Criticalibera: Alla ricerca del tempo perduto: la vita di un romanzo. Parte quinta



All’indomani della morte di Agostinelli, Proust compone, quasi di getto, il “pannello” narrativo che costituirà l’ossatura di Albertine scomparsa, e subito, a seguire, quello della Prigioniera. Il personaggio di Albertine, trasfigurazione letteraria di Agostinelli – ma la femminilità del personaggio ha una plausibilità e una concretezza stupefacenti – campeggia da assoluta protagonista nei due nuovi “pannelli” e invade, determinandone spostamenti, cancellazioni, adattamenti, riscritture, tutti gli altri. Tra il 1914 e il 1918 Proust sottopone il romanzo che aveva preannunciato nella controcopertina del primo volume a una profonda rielaborazione, tanto che dai tre previsti, dopo una breve sosta ai cinque, la Ricerca si attesterà ai sette volumi. Gran parte degli episodi già scritti subiscono l’avanzata del nuovo personaggio, e vengono rifunzionalizzati sulla base del nuovo progetto narrativo e dei nuovi significati che l’esperienza biografica del suo autore dà loro. Altri già pronti e rifiniti, alcuni dei quali riletti tra i brogliacci dell’autore appaiono, a livello stilistico e narrativo, di grande spessore, semplicemente spariscono o lasciano scarsissime tracce nella redazione definitiva. Alcuni personaggi e altri episodi sono innalzati al rango di protagonisti perché funzionali all’accresciuto ruolo di Albertine e dell’inversione sessuale che la nuova struttura dell’opera prevede. La fuga e la morte di Agostinelli non forniscono solo nuovo materiale grezzo, bensì immettono nel motore della Ricerca un potentissimo impulso propulsivo, così Albertine “si sovrappone a Gilberte, alla Nonna, alla Mamma; è a Balbec, a Parigi, a Venezia; supera Odette nell’ispirare amore e tormenti; incarna Gomorra e Santa Cecilia” (Anne Chevalier).

L’immediatezza della scrittura rispetto all’evento biografico stringe in un nodo inestricabile e, fino ad allora inedito, il romanzo e la vita. Il romanzo non si pone più esclusivamente l’obbiettivo di dare retrospettivamente senso a una vita, bensì ne diventa quasi un diario (e per lunghi tratti Albertine scomparsa è il diario di una follia): vita e scrittura si avvicinano e si sfiorano in una vertigine d’immenso spessore e di inaudita profondità. È nella più chiara e determinante percezione di questo nodo che si fa strada e si afferma in Proust l’idea di inserire nel romanzo “pezzi di realtà” – secondo un modello che aveva già ammirato nella tetralogia wagneriana, dove, ad esempio, i colpi di martello del fabbro o il suono delle campane del villaggio fanno parte della tessitura musicale. In Albertine scomparsa l’autore inserisce il brano di una tenerissima lettera che il transfuga, Alfred, gli aveva spedito in risposta alle velate implorazioni dello scrittore perché tornasse. In altre parti del romanzo la realtà biografica si affaccia ex-abrupto o più obliquamente: il personaggio reale, modello del personaggio fittizio del romanzo, appare direttamente in scena nella sua consistenza storica e biografica, accanto, in un divertito e divertente gioco di specchi, alla sua trasfigurazione letteraria (bisogna però avvertire che in Proust il personaggio fittizio – così come i quadri e le musiche fittizie descritte nel romanzo – sono sempre il risultato di un’interpolazione tra più modelli, tra cui spesso uno principale). Il personaggio Charlus incontra e stringe la mano al suo modello reale, Montesquiou, Charles Haas (uno dei modelli di Charles Swann) diventa un personaggio storico che il romanzo del Signor Marcel Proust ha “salvato” dall’oblio. E in questa prospettiva, nella rinnovata dialettica tra materiale biografico e trasfigurazione letteraria, non è casuale che il nome di battesimo del personaggio-narrante venga pronunciato per la prima volta nella Prigioniera, V volume dell’opera!

Ma il nuovo rapporto tra biografia e scrittura – rapporto biunivoco, ché la vita nutre la scrittura, e la scrittura regola, guida e modella la vita – ha le sue più potenti ricadute esistenziali, letterarie e filosofiche sull’ultimo capitolo, sul disvelamento del senso generale dell’opera che quell’ultimo capitolo da sempre serba in sé. Se prima del 1914 – diciamo all’altezza della progettata edizione Grasset in tre volumi – lo scrosciare e il ravvicinamento delle esperienze extratemporali del Ballo in maschera provocavano nel narratore la definitiva scoperta irreversibile della sua vocazione di scrittore, alla cui dedizione era demandata la sua “salvezza”, ora, dopo aver stretto un nuovo patto tra biografia e scrittura, Proust “vede” la possibilità della vertiginosa conciliazione tra tempo lineare e tempo ciclico (così come aveva visto e praticato una nuova sintesi tra vita e scrittura). Lo scrittore “ritrovato” sa che scriverà il romanzo, che rielaborerà i materiali che la vita gli ha fornito, sa che lo scriverà di notte, che Françoise – nelle cui vesti di personaggio fittizio si è infilato il personaggio storico Céleste Albaret, che nel romanzo appare anche in quanto tale – raccoglierà e ordinerà i suoi brogliacci e escogiterà un modo per permettere all’autore di dilatare indefinitivamente il suo racconto – le “paperoles”, lunghe strisce di carta che la governante incollerà sui fogli di quaderno che contengono la redazione definitiva (si fa per dire) degli ultimi volumi dell’opera -, lo scrittore, il personaggio-narrante sa che farà tutto ciò che l’autore ha appena finito di fare. Il romanzo a venire del narratore è il romanzo scritto dall’autore e che il lettore sta per chiudere. Insomma per concludersi, e perché non sia solo un annuncio, il romanzo deve saltar fuori dal romanzo, deve avere una vita propria: deve conciliare senza annullarla l’antinomia tra vita e scrittura, tra tempo ciclico (lo scrittore-personaggio ricomincerà da Combray) e tempo lineare (l’autore ha già scritto il romanzo). Vita e scrittura, tempo “perso” e tempo “ritrovato”, tempo ciclico e tempo lineare, sono di nuovo amalgamati in un impasto inestricabile, dopo aver fatto brillare – “troppo tardi, ma per sempre” – la loro conciliazione.

Così tra il 1914 e il 1918, mentre la Storia macella uomini e cose, Proust riscrive il suo romanzo, lo aggiorna, lo articola, lo arricchisce, lo rende più contemporaneo e più “vero”. Nel frattempo, le insistenze della NRF, la dedizione di Jacques Rivière e l’ostinazione di Gaston Gallimard hanno ragione delle resistenze proustiane: l’intera opera è messa nelle pazienti mani della prestigiosa casa editrice. Nel 1919 esce All’ombra delle fanciulle in fiore, che, tra le polemiche, vince il premio Goncourt. Lo stile e i principi estetici dell’autore cominciano a circolare tra il pubblico più velocemente, incontrando resistenze e nuovi adepti, suscitando discussioni e relative precisazioni dell’autore, il quale, come tutti i grandi, ha l’orgoglio e l’umiltà di non passare sotto sdegnato silenzio le critiche e le lodi, bensì di tenerne conto chiarendo a se stesso e agli altri il senso e il valore della propria opera.

Tra il 1921 e il 1922 escono il terzo e il quarto volume della Ricerca, Dalla parte dei Guermantes e Sodoma e Gomorra. Nel frattempo ha portato a termine il massiccio lavoro di riscrittura e l’ha consegnato a una serie di quaderni numerati che nelle lettere (e probabilmente nelle conversazioni de visu) a Gaston Gallimard sono indicati come i depositari della sua opera compiuta. Nell’ottobre del 1922 esce per un ricevimento in casa di una qualche aristocratica, al ritorno per il freddo e la nebbia della Parigi autunnale si busca una bronchite. Una delle tante, pensa lo scrittore. Esce di nuovo, nello stesso mese, per aspettare inutilmente per tre ore nella hall di albergo il suo ex segretario svedese Ernest Forssgren. La bronchite degenera in polmonite: il suo medico personale, Bize, quello parentale, Robert Proust e quello interpellato per lettera, il fratello di Jacques Rivière, non riescono a convincerlo a sottoporsi alle cure del caso e men che mai a farsi ricoverare. In quei drammatici momenti, Proust torna il bambino che a 10 anni sconquassato da una terribile crisi d’asma vede intorno a sé l’impotenza della scienza medica, né il padre né l’amico di famiglia, medici famosi e campioni delle certezze positivistiche, che assistono alla scena della sua quasi-morte, possono far nulla. Allora, gli occhi velati dalle lacrime avevano potuto vedere lo sgomento disperato misto alla tenerezza infinita della madre, ora, dopo 40 anni, vede la morte che fin dall’inizio del suo romanzo egli sa essersi installata dentro di lui, e che, a romanzo terminato, viene ad interrompere la lunga dilazione che gli ha concesso perché andasse alla ricerca del senso. Si arrende e si spegne, ostinatamente nel suo letto, il 18 novembre del 1922.

Escono postumi La Prigioniera (1923), Albertine scomparsa (1925) e il Tempo ritrovato (1927).
Perché, nonostante gli ultimi tre volumi siano postumi e nonostante si sappia che l’autore ha continuato a lavorare alla sua opera fino ai suoi ultimi giorni, forse addirittura ultime ore della sua vita, Alla ricerca del tempo perduto non può essere considerata un’opera incompiuta? Perché il suo senso ultimo, la sua ragion d’essere, erano state affidate al volume conclusivo, Il Tempo ritrovato, già scritto e rifinito in anticipo. Per un’opinione di questo tipo abbondano le prove documentarie. Fin dal 1909, Proust ritiene di aver “iniziato – e terminato – un lungo romanzo” e sempre insisterà nel dire di aver scritto il primo e l’ultimo capitalo uno immediatamente di seguito all’altro. Nella corrispondenza con Gallimard, lo scrittore, che sapeva di ospitare dentro di sé la sua morte, fa spessissimo riferimento ai quaderni che contenevano “tutto il seguito” della sua opera. Infine, Céleste Albaret riferisce un episodio particolarmente significativo: nella primavera del 1922, dopo aver probabilmente rifinito per l’ennesima volta il manoscritto del Tempo ritrovato, la chiama e le annuncia, con una qualche enfasi, «Sapete, è successa una gran cosa, stanotte (…). E’ una grande notizia. Questa notte ho messo la parola fine» Ancora una volta: in Proust nulla è lineare o facilmente acquisibile. Se l’opera era già “terminata” nel 1909, perché è una “grande notizia” mettere la “parola fine” nel 1922? Quel finale non è più lo stesso? Il senso è cambiato? Sì e no, ovviamente. L’”effetto Agostinelli” ne aveva in parte cambiato il senso e la direzione della ricerca (non più solo retrospettiva, ma anche diaristica, non più solo superbamente rielaborata dallo stile, ma capace anche di amalgamare “pezzi di realtà”; non più una sicura e definitiva scissione tra tempo lineare (“tempo perduto”) e tempo ciclico (“tempo ritrovato”, tempo della letteratura che ritorna su se stesso), bensì la provvisoria loro conciliazione e la corrispondente vertigine che sbalza fuori dal romanzo, verso la realtà, pur non smettendo di essere un romanzo.


Come ogni romanzo di una vita, la Ricerca non poteva concludersi se non con la morte dell’autore. E come ogni vita di un romanzo, la Ricerca, dopo essere venuta al mondo, dopo essere cresciuta e maturata grazie alle cure del suo autore-genitore, dopo aver dato luogo a una sua specifica biografia, continuerà a vivere e irradiare senso nella testa e nel cuore del Lettore. Al quale, in fondo, queste brevi (rispetto al possibile) e lunghe (rispetto alla sua pazienza) note sulla vita di un romanzo sono dedicate.


Paolo Mantioni