CriticaLibera - Dante a Palermo (6)

Dante a Palermo (6)
(Verosimile al 50%) 
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16. Per giustificare l’assenza di Fulippu, dissi alla sua fidanzata che mi aveva chiesto insistentemente notizie: «È andato in un isola del Pacifico, a vendere Carretti Siciliani. Tornerà presto, perché diventerà miliardario e saremo tutti felici». La ragazza era piuttosto dubbiosa, e non mi mandò a quel paese per educazione. In realtà, non sapevo dove si trovasse il suo fidanzato: avevamo perso le sue tracce appena arrivati a Palermo. Egli ci salutò in un bar, bevendo un caffè, dicendoci che sarebbe andato con la polacca bellissima per eseguire una “commissione” (Fulippu ci sa fare con le donne, e le donne “cadono ai suoi piedi[1]”). Ritornò dopo una settimana, con qualche chilo in meno, le occhiaie e un sorriso soddisfatto simpaticissimo. Aprì la porta di ingresso cantando un’aria della Carmen. Si sedette, gli preparammo un tè e nel momento in cui stava per iniziare il suo racconto sporco, la cui ouverture suonava: «Non ci crederete miei ottimi amici, ma era bionda! Bionda ovunque! E poi…», Fulippu fu interrotto da un fatto gravissimo: gli cadde un centesimo in terra sfilando una mano dalla tasca dei jeans. Ci mettemmo tutti carponi per cercare quella preziosa moneta. Ma niente: la moneta sembrava svanita. Passò circa mezz’ora, e Dante attirò l’attenzione a sé perché si accorse che sotto il lavello, dietro i tubi, si intravedeva una porticina in legno; ci avvicinammo al Sommo che, con un po’ di timore, posò la mano sul pomello. Disse guardandoci: «Apro?». Ancor prima che rispondessimo, aprì. C’era un cunicolo fangoso, di circa un metro di diametro, buio, da cui fuoriusciva aria molto fredda, che profumava di violette. Fulippu notò accanto la porticina un citofono con una targhetta, ricoperti di muschio; grattò la superficie per capire cosa ci fosse scritto. «J. Malkovich… Sarà il proprietario. Proviamo a bussare», disse. Provammo, ma non ci rispose nessuno. Ci chiedemmo se chiudere la porticina e fingere di non averla vista, oppure di interrarla, o di mandare in esplorazione un furetto con una ricetrasmittente e una torcia. Guardammo il cunicolo: era molto seducente; quasi ci invitava a entrare, esprimendosi con una voce dolce. Fulippu, da sempre il più coraggioso, l’Ettore di ogni occasione, colui che non ha paura di presentarsi a un colloquio di lavoro senza aver cosparso le ascelle di deodorante, disse: «Vi ho sempre rispettato, miei compagni. Oggi è arrivato il momento di dimostrarvelo. Entrerò nel cunicolo: è questo il mio destino. Dite alla mia fidanzata che la amo. Ditelo anche alla polacca, alla cassiera del supermercato, alla maestra delle scuole elementari, alla farmacista, alla moglie del bancario e a tutte quelle donne a cui ho regalato piaceri che disconoscevano, delle quali non ricordo i nomi. Orvuar!». E si tuffò nel cunicolo sgusciando come una saponetta, verso l’ignoto[2].

17. Con Dante pensammo a lungo riguardo la posizione da prendere: seguire Fulippu all’interno del cunicolo oscuro, o restare a casa, a Palermo? A parte il mio impiego (vendere intimo femminile al centro commerciale -lavoro che reputo gratificante, ma poco redditizio-), a parte i cannoli, la cassata, lo sfincione, le panelle, lo Zibibbo, l’architettura della città, le sue viuzze, Piazza Marina, Ballarò, la Vucciria e altro a cui il Sommo e io siamo legati… sì, a parte queste cose restava poco. In fondo, che sarà mai calarsi per un cunicolo di cui si ignora la parte più importante: la fine. Riflettemmo un po’ sulla questione seguente: dove saremmo potuti finire entrando nel buco. Forse in un mondo a due dimensioni, o forse a cinque; forse in un mondo senza donne (in questo caso, il Sommo mi assicurò che avrebbe voluto suicidarsi immediatamente); forse in un mondo senza poesia e arte; forse in un mondo perfetto; forse in un mondo in continuo stato di guerra (cioè, come il nostro); forse in un mondo senza colori; forse in un mondo senza matematica; forse in un mondo che la fantasia non può immaginare. Come? Che la fantasia non può immaginare? «Andiamo», disse il Sommo a bassa voce, «Vuoi ancora perdere il tuo tempo in questo mondo? In questo mondo che divora la tua giovinezza? Tra qualche hanno, sarai soltanto un vecchiaccio che, nel corso della sua vita, si è dedicato alla compilazione di bandi di concorso e alla traduzione di documenti burocratici. In fila alle poste, al sindacato, dal salumiere, ai bagni pubblici, penserai con desolazione ai sogni perduti, alla ragazza di cui ti eri innamorato, alla sciatica, ai problemi di memoria e al pannolone. Come me, sposerai una donna che non ami e che, oltre tutto, non ti sarà nemmeno fedele. Abiterai in un appartamento della periferia, che cade a pezzi perché pieno di muffa. E proverai invidia per i brufoli adolescenziali, per il sorriso fresco di chi sa che il suo domani sarà privo di pensieri. Ti abbandonerai alle stupidaggini della tv. Accarezzerai le tue occhiaie. Tutto perderà sapore. E, inoltre, non funzionerà più il…». «Andiamo!», urlai rabbiosamente al Sommo, impaurito dalle sue predizioni. Indossai una camicia pulita e la cravatta più bella (ma non ricordo perché), afferrai la mano di Dante e mi lanciai nel cunicolo. Scivolammo al suo interno senza fermarci, come se i lati fossero cosparsi di burro fuso. Una luce abbagliante ci costrinse a chiudere gli occhi.

18. Cosa trovammo? Un forte dolore al fondoschiena e nessun mondo che la fantasia non sia in grado di immaginare. Soltanto una sala che puzzava di ospedale e, in fondo, un’altra porta. Tuttavia, fu piuttosto bello scivolare in quel cunicolo; sì, fu un po’ come… come tirare la lampo dopo aver fatto pipì: una bellezza appagante (ma che analogia è?). Aprimmo la porta. C’era un’altra sala, che somigliava a un casinò, e due tavoli pieni di gente, due tavoli distanti circa un paio di metri l’uno dall’altro, e tante, tantissime ragazze in bikini su pattini a rotelle con i vassoi in mano. Dante esultò. In uno dei tavoli mi sembrò di riconoscere qualcuno. Mi avvicinai e… e vidi Francesco De Sanctis! Era proprio lui. Poi, Baumgarten, lo Pseudo Longino, Vasari, Pareyson, Winckelmann, Trotsky e tantissimi altri (non me ne vogliano se non lo ho citati tutti). Stupendo! Era il tavolo degli uomini che hanno scritto di critica, storia dell’arte, storia della letteratura ed estetica! De Sanctis, che stava sorseggiando un Mojito, intravide Dante e lo chiamò a sé. Era felicissimo di incontrarlo. Assurdo: nella vita reale, cioè quella di tutti i giorni, a Palermo, nessuno ha mai riconosciuto Dante; eppure, il Sommo e io siamo sempre in giro. Ma mai, mai è capitato che, per strada, al supermercato, a teatro, la gente ci fermasse per salutare il Poeta. Dovevamo sbucare da un orifizio viscido per trovare un uomo che conoscesse Dante? Sembra di sì. «Che prendete? Offro io», disse Francesco. Alzò la mano e dopo pochi istanti venne una dolcissima ragazza. Ordinai il mio preferito: un Bloody Mary. Dante volle un Syrah. Inizialmente ero parecchio imbarazzato, perché mi trovavo insieme ai più grandi geni della cultura mondiale: cosa avrei potuto raccontare loro? Il mio lavoro? Come si indossa un babydoll? Quanti tipi di calze esistono? A chi avrebbe potuto interessare? Ma al terzo bicchiere facevo concorrenza al Sommo: recitavo Shakespeare, fischiettavo Berlioz e mi improvvisai anche cowboy a cavallo di una sedia. E ricevevo anche tantissimi applausi! Aveva ragione Fulippu Ogghiu Friutu quando, alla Cala, prossimo a uno svenimento mi disse: “Tu avresti dovuto fare il pagliaccio”. Sì, aveva proprio ragione. Al tavolo accanto scoppiò una rissa. Calci, pugni, ancora calci, ancora pugni. Chiesi al mio amico Trotsky chi fossero costoro. Lui rispose: «Vedi quello lì, quello con la coppola? È Don Tano. Sai che fa Don Tano? Te lo spiego. Se vuoi che, per esempio, il tuo quadro o la tua scultura venga reputata un’opera importante, Don Tano scrive per te, dietro pagamento, una bellissima critica piena di stronzate. Installa il tuo lavoro in un punto visibile della sala o del museo, ben illuminata da faretti, e ti pubblicizza ovunque, proiettando banner sui palazzi storici della città, o attaccando adesivi fluorescenti ai cessi delle stazioni di servizio. Adesso hai capito chi è Don Tano?». Si era fatto tardi. Con Dante decidemmo di ritornare. Salutammo il tavolo della cultura e ci rinfilammo nell’orifizio viscido.

Dario Orphée



[1] È da un po’ che studio questo lato affascinate di Fulippu Ogghiu Friutu, ma non sono giunto ancora ad una formula capace di spiegare perché mai tutte le donne “cadano ai suoi piedi”.
[2] Ci sono parecchi richiami al film “Essere John Malkovich”, di Spike Jonze. Praticamente l’ho copiato. Ho, tuttavia, applicato alcune variazioni.