«Le vergini suicide», di Jeffrey Eugenides



Le vergini suicide
di Jeffrey Eugenides
traduzione di Cristina Stella

Mondadori, 1994
Oscar Contemporanea Mondadori, 2008

pp. 213
Euro 9,50


Uscito nel 1993 negli Stati Uniti, «Le vergini suicide» è il primo romanzo di Jeffrey Eugenides (1960), conosciuto anche per la bella trasposizione filmica (Il giardino delle vergini suicide) operata da Sofia Coppola (1999) in cui ben recitava tra gli altri la giovinetta Kirsten Dunst (della quale ogni maschio in età ormonale si sarà innamorato), non ancora contaminata dalla consapevolezza adulta della sua bellezza.

La storia narrata è molto semplice: classicamente si inizia dalla fine, ossia da Mary Lisbon, ultima a suicidarsi di cinque sorelle adolescenti che nel giro di un anno abbandonano la vita:
«La mattina che si uccise anche l’ultima figlia dei Lisbon (stavolta toccava a Mary: sonniferi, come Therese) i due infermieri del pronto soccorso entrarono in casa sapendo con esattezza dove si trovavano il cassetto dei coltelli, il forno a gas e la trave del seminterrato a cui si poteva annodare una corda.»
Le ragazze sono pallide, bionde e, a differenza dei genitori, molto belle:
«Le figlie dei Lisbon avevano rispettivamente: tredici (Cecilia), quattordici (Lux), quindici (Bonnie), sedici (Mary) e diciassette anni (Therese). Statura bassa, glutei rotondi nei jeans, guance pienotte che evocavano come un’eco quella morbidezza posteriore. I loro visi, le volte che riuscivamo a posarvi lo sguardo, ci colpivano come una sorta di rivelazione impudica, quasi fossimo avvezzi a vedere soltanto donne coperte da un velo. Nessuno sapeva spiegarsi il fatto che i Lisbon avessero messo al mondo quelle splendide creature.»
Raccontata da una voce corale in prima persona plurale, ossia da un gruppo di ragazzi che si struggeva dietro di loro e che a distanza di tanti anni si interroga sui motivi che le hanno portate al suicidio, la storia riprende così le fila dalla morte di Mary per introdurci nel mondo di una piccola cittadina americana della seconda metà del Novecento, in cui si conoscono tutti e tutti vivono in deliziose villette indipendenti immerse nel verde.

Lo statuario equilibrio umano del luogo è rotto dal tentativo di suicidio della più piccola, Cecilia, che viene salvata all’ultimo momento dopo essersi tagliata le vene; successivamente ci ritenterà, riuscendoci. Da qui, questo microcosmo che pare una palla di vetro viene agitato con gusto sadico da una plumbea tristezza onnicomprensiva.
Senza anticipare altro della trama, per chi non l’avesse letto, sposterei il riflettore sull’essenza di questo libro, talmente bello e delicato da turbare in profondità: l’essenza è un’inquietudine che Eugenides è maestro nel creare, comunicare, e lasciare incompiuta, impedendo che arrivi una spiegazione catartica dei terribili gesti delle cinque sorelle. Scelta rischiosa, che ha portato qualche lettore esageratamente seguace del determinismo a rinfacciargliela, forse anche fomentato dal fatto che gli stessi narratori la cercano ossessivamente: nell’impossibilità di ottenerla altrove, soprattutto per l’imperscrutabilità che ha sempre caratterizzato i pensieri delle ragazze, tentano di raggiungerla attraverso l’adorazione feticistica di oggetti appartenuti alle sorelle Lisbon, rigorosamente classificati con la dicitura di “reperto”, seguita da un numero: dal diario di Cecilia, a un reggiseno di Lux, a varie foto e disegni, fino ai bigliettini superstiti che li invitarono all’unica festa adolescenziale che mai ci fu in casa Lisbon, organizzata dopo il mancato suicidio di Cecilia: festa organizzata per mettere in pratica il consiglio dello psichiatra, che consigliava ai coniugi di far socializzare le sorelle con i ragazzi della loro età, oltre alle occasioni scolastiche e religiose.

Eugenides, con una scrittura leggera e al contempo dolorosa, prende così il lettore e lo scaraventa nel mondo oppressivo che si rivela essere casa Lisbon, dove tutte quelle frivolezze che si pensa siano normali (e fisiologiche) per delle adolescenti (un ragazzo, essere sciocchine, truccarsi, mostrare il corpo) vengono negate.
Sarebbe quasi automatico, così, pensare che Cecilia, Lux, Bonnie, Mary e Therese non abbiano retto alla devastante amorevolezza della madre e all’abulia del padre: ma nel corso della lettura nascono tanti altri, infiniti, interrogativi: perché uccidersi, se avevano lalternativa concreta di scappare? Hanno “seguito” Cecilia, quella tra le cinque più schiacciata da una tristezza endemica? Nel libro c’è un passo in cui si parla come di una malattia diffusa che ha infettato tutte dopo il primo suicidio. Si creano domande, ma non risposte. Anche i ragazzi sembrano rinunciare, per poi trovare una chiave che spiega tutto e non spiega niente (il passo che conclude il libro):
«Ma tutto questo è un voler correre dietro al vento. L’essenza di quei suicidi non era la tristezza, non era il mistero, ma un puro e semplice egocentrismo. Le ragazze […] erano diventate troppo potenti per vivere tra noi, troppo preoccupate di se stesse, troppo visionarie, troppo cieche. Ciò che perdurava dopo il loro passaggio non era la vita […] ma una lista quanto mai banale di eventi terreni: il ticchettio di un orologio a muro, la penombra di una stanza a mezzogiorno e l’oltraggio di una creatura che pensa solo a se stessa. Il cervello che si appanna per tutto il resto ma arde in nuclei di sofferenza, di ferite personali, di sogni perduti. Ogni figura cara sembra allontanarsi sullo sfondo di un vasto banco di ghiaccio galleggiante, un puntolino nero che agita braccia minuscole, inudibile. E allora ecco la corda passata intorno alla trave, la pillola lasciata cadere nel palmo della mano, sulla linea lunga e bugiarda della vita, ecco la finestra spalancata, il forno acceso e via dicendo. […] Non riuscivamo a immaginare il vuoto interiore di un essere umano che si accostava un rasoio al polso e si apriva le vene: il vuoto e la calma. […] e le chiamiamo perché escano dalle stanze in cui sono entrate per trovare la solitudine eterna, la solitudine del suicidio, che è più profondo della morte, le stanze dove non troveremo mai i pezzi per rimetterle insieme.»
A dimostrazione di come per ogni testa ci sia una spiegazione, qualche pagina prima si dice:
«Con il passare del tempo la gente scordò i motivi personali che potevano averle indotte a quel gesto, le reazioni psicogene, i neurotrasmettitori carenti, per attribuire la loro morte alla capacità di prevedere la rovina. La gente ravvisava quella chiaroveggenza nello sterminio degli olmi, nella luce inclemente del sole, nel declino ininterrotto della nostra industria automobilistica.»
Dunque un’interpretazione del libro come critica dell’american way of life? Possibile e concreta (c’è anche un personaggio che dice: “I frutti del capitalismo sono il benessere materiale e la bancarotta spirituale.”). A mio parere però sarebbe limitata e limitante, in quanto Eugenides scava molto più in profondità di contesti contingenti e deperibili, riuscendo a toccare e portare alla luce (ma una luce che acceca e che equivale dunque al buio e all’incomprensibilità) dolori umani che vanno al di là dello spazio e del tempo. E lo fa in un modo che è proprio solo dei grandi scrittori: ossia con l’assenza di spiegazioni e di intenti pedagogici, e la delicatezza stilistica da cui erompe una levità narrativa che ci dice che l’unico modo per avvicinarci, pur senza capirli, alle cose, alle persone e ai misteri della vita è non possederli.

Jeffrey Eugenides
Proprio per questo, nel libro domina anche una forte sensualità, in cui c’è poco di sessualmente esplicito e tanto di immaginato, evocato (una spallina, un minuscolo lembo di pelle, un ginocchio piegato sotto la gonna): in questo – è banale ma obbligato il paragone, che è stato infatti già fatto – Eugenides ricorda Nabokov: non so se per la figura di Lux, la più turbata e conturbante delle sorelle, che è anche l’unica sessualmente attiva, Eugenides si sia ispirato a Lolita (Dolores), ma di certo i punti in comune non sono pochi: solo un paio di anni di differenza, una carica erotica naturale e mai volgare (non si capisce se inconsapevole o meno), e quel raro, magnetico fluido, tanto corporeo quanto spirituale, che è capace di annullare ogni razionalità in ogni uomo.

Nabokov mi è tornato alla mente anche leggendo qualche trovata veramente efficace di Eugenides, in cui si tratta la fisicità genitale da una visione obliqua, arricchita da sottile ironia e giochi di metafore:
«Vorremmo essere in grado di dirvi a buon diritto cosa succedeva fra le pareti di casa Lisbon, o cosa provavano le ragazze in quella prigione. […] Il tentativo di localizzare con esattezza la sofferenza delle ragazze somiglia all’autoesame che i medici ci consigliano caldamente (ormai abbiamo l’età giusta). A intervalli regolari siamo costretti a esplorare con distacco clinico il nostro sacchettino più intimo, e a premerlo per imprimerci nella mente la sua realtà anatomica: due uova di tartaruga coricate in un nido di sargassi, circondate da tubi serpeggianti, costellate di noduli di cartilagine. Il nostro compito sarebbe quello di scovare, in questo luogo dai confini malcerti, in mezzo a grumi e matasse fisiologici, eventuali invasori sbucati dal nulla. Non ci siamo mai accorti di avere tanti bozzi finché non siamo andati a cercarli. E così, stesi sulla schiena, sondiamo quello spazio, indietreggiamo, ci riproviamo, e i semi della morte si perdono in quel guazzabuglio, perché Dio ci ha fatti così.
Lo stesso per le ragazze. Non abbiamo nemmeno cominciato a palpare il loro dolore che già ci ritroviamo a chiederci se una determinata ferita era mortale o no, oppure (nella nostra diagnosi cieca) se si tratti davvero di una ferita. Potrebbe anche essere una bocca, altrettanto calda e bagnata. La cicatrice potrebbe coprire il cuore o la rotula. Impossibile stabilirlo. Possiamo solo risalire a tentoni le gambe e le braccia, su per il morbido tronco bivalve, e raggiungere un viso immaginato. Ci sta parlando, ma noi non lo sentiamo.»
Una parola che andrebbe dosata è “capolavoro”, ma credo che a distanza di quasi vent’anni per questo libro la si possa oramai utilizzare.

Piero Fadda