XXV Premio Italo Calvino: 2. Intervista a Riccardo Gazzaniga, il vincitore

Il Salotto - Riccardo Gazzaniga
a cura di Piero Fadda 
 
Riccardo Gazzaniga ha 36 anni, e da circa una quindicina lavora in polizia, a Genova, come Sovrintendente. La sua casa professionale è la caserma di Bolzaneto, e gestisce anche la Biblioteca «Giovanni Palatucci», oltre a essere delegato del SILP per la CGIL. Si occupa spesso, sul campo, di ordine pubblico, per cui non è raro trovarlo tra le forze dell’ordine che stazionano nei pressi degli stadi. L’esperienza diretta l’ha portato perciò a scrivere un romanzo su questo mondo, narrativamente ancora poco esplorato: con A viso coperto ha così vinto il «Premio Calvino» 2012. Ma sarebbe limitante circoscrivere la sua vena alla professione di poliziotto, poiché nella sua produzione A viso coperto è un’eccezione. I precedenti lavori di Riccardo spaziano infatti dal giallo al thriller all’horror, fino al filone dei vampiri (con l’altro romanzo, inedito, Vieni da me, segnalato allo stesso «Calvino» nel 2010): nel corso degli anni ha partecipato a molti concorsi, e tra vittorie e finali ha ricevuto importanti riconoscimenti: vittoria all’«Orme Gialle», finale al «Mystfest»… insomma, quella che si dice la gavetta. Ora, se tutto va bene (incrociando dita e mani), la gavetta sembra finalmente conclusa, e ci apprestiamo a fargli qualche domanda prima che se ne appropri Fabio Fazio.

Riccardo Gazzaniga
Prima domanda, banale ma inevitabile: cosa si prova a essere il vincitore del più prestigioso premio per inediti italiano?
Risposta altrettanto banale e inevitabile, Piero: sono contentissimo. È qualcosa a cui ho lavorato per anni. Quest’anno ho addirittura rifiutato delle pubblicazioni per il mio primo inedito, perché credevo molto in questo secondo lavoro e nel suo risultato al Calvino. Sono felice di averlo fatto, adesso.

È la tua terza partecipazione: sono state utili le schede di valutazione delle precedenti edizioni per migliorarti e perseverare?
Sì, molto. La prima, per una raccolta di racconti, mi aveva dato fiducia, pur non lesinando critiche. La seconda, per un romanzo horror, era migliore tanto che il Premio aveva deciso di segnalarlo. Soprattutto mi riconosceva la capacità nella gestione dell’intreccio e su questo ho fatto leva per il mio seguente lavoro.

Hai vinto quella che, fino a oggi, è considerata, dal punto di vista del numero di partecipanti (626) l’edizione più importante del premio, la XXV: quali sono ora le tue aspettative? Stai già schivando editor piacevolmente invadenti?
Tutto quanto ho inseguito per anni si è verificato in una settimana. È incredibile. Sì, gli editor ci sono e anche le proposte, a testimonianza che il peso del «Calvino» è ormai riconosciuto. Una finale in questo premio rappresenta una sorta di certificato di qualità e non posso che essere grato ai lettori che faticano ogni anno per selezionare i finalisti.

Il tuo libro, A viso coperto, affronta il delicato tema del rapporto tra le Forze dell’Ordine e gli Ultrà, proprio in un momento, per la Polizia, molto caldo, dopo i film acab e Diaz: la tua idea però viene da lontano, essendo realtà vissuta nel tuo lavoro da poliziotto: c’è qualcosa in particolare che ti ha spinto a affrontare questo argomento?
Il tema è senza dubbio caldo e questi lavori e il libro acab mi hanno stimolato, convincendomi che l’argomento interessava. Io avevo già iniziato il romanzo, ma la mia fiducia è aumentata. In realtà da qualche anno l’idea di raccontare la mia esperienza in servizio di ordine pubblico mi ronzava in testa ma in parte non sapevo da che parte affrontare questo argomento, dall’altra avevo un certo timore nel maneggiare questa materia. Ho cominciato due cose: un romanzo e una specie di saggio autobiografico. Ma nel giro di un paio di giorni mi è stato chiaro che l’unica via era quella del romanzo.

Cosa ne pensi di acab (sia libro che film) e di Diaz?
Allora… il libro acab mi era piaciuto, perché era scritto con onestà intellettuale da un autore che si era informato, si era documentato su di noi e ci raccontava per la prima volta seppur dall’esterno. Era comunque una grande novità, anche se il Reparto rappresentato, cioè Roma, e la tipologia di colleghi che ne usciva era parecchio estrema rispetto a una realtà che è decisamente più “normale”, anche noiosa se vogliamo. Forse quel quadro era leggermente datato.
Il film acab è invece decisamente più spinto verso l’operazione commerciale e di genere. Rappresenta un insieme di poliziotti che si comportano quasi da banditi, che estremizzano tutto in un continuum tra vita e lavoro. Sinceramente non mi ha convinto, non ci rappresenta. Trovo che il film dia al pubblico ciò che il pubblico si aspetta di trovare.
Diaz ha un taglio più giornalistico si fonda su sentenze e libri di testimoni. È un ottimo film, di grande impatto emotivo. Ci costringe a guardarci dentro, anche noi poliziotti, anche se dal film non emerge il contraltare. I poliziotti sono quasi automi senza viso, cervello, motivazioni. Pur nell’errore innegabile di quell’operazione e in quello ancora più aberrante di Bolzaneto, ci furono responsabilità morali, politiche e gestionali che portarono a quegli eventi drammatici e non riguardarono solo chi materialmente commise dei reati. Un generale clima da giorno del giudizio che molti, da entrambi i lati, contribuirono a creare. Questo aspetto viene sfiorato, ma non investigato a fondo.

Nel libro metti in risalto la logica del clan (sia tra i poliziotti che tra gli ultrà) e – pur con le diverse sfumature dei personaggi come “individui” – valorizzi il concetto di “lealtà al proprio gruppo: che importanza attribuisci a questi concetti nelle dinamiche che regolano i rapporti tra le Forze dell’Ordine e i tifosi?
La dinamica di gruppo è un aspetto fondamentale del mio romanzo. Il gruppo condiziona il singolo, il far parte di esso provoca e induce reazioni che sarebbero altrimenti diverse. Per farti un esempio: al cinema non capita mai di vedere un singolo che prova a “sfondare” per saltare la coda, allo stadio il gruppo può farlo.
Quanto alla lealtà è il tema fondamentale del romanzo, insieme alle conseguenze della violenza. La lealtà al gruppo e alle sue regole – di solito elementari quanto inviolabili – l’autodifesa strenua e anche l’omertà sono un elemento con cui entrambi i gruppi si devono confrontare. Tutti, in qualche modo, dovranno scegliere chi o cosa tradire: sé stessi, gli amici, gli affetti, il gruppo stesso.

Ti sei ispirato in particolare a qualche autore per A viso coperto?
Sul mondo ultras esistono saggi scritti da tifosi, in forma di esperienza personale o da gruppi, ma pochi romanzi. Per questo mi sono ispirato alla trilogia di John King sugli hooligans inglesi, che racconta le vicende dei protagonisti dando un valore centrale al loro privato.
Per la parte poliziesca mi hanno stimolato molto due poliziotti che si sono cimentati nel romanzo, seppure in modo e con risultati differenti: Wambaugh in America e il mio collega Gianni Palagonia in Italia, che ha scritto su mafia e BR.
Fondamentale è stato anche Genova sembrava d’oro e d’argento di Giacomo Gensini, uscito con Mondadori alcuni fa. Narrava il G8 visto dagli occhi di un poliziotto. Il suo approccio però era unilaterale, con un testo in prima persona.
Io invece ho preferito una scelta corale, come Wambaugh, senza che emergesse un protagonista centrale, per disporre di più punti di vista.

È interessante conoscere il modus operandi degli scrittori: come nascono i tuoi scritti? Parti da un’idea e la sviluppi strada facendo o hai già tutto chiaro in testa sin dall’inizio?
Ti dirò che purtroppo, con il tempo, mi dimentico un po’ da dove e come sia nata l’idea.
Di sicuro io sviluppo in mente la trama, ho presente l’inizio, la fine e cosa succederà a grandi linee. Preparo anche qualche schema e lavoro su singoli paragrafi come fossero racconti. Poi, durante la stesura, emergono problemi imprevisti e di solito i personaggi e le vicende si ingigantiscono. Però, d’altra parte, arrivano idee nuove, soluzioni che risolvono tutto quanto non quadrava a pensarlo con gli occhi della mente.

Hai avuto diverse esperienze con altri premi letterari, prima del «Calvino»: pensi che possano aiutare l’esordiente nell’impervia strada che porta alla pubblicazione?
Direi che contano a metà. Io ho partecipato a decine di premi, vincendone diversi. Mi hanno aiutato a prendere fiducia, a confrontarmi con i lettori e a insistere. Però l’impatto editoriale rimane nullo ovvero quei risultati non fanno curriculum. Sono pochissimi i premi che abbiano rilievo, per esordienti, e diversi concorsi attraversano un periodo di difficoltà. La maggioranza, peraltro, sono premi per racconti. Ma sappiamo che in Italia la spendibilità commerciale dei racconti è nulla.
Credo sinceramente che solo il «Calvino» possa aprire possibilità concrete per un esordiente. Non solo per i finalisti, ma anche per i segnalati.

Hai avuto anche un’esperienza nell’odiato mondo dell’editoria a pagamento: ti va di raccontarci come è andata? Ti senti di dare qualche particolare consiglio a chi muove i primi passi, per evitare di cadere nella “trappola”?
Dici bene tu: è una trappola. Tanti esordienti, all’inizio, ci cascano. Si è portati a credere che contribuire sia fondamentale per farsi stampare. Ci si autoconvince – io stesso l’ho fatto – che alcuni grandi pagarono per autoprodursi e che, se il libro vale, poi emergerà.
Diversi editori a pagamento raccontano palle agli scrittori sapendo di farlo. È questo che dispiace. Di solito un editore che chiede un contributo sa già che quell’autore non avrà nessuna chance di emergere, perché lui non ha le possibilità, la voglia o i mezzi di sostenere un libro.
Nel mio caso mi affidai al print-on-demand, una variabile edulcorata del pagamento: in pratica ti autostampavi il libro per le copie che servivano e ti occupavi di promuoverlo direttamente.
Il problema era che, anche promuovendosi, non c’era possibilità di essere letti. Quella raccolta, pure ingenua, ebbe recensioni positive e un premio, ma rimase introvabile in libreria. Se ordinata, non arrivava o appariva inesistente. Ed è questo il punto: i libri “a pagamento” non esistono. Non sono in libreria, non hanno lettori, non vendono e non venderanno mai.  Senza trascurare il fatto che un romanzo già edito è “bruciato”. Difficilmente qualcuno sarà disposto a investirci sopra.
Esistono comunque piccole realtà che ancora non chiedono denaro e cercano di fare gli editori, nonostante le difficoltà. La Rete oggi dispone di siti che certificano anche gli editori. Bisogna utilizzare questo strumento e informarsi, per evitare di commettere errori non rimediabili.

Ti ringraziamo per la disponibilità e un grosso in bocca al lupo: ci rivediamo tra un milione di copie?
Però voi dovete avere un milione di visitatori!

Sarà fatto!
Ringrazio Silvia e Daniela per le idee che hanno ispirato alcune domande.


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intervista a cura di Piero Fadda