La lucida disperazione di Cioran


Al culmine della disperazione
di Emil M. Cioran
Adelphi, Milano 1998

Traduzione a cura di C. Fantechi, F. Del Fabbro

1^ edizione originale: 1934

€ 15.00
pp. 146

Una delle doti stilistiche che più definisce E.M. Cioran (1911- 1995) è la lucidità: in ogni sua riga c'è una limpidezza e una profondità che più di una volta disorienta il lettore.
Al culmine della disperazione, uno dei suoi primi libri, non si allontana da questa caratteristica peculiare, essendo di fatto un libro lucidissimo, scritto "pericolosamente"- come dirà Cioran stesso nella prefazione- tra la vita e la morte:
"Questo libro è stato per me una specie di liberazione, di esplosione salutare. Se non lo avessi scritto, certamente avrei messo fine alle mie notti".
A scrivere questo capolavoro di lucidità è un giovane rumeno di 22 anni, che soffre di insonnia e passa la notte a passeggiare e a interrogarsi sulla vita e sul mondo.
Figlio di un prete ortodosso e di una madre "curiosamente non credente", questo "apolide metafisico" visse inizialmente tra la Transilvania, Bucarest, Berlino per poi trasferirsi definitivamente a Parigi in un modesto appartamento in rue de l'Odéon, 21, dove in realtà non fece altro che sviluppare molti dei concetti già espressi nel Pel culmine disperaii.
Perché non possiamo restare chiusi in noi stessi? Ovvero perché abbiamo la necessità di esprimerci? - chiede quasi con stupore a se stesso.
Perché abbiamo l'esigenza di essere lirici?
Perché- si risponde- essere lirici significa svuotarsi ed evitare l'esplosione che deriva dall'eccesso della pienezza.
La liricità è dunque per Cioran un metodo di sopravvivenza: l'espressione autentica dell'uomo avviene soltanto nell'agonia o nella sofferenza oppure al limite della solitudine nell'agonia, "simbolo stesso dell'esistenza umana".

Ogni scritto di Cioran è un richiamo vivido a qualcosa di concretamente vissuto, mai esercizio teorico o puramente intellettuale. Proprio per questo qualificarlo come filosofo è limitante, probabilmente lo si può definire più correttamente saggista, scrittore o maestro di vita, anche un po' profetico. Cosa quest'ultima che detestava: ogni giorno- scriverà- si sveglia un nuovo profeta e ci sarà un po' più di male nel mondo.

Cioran nella sua vita non lavorò quasi mai, dimostrando perfetta coerenza con le sue estreme idee.
Verso la fine de Al Culmine della disperazione difende questa presa di posizione con un discorso che merita di diventare un manifesto per tutti lavoratori (e forse anche per chi non lo è):
"Gli uomini in genere, lavorano troppo per poter restare ancora se stessi. Il lavoro è una maledizione che l'uomo ha trasformato in piacere [...] invece di aspirare a divenire un'esistenza gloriosa e a vivere per se stesso - non nel senso dell'egoismo ma della crescita interiore-, è divenuto lo schiavo colpevole e impotente della realtà esterna".
Il pensiero di Cioran è asistematico, anti-hegeliano, consapevole che solo il caos esprime la vita e non può essere ingabbiato in un insieme organico.
Fabio Rodda nel suo libro Cioran l'antiprofeta scrive che Cioran è "creatore di un pensiero discontinuo, non sistematico, sempre in bilico tra il nichilismo e la mistica" pur con il punto fermo del dubbio:
"dubitare di tutto eppure vivere, ecco un paradosso".
Al di là degli attributi che facilmente tentiamo ad appiccicare come etichette indelebili, Cioran è un distruttore di qualsiasi senso residuo della vita, un nichilista probabilmente suo malgrado, un pessimista aggrappato alla disillusione, un essere costantemente in bilico nell'abisso.
Eppure basta leggere sul web o vedere su youtube (ci sono anche video sottotitolati in italiano) alcune sue interviste per capire che qualcosa "stona", che questo difensore del suicidio come soluzione per il male di vivere, sia in realtà un profondo ottimista della vita, che affronta tutto con un'ironia e una volontà caparbia e assolutamente impensabile se ci si limita a una superficiale analisi del suo pensiero.
"Quando tutti gli ideali correnti - di ordine morale, estetico, religioso, sociale, ecc. - non sanno più imprimere una direzione nè trovarvi una finalità, come salvarla ancora dal nulla? Vi si può riuscire solo aggrappandosi all'assurdo, all'inutilità assoluta, a qualcosa, cioè, che non ha alcuna consistenza, ma la cui finzione può creare un'illusione di vita".
Dunque è soltanto quella che lui stesso definiva come "passione dell'assurdo" che gli permetterà di sopravvivere, pur consapevole che:
"la vita non resiste alle alte temperature [...] gli uomini più tormentati, il cui dinamismo interiore raggiunge il parossismo, incapaci di rassegnarsi alla tiepidezza abituale, sono votati al crollo [...] voglio morire, ma mi dispiace di volerlo.
Ecco il sentimento di tutti coloro che si abbandonano al nulla".
Una disperazione intensa e irrimediabile che non può che "oggettivarsi che nelle espressioni grottesche. Il grottesco è infatti la negazione assoluta della serenità".
Un grottesco che confina con la follia e che potrebbe essere una via di fuga da una tensione costante, se non fosse per il presentimento dei "momenti di ritorno in sé" che fanno desiderare una perdita della ragione "tale da essere un pazzo allegro, brioso ed eternamente di buon umore".
Altra soluzione che intravede è la morte ("tutto in fondo si riduce alla paura della morte") che l'uomo comune vive soltanto come agonia della fine, ovvero senza vero turbamento, e non come agonia durevole, una "folle dinamica in cui si riconosce soltanto il demonismo del divenire e della distruzione".
La morte e la consapevolezza per Cioran sono limiti all'azione dell'uomo nel mondo, paralizzanti pur se ineluttabili:
"la vita può realizzare le sue potenzialità solo a patto di ignorare la presenza inesorabile della morte, che normalmente è considerata del tutto estranea alla vita, come se giungesse dall'esterno."
Argomento questo su cui Cioran ritornerà spesso nelle sue successive opere, sviscerando con crudeltà cinica l'inutilità delle azioni umane - anzi della storia umana - considerando all'opposto desiderabile un vuoto vitale, una sorta di nirvana o di stato mistico, preferibile al movimento incessante di creazione e distruzione.
Centrale diventerà nei suoi successivi scritti il concetto di "peccato originale", che inchioda l'uomo a una sorta di colpa primitiva, di cui non potrà o non riuscirà mai a dirimersi e che lo costringerà tutta la vita a combattere disperatamente e inutilmente.

Conosceva molto bene i filosofi tedeschi: Kant, Schopenhauer, Nietzsche.
Conosceva Bergson (su cui aveva fatto la tesi di laurea), Simmel, Ionesco e Eliade, ma non amava frequentare i salotti letterari; anzi, in diverse parti dei Cahiers 1957-1972 -quaderni recuperati grazie alla compagna, Simone Boué-, emerge la convinzione che fosse più utile e formativo la frequentazione della gente comune piuttosto che dell'intellighenzia parigina.
Ammirava Nietzsche, ne condivideva le premesse, eppure considerava il concetto di superuomo "impossibile quanto ingenuo, una fantasia ridicola".
Al di là di uno stile letterario abbastanza simile e il frequente uso di aforismi, Nietzsche e Cioran sono due grandi pensatori che approdano però a delle conclusioni opposte: Nietzsche distruggeva l'uomo per affermare la vita, demoliva per creare, ovunque in lui è spirito dionisiaco.
Cioran non distrugge la vita, ne sperimenta l'inutilità, ne intravede il nulla, il non senso che non determina una scelta ma un abbandono impossibile:
"mi sento un uomo senza senso, e non mi dispiace di non averne[...] In me non c'è la minima velleità di forma, di cristallizzazione o di ideale". 
"Coloro che sanno cosa significa essere uomo cercano di diventare tutto tranne questo. Se fosse possibile mi trasformerei ogni giorno in una forma di vita animale o vegetale".
Nemico dell'idealismo, Cioran rinnega pure se stesso e i suoi eccessi giovanili, quando era stato ammiratore del dittatore Codreanu e della sua Guardia di Ferro nonché di Hitler: un periodo oscuro che rappresenterà- e forse rappresenta ancora- un forte ostacolo al pubblico riconoscimento.
Del resto scriverà su se stesso:
"in me tutto è possibile, perché sono l'uomo che riderà nel momento supremo, davanti al nulla, nell'agonia della fine, nell'istante dell'ultima tristezza".
Un estremismo e un antisemitismo che si stenta veramente ad attribuire a chi ha scritto:
"benché la vita per me sia un supplizio, non posso rinunciarvi, perché non credo nell'assoluto di valori in nome dei quali sacrificarmi".
Chi conosce bene Cioran forse si sorprenderebbe anche delle seguenti parole:
"la sola cosa che possa salvare l'uomo è l'amore. E se molti hanno finito per trasformare in banalità questa asserzione, è perché non hanno mai amato veramente. Aver voglia di piangere quando si pensa agli uomini, di amare tutto in un sentimento di suprema responsabilità, sentirsi invasi dalla melanconia al pensiero delle lacrime che ancora non si sono versate per gli uomini, ecco cosa significa salvarsi attraverso l'amore, la sola fonte di speranza [...] in questo mondo ogni cosa può farmi cadere, tranne l'amore".
Curiosamente questo brano è scomparso, credo per un errore, nella versione francese della Gallimard Oeuvres 1995.
Chissà, forse perché si è preferito far emergere solo lo spirito dubbioso e disperato di questo autore.
Caratteristica che indubbiamente appartiene a Cioran ma che non ne rappresenta l'integrale visione del suo pensiero: da vicino Cioran diventa un crudele e ironico amante della vita, nonostante lo sguardo lucido che riesce a proiettare sulla realtà.
Cioran pessimista radicale dunque, ma io direi anche ottimista suo malgrado, cosciente del fatto che esserlo non è indice di intelligenza ma di istinto di sopravvivenza, un ostinato impulso al superamento di qualsiasi conoscenza o razionalità.
Non si comprenderebbe diversamente quel capitolo accorato "Sulla miseria" in cui arriva a fustigare l'uomo razionale... che invece di elaborare teorie e ideologie "non si toglie ciò che indossa in un gesto di comprensione e di comunione profonda", di fronte alla miseria oggettiva umana che non è altro che "il pallido riflesso di una infinita miseria interiore".
Dirà di se stesso, ferocemente:
"Perché non mi suicido? Perché la morte mi disgusta tanto quanto la vita. Sono un uomo da gettare tra le fiamme. Non capisco assolutamente che cosa io ci stia a fare quaggiù. [...] Sono una belva dal sorriso grottesco [...] attratta da niente e da tutto, esaltata tra la speranza del niente e la disperazione del tutto [...] In me si estingue ogni scintilla per rinascere tuono e lampo".

Giuseppe Savarino