CriticARTe - Il sentimento delicato di Umberta Ruffini



Cavallo arabo con ibiscus
Non ci sono affatto dubbi riguardo l’interesse della Ruffini: la natura in quanto tale. Eppure, la natura, quella che tutti noi viviamo e osserviamo, passando attraverso l’anima sognante della pittrice bresciana assume una nuova veste; essa, infatti, si carica di delicatezza. La delicatezza a cui mi riferisco ha il sapore di una fresca mattinata primaverile, ha il sapore di un sentimento: l’amore per la semplicità. Basta scontrarsi con “Cavallo arabo con ibiscus”, nel quale il soggetto principale, adornato da una criniera di seta e da un elegantissimo manto bianco, pare tramontare, flessuosamente, dietro tre infuocati fiori; oppure con “Intimità”, dove due “parentesi” equine, l’una marrone e l’altra nera, mettono al sicuro un mazzo di passiflore freschissime, e insieme la percezione del fruitore: «Molti dicono che la mia pittura sia delicata, che esprima sensibilità. Devo ammettere che questo giudizio, le prime volte, mi suonava strano. Ho sempre creduto di usare colori e tinte molto forti. L’uso del colore, da parte mia, è puro, quasi non mescolato. Evidentemente traspare tutta l’emozione che butto fuori nell’atto di dipingere. Sono soddisfatta che ciò venga percepito». Rimane atipico il fatto che in un momento in cui molti pittori evitano qualsiasi contatto con la natura, per produrre un’arte sempre più asettica e astratta, Umberta Ruffini si rivolga al passato, all’imitazione idealizzata della natura, alla riflessione: «È facile stupire con un’immagine e un’idea choc. I meccanismi sono abbastanza banali. È difficile il contrario. Sono una pittrice atipica, è vero. Mi piace più ascoltare che parlare. Ritengo che sia compito dell’artista ascoltare tutto ciò che lo circonda. L’ascolto inteso come concezione molto ampia che comprende tutti i sensi. Da lì vengono le riflessioni, solo con l’ascolto. Solo con l’ascolto si capirà che vale la pena riflettere su qualsiasi cosa!».
Intimità
E difatti, il procedimento poietico della Ruffini è uno sguardo rivolto verso l’interiorità, verso il “familiare”, entrambi ricomposti: «Dipingo a ricordo o scattando una foto, che poi inevitabilmente trascuro, per lasciare via libera a ciò che ho dentro. Dipingo semplicemente ciò che conosco. Mi viene automatico (che brutta parola!). Quando vedo un soggetto che mi ispira, non penso tanto se potrà piacere, o quale potrebbe essere il suo significato intrinseco. Non penso ad una spiegazione da dare, ecco. I cavalli e i fiori hanno sempre fatto parte della mia vita. Essendo essi parte di me, li trasferisco sulla tela. Mi risulterebbe difficile fare dell’altro».
Nel deserto
Una “porzione” della Ruffini (è poco elegante dirlo) compare, come in una sintesi, nel dipinto intitolato “Nel deserto”. Per facilitare l’analisi, ho scomposto in tre parti i lati caratteriali della pittrice, venuti fuori dalle sue parole, cioè: lavorare con la materia che si conosce, predilezione all’ascolto e alla riflessione, e determinatezza. Procedo con il primo lato: lavorare con la materia che si conosce. Nel dipinto, l’occhio timido del cavallo, strumento principale attraverso il quale ci è permesso conoscere e orientarci, è rivolto verso la sabbia, unico elemento intelligibile, fatto di piccoli granelli, come il conoscibile umano. Secondo lato: predilezione all’ascolto e alla riflessione. L’orecchio, strumento che utilizziamo per ascoltare, è raffigurato rivolto verso un cielo violaceo, colore dell’attesa e della riflessione, e sede delle parole pronunciate; la bocca, invece, appare nascosta. Terzo lato: determinatezza. La posizione in tensione del cavallo, espressa dai muscoli contratti del garrese, fanno pensare a un pugno chiuso, cioè dalla spirale creata dalle dita in un pugno che si chiude. Concludendo: il sentimento delicato della Ruffini sembra proprio che sia presente tra i dipinti, e al contempo nascosto, in un’armonia piuttosto gradevole… gradevole da scovare.

Dario Orphée