Patrizia Valduga: Medicamenta e Altri medicamenta

Medicamenta e altri medicamenta
di Patrizia Valduga

Einaudi Bianca, Torino, 1989



Prima opera nota di Patrizia Valduga è una miscellanea di prove metriche, Medicamenta, preannunciata sull’Almanacco dello Specchio nel 1981 ed edita un anno dopo. [2] Il titolo rimanda da un lato alla predilezione formale per un lessico raro e, dall’altro, alla ricerca (ora felice ora inappagata) di «farmaci, veleni, filtri d’amore», [3] per combattere l’ipocondria reale della poetessa e ammaestrare le resistenze del «non amante amato» (51). Da subito, entro la «ossessiva replicazione» delle forme metriche chiuse, si rintraccia l’«oscura necessità […] di un io da torturare e da esibire in tutta la sua dissipazione fisica e morale». [4] Appaiono in nuce i temi-chiave dell’intera produzione della poetessa: un sentimento amoroso e sessuale che strabordano dal piacere e perseguono il desiderio, inteso da Recalcati quale «erratico, eccentrico, incostante oltrepassamento di qualunque soddisfazione possibile». [5] Non si insegue un coatto soddisfacimento del bisogno, dal momento che lacanianamente non basta essere soggetto od oggetto; occorre occupare il posto di “causa” di un desiderio che si rinnova ciclicamente e che non risulta mai completamente appagato né estinto. Inoltre, il desiderio è vivificato e riattivato dalla parola, come preannunciato fin dal distico iniziale:

«Sa sedurre la carne la parola,
prepara il gesto, produce destini» (7),
in cui con sapiente costruzione versale si accostano ambiguamente oggetto e soggetto della frase, prima di investire la parola del compito gravoso di trasformare la potenza in atto (ove «prepara» e «produce», allitteranti e in parallelismo, sottolineano la missione generatrice dell’azione verbale).
S’apre quindi la prima sezione, intitolata significativamente “Notti dei sensi”: nella Valduga la notte è pronuba, aguzzina del piacere, quasi sadica propiziatrice di baccanali, che espone l’io-lirico al dissidio interiore tra esperienza erotica e affannata fuga da incubi di profanazione. Qui un amante ossimoricamente «tenero audace» annuncia l’intenzione di possedere l’io-lirico: il «prima di sera io ti scopo» è seguito da un «empio silenzio», ritenuto negativo perché segna una falla nella comunicazione (8).

La carnalità dell’incontro in Qual mai sarà l’anno, il mese, qual giorno, tutta espressa nei suoi aspetti secretivi e materialistici, si scontra con l’omaggio petrarchesco del primo verso[6]; la poetessa vive la tradizionale divaricazione tra mens e corpus, «l’animo che non sa curare i sensi/ o l’animo curare con i sensi» (10). Davanti all’impossibilità di raggiungere razionalmente una pacificazione, all’io-lirico non resta che chiedere aiuto nel sonetto In nome di Dio, aiutami! (che tanto richiama il noto sonetto 116 shakespeariano), in lotta contro il proprio io desiderante. Il partner resta silenzioso all’animalesco «gagnolare ora sì e ora no» (13). Questo porta allo spasmo del desiderio, in un sonetto che cerca di tendere un ponte comunicativo tra sé e l’amante:
Vieni, entra e coglimi, saggiami e provami…
comprimimi discioglimi tormentami…
infiammami programmami rinnovami.
Accelera… rallenta… disorientami.

Cuocimi bollimi addentami… covami.
Poi fondimi e confondimi… spaventami…
nuocimi, perdimi e trovami, giovami.
Scovami…. Ardimi bruciami arroventami.

Stringimi e allentami, calami e aumentami.
Domami, sgominami poi sgomentami…
dissociami divorami… comprovami.

Legami annegami e infine annientami.
Addormentami e ancora entra… riprovami.
Incoronami. Eternami. Inargentami. (14)
Gli endecasillabi sono ritmati serratamente dall’imperativo: l’io-lirico è, allo stesso tempo, soggetto dell’enunciazione e oggetto degli atti. Le richieste si muovono angosciosamente tra coppie oppositive («stringimi e allentami, calami e aumentami» o il chiastico «nuocimi, perdimi e trovami, giovami»), climax ascendenti («ardimi bruciami arroventami»), richiami fonici esibiti («sgominami poi sgomentami», «legami annegami e infine annientami», «fondimi e confondimi»). La frenesia fisica sconvolge l’interpunzione, ora pausata dalla reticenza, ora affrettata dal diretto accostamento di predicati rimanti o fortemente allitteranti. Per quanto gli imperativi testimonino la volubilità della donna, è costante la preghiera di imprevedibilità («disorientami), nel bene («giovami») o nel male («spaventami», «sgomentami»): alle ripetute suppliche di sopraffazione e distruzione, si succede il desiderio di elezione dell’ultimo verso, in cui gli imperativi sono separati da una pausa forte, che li evidenzia nella loro icasticità. Tuttavia, la richiesta eternatrice perde vigore nelle liriche successive, che riprendono il sottotema della finzione e mettono in dubbio la possibilità di combattere la «morte che muore» (15) nel passare «in levità» sulla terra (16).
Nel sonetto Ti voglio far provare il bel piacere, il dialogo con l’amante non è marcato graficamente e l’avvincendarsi delle voci è deducibile solamente dallo scontro tra la proposta svelata del godimento cui risponde la ritrosia di: «Pur mal mio grado? Lasciami tranquilla!». Il godimento, che per Lacan esige l’eccesso pulsionale, dell’Uno senza l’Altro, non può essere vissuto nel solo soddisfacimento simbolico. L’io-lirico diffida, ma gode nonostante le difese erette, suffragando il desiderio di «internarsi più e più» e «incavernarsi» l’uno nell’altra (insistenti le immagini di profondità e di ingresso), in cerca dei frutti «di intemperanza febbrile, di un’attrazione verso l’eccesso, di un rifiuto dell’equilibrio e della moderazione del piacere», [7] ovvero oltrepassando il “principio di piacere” freudiano. Così, il piacere è per la Valduga tutt’altro che compulsione edonistica: il godimento si inserisce in una più ampia Todestrieb, vissuta nella sperimentazione lesiva del Male quale sopraffazione fisica e gioco di umiliazioni.
Sottile la vendetta dell’io-lirico che, in «agguato», «inchiavarda» l’amante al letto, poiché «Tu del mio cuore non ti sei mai curato […] Né cuore avrai di curartene ormai» (29). Il sentimento si delinea tanto disgiuntamente dall’esperienza erotica, che i rari punti di tangenza paiono eccentrici. La preoccupazione dell’amante è quella del possibile allontanamento della donna e, dunque, della possibile «vacuità dell’oggetto del desiderio»:[8]manca una conferma d’amore, desumibile forse dall’incalzante richiesta di tornare e di restare (30). Pur sconvolta da un desiderio violento e cannibalico («io per la voglia scoppio e mi sconsolo», 31), la donna si limita all’osservazione rapace nel sonno dell’amante e al tentativo di obliare emotività e raziocinio, con la complicità del tempo. Nelle poesie successive, tale proposito viene smentito; si cerca piuttosto un ascoltatore con cui condividere il gorgo di parole, «ché di parole straripo» (36). In limine alla sezione “Notti mancate”, si preannuncia una concezione matteblanchiana della vita:[9]
Ti confortino i ritmi delle cose…
io son ritmata sui balzi del cuore. (39)
Per l’amante vi è l’augurio di una vita basata sull’oggettività della logica asimmetrica; vi si oppone la conoscenza solo emotiva della poetessa, che rimanda allo squilibrio imputabile alla rottura della struttura bi-logica, con prevalenza della logica simmetrica. I «balzi del cuore», d’altra parte, sono dovuti alla natura incostante dell’uomo, che prosegue in «questo maledetto andare errando» (42) da rabdomante erotico. Pertanto l’amante si configura quale nemico da sconfiggere: Valduga dispiega tutto l’armamento tradizionale del lessico guerresco per esplicitare la conflittualità e il desiderio di vittoria sull’amante. L’obiettivo qui non però è estinguere il desiderio, ma bruciare dello stesso ardore, sincroni, senza rimedio, secondo quel «petrarchismo osé» cui ha fatto riferimento Santagata. [10] Anche l’ineffabilità classica torna a rimordere, ma con spaventosa riattualizzazione: la poetessa non trova parole-«ventose» in grado di trattenere, né parole-«pistole» che, al contrario, colpiscano a morte (46). «Poche erose scrofolose parole» (47) [11] giustificano la prevalenza monologante della raccolta, che tradisce una comunicazione continuamente frustrata, conclusa con la beffarda eco dalla Tosca «Frissi d’amor con arte, d’amor scrissi/ senz’arte» (62), a rimarcare la sconfitta verbale contemporanea (e al tempo stesso atavica).
L'opera si configura come una continua e inesausta ricerca metrico-stilistica e semantica: per gli amanti di poesia, avvezzi a non stupirsi di chi osa con il verso.

 Gloria M. Ghioni



[1] Si tratta di quattordici poesie, uscite sul n. 10 dell’Almanacco dello Specchio, con una prefazione di G. Raboni, (1981).
[2] P. Valduga, Medicamenta, Guanda, Parma 1982. Lo si legge ora in Medicamenta e altri medicamenta, Einaudi, Torino 1989. Per maggiore efficienza, fino a nuova indicazione, le pagine indicate tra parentesi nel corpo del testo faranno riferimento a quest’ultima edizione.
[3] L. Baldacci, La parola immedicata, in P. Valduga, Medicamenta e altri medicamenta, cit., v.
[4] R. Galaverni, Nuovi poeti…, cit., 17.
[5] M. Recalcati, Ritratti del desiderio, cit., 49.
[6] L’omaggio incipitario a Petrarca si ripeterà anche in G. Raboni, nei Versi guerrieri e amorosi: «Troppi anni e mesi e giorni e notti e sogni», in L’opera poetica, a cura di R. Zucco, Milano, Mondadori, 2006, 766 (da qui si cita per tutte le opere raboniane).
[7] M. Recalcati, Ritratti del desiderio, cit., 98.
[8] Ivi, 117.
[9] In più luoghi la stessa Valduga conferma l’influenza degli studi di Matte Blanco sulla sua poesia e sulla sua vita.
[10] F. Erbani – M. Santagata, La bellezza del dolore. Santagata: quando Petrarca raccontò l’amor scortese, «La Repubblica», 11 agosto 2012.
[11] Ineffabilità condivisa, negli stessi anni, da Raboni: «Di quello che ho nel cuore/ parlo poco, mi frena la paura./ E voglio e soffro, e mi farà morire/ la cosa che la lingua non sa dire» (in L’opera poetica, cit., 789)