#CritiCINEMA - I 50 anni de Il Gattopardo di Luchino Visconti

Il 27 marzo del 1963, al cinema Barberini di Roma, usciva in anteprima Il Gattopardo di Luchino Visconti. Cinquant'anni dopo si conferma uno dei capisaldi della cinematografia italiana e uno dei pochi film davvero all'altezza del romanzo da cui è tratto. Viene da pensare che Visconti dovesse sentirsi molto vicino al Principe di Lampedusa: come lui discendeva da un nobile casato, e aveva conosciuto luoghi ameni, ville di famiglia; come lui sentiva il proprio ceto disfatto ed era vissuto a cavallo di due mondi, lo distinguevano una certa cultura e la stessa consapevolezza; inoltre anche Visconti, come Tomasi, aveva avuto un legame fortissimo con la madre, nei suoi ricordi sembra di sentire l'eco di quelli lampedusiani:
«Villa Erba è una casa che noi amiamo moltissimo. Ci riuniremo tutti là, fratelli e sorelle e sarà come al tempo in cui eravamo bambini e vivevamo all'ombra di nostra madre».
Scrive infatti Gabriella Aguzzi:
E, giunti al culmine, affiora l’essenza della poetica di Luchino Visconti: nello splendore dell’ultimo ballo del “Gattopardo”, nella morte dei vicoli di Venezia dove il prof. Aschenbach insegue la bellezza irraggiungibile di Tadzio, nella caduta e nel disfacimento malato della famiglia Von Essenbeck, nel folle sogno di Ludwig, Visconti contempla la fine di un mondo, il suo, in cui, aristocratico raffinato e colto, era cresciuto e che sapeva morente. Pur proclamandosi intellettuale di sinistra, poteva far sue le parole del Principe di Salina “Noi fummo i gattopardi, i leoni, e dopo di noi verranno le jene e gli sciacalli”.
Con precisione maniacale Visconti ricostruisce in ogni minuto dettaglio le meraviglie decadenti che colmarono la sua infanzia e le pagine degli autori da lui più amati, da Thomas Mann a D’Annunzio (due soli sogni non riuscì a realizzare: “La montagna incantata” di Mann e “La recherche” di Proust), dona alle visioni femminili il bellissimo volto di sua madre (Silvana Mangano in “Morte a Venezia”), trasmette nella cinematografia la stessa perfezione delle sue regie liriche e teatrali (delle quali non ci restano, purtroppo, che testimonianze fotografiche).
Dunque questo sguardo attento al passato, alla ricostruzione sul set di una realtà che aveva conosciuto da piccolo, caratterizza tutta l'opera di Visconti.
Di certo incuriosisce il modo in cui il romanzo di un aristocratico sentito come obsoleto da un intellettuale di sinistra come Elio Vittorini, conquistò il pubblico di quella stessa parte politica insieme al film; lo stesso regista visse come uno dei protagonisti dell'ambiente culturale comunista dell'epoca.
Resistono al tempo gli aneddoti in merito alla puntigliosità di Visconti sul set e sull'amore viscerale che lo legava al romanzo di Lampedusa, raccontati come sono stati da chi lo conosceva. Il film si distingue per la fedeltà al libro, a cominciare dalla prima scena: il Rosario della famiglia Salina, riunita al completo nel salone arioso dalle decorazioni mitologiche che mal si adattavano ad un contesto di preghiera religiosa. Tutti i racconti sull'attenzione ai minimi particolari con cui il regista e il suo staff curarono i set sono confermati anche da un bellissimo scritto di una degli autori della sceneggiatura, Suso Cecchi D'amico, a Renzo Renzi:
Vorrei però farle una raccomandazione. Di non scartarmi le foto che riguardano la preparazione del film, i collaboratori, scenografia, costumi, arredamento. Lei non può immaginare quale fatica sia stata questo film. Senso è uno scherzo al confronto. Io credo sia davvero giusto dare un poco l’impressione di tutto questo lavoro. [...]
L'ultima delle comparse del ballo è stata curata come una primadonna che dovesse spogliarsi in scena. Ogni singolo oggetto posato con altri cento in una vetrina o su un tavolo è stato causa di ricerche, prove, discussioni. Si è girato "dal vero" costruendo il vero.

Si è scritto spesso dei sopralluoghi siciliani in compagnia di Gioacchino Lanza Tomasi, figlio adottivo dello scrittore, alla ricerca di set ideali; si è scritto dei turni estenuanti per vestire le comparse della scena del ballo, illuminata in buona parte da candele; la ristrutturazione di Villa Boscogrande, (la villa Salina palermitana), in un tempo record di ventiquattro giorni, i costumi d'epoca: tutto valse il Nastro d'Argento alla migliore scenografia, la Palma d'Oro a Cannes.
Gli attori scelti rimarranno sempre nell'immaginario di chi leggerà il romanzo: non si potrebbero pensare diversamente l'imponenza, la bellezza e l'aria di felino dalle zampacce gentili di Burt Lancaster nel ruolo di Fabrizio; il fascino ammaliante di Alain Delon nei panni di Tancredi; la bellezza mediterranea e quel misto di volgarità e di sensualità di Claudia Cardinale nell'interpretazione di Angelica.
Anche i dialoghi sono fedeli al romanzo, sebbene il finale non coincida: mentre il libro racconta della morte del protagonista e delle vicende delle sorelle Salina, ormai vecchie e sole, il film si ferma all'alba del ballo a Palazzo Ponteleone, quando un malinconico Fabrizio torna a casa a piedi, dopo aver capito che il suo ceto sociale è morto. Sceglie di andare da solo, lasciando che il resto della famiglia vada in carrozza, senza di lui, sottile presagio della sua morte.
E quella malinconia, quella consapevolezza, è stata resa perfettamente nella scena in cui, durante il ballo, Fabrizio si ritira per un po' in biblioteca ad osservare La morte del giusto di Greuze, a figurarsela come la propria. Tancredi lo sorprende in questi pensieri neri, quando entra nella biblioteca con Angelica. Seguono immagini in cui un gioco fitto di sguardi e frasi tradisce la sensualità di Angelica, che Fabrizio subisce pienamente, come in quel capitolo del romanzo mai pubblicato (in cui il Principe si innamora della giovane) e la gelosia di Tancredi, mista ad una sorta di soggezione nei confronti dello zio.


Le musiche di Nino Rota fecero il resto, una cornice musicale perfetta, per descrivere la decadenza e la dignità di una famiglia nobile, l'amore tenero e insieme passionale di Angelica e Tancredi, la malinconia del principe.
E rimane il desiderio di rivedere di nuovo il film, con un occhio particolare per gli oggetti, gli ambienti, i luoghi che furono cari, in altri contesti, a Tomasi di Lampedusa.

Lorena Bruno

Qui avevamo parlato del romanzo: leggi l'invito alla lettura