donne:
«[…] quando in un racconto compare un personaggio femminile (il che accade solo due volte in tutto), si prova una strana sensazione di stravaganza, come se l’autore si fosse messo in testa di punto in bianco di descrivere un giapponese.»
In una lettera a Belknap Long, parlando del Tom Jones di Fielding (reputato un
pilastro del realismo, e egli odiava il realismo), Lovecraft scrive:
«In una parola, ragazzo mio, io considero questo genere di testi né più né meno che una indiscreta ricerca di ciò che c’è di infimo nella vita dell’uomo, la registrazione servile di vicende volgari operata con la rozzezza di sentimenti di un portinaio o di un barcaiolo. I cosiddetti misteri del sesso sono alla portata di chiunque, basta passare mezz’ora in un campo o in un’aia per vedere come si accoppiano le bestie. Quando io guardo l’uomo, invece, guardo le caratteristiche che lo elevano dal rango di bestia e che, appunto, lo rendono essere umano; osservo le qualità che danno alle sue azioni simmetria e bellezza creatrice. […] Io credo che il realismo non sia mai bello.»
Per Houellebecq, quindi:
«È chiaro che ci troviamo di fronte non a un’autocensura provocata da oscuri motivi psicologici bensì a una concezione estetica asserita con grande convinzione.»
Curiosa è anche la scelta di ignorare l’altro
totem: il denaro. Curiosa perché viene da parte di un uomo che ha sempre
vissuto in ristrettezze economiche, che pur non conoscendo la povertà estrema
ha sempre dovuto fare i conti per arrivare, molto risicato, a fine mese.
Un saggio che merita l’abusato termine di
“illuminante”, questo di Houellebecq: non che apra chissà quali orizzonti sulle
opere di Lovecraft: a chi le legge suppongo poco interessi che i mostruosi,
vermiformi e indicibili Grandi Antichi che dominano oscuri abissi innominabili siano vagine-killer
o immigrati neri. “Illuminante” perché ci presenta dietro le quinte uno
scrittore così importante del Novecento, donando alla biografia la stessa
dignità letteraria riservata alle opere. Perché capita, alla fine, che alcuni
scrittori diventino quei personaggi che non sono mai riusciti a creare.
«Tra l’altro, nel paesaggio ipnotico in cui continuavamo a sprofondare e affiorare come in un mare fatato, c’era un elemento di bellezza cosmica stranamente rasserenante. Il tempo si era smarrito nei labirinti che ci eravamo lasciati alle spalle, e intorno a noi si dispiegavano solo le onde incessanti di uno scenario fiabesco e la resuscitata leggiadria di secoli estinti – boschi arcadici, pascoli intonsi guarniti di rutilanti fiori autunnali, e, in lontananza, minuscole fattorie accovacciate tra alberi enormi ai piedi di rupi scoscese ricoperte di erica ed erba fienarola. Persino il sole aveva un fulgore sovrannaturale, come se l’intera regione fosse immersa in un’atmosfera o in un effluvio del tutto particolari. Non avevo mai visto nulla di simile, salvo nelle prospettive magiche che talvolta fanno da sfondo alle composizioni dei primitivi italiani. Sodoma e Leonardo concepirono simili vedute, però solo in lontananza e incorniciate dagli archi di qualche porticato rinascimentale. Noi invece stavamo penetrando fisicamente all’interno del dipinto, e nella sua magia mi pareva di ritrovare qualcosa che, pur radicata in me come retaggio innato o acquisito, avevo sempre cercato invano.»
H.P. Lovecraft, Colui
che sussurrava nelle tenebre (1930)
Piero Fadda