“In cosa mai siamo mortali”? La spiegazione di Cesario Milo


In cosa mai siamo mortali?
di Milo Cesario
Zona Contemporanea, 2011

pp. 162
€12

Cesario Milo è nato a Mesagne nel 1983. Dopo aver abbandonato gli studi all’Università di Perugia, ha perfezionato la sua macchina di intuizioni poetiche, funzionante fin da quando era bambino, inserendola in un sentiero ben delimitato, la cui meta coincide con l’immagine del cielo appena schiarito dopo un acquazzone (Pag. 55). Per intitolare il suo libro, ha scelto una domanda: “In cosa mai siamo mortali?”. Per rispondere alla domanda, ha scritto all’incirca ottanta prose in versi, lunghissimi versi. Leggendo, l’impressione è quella ascoltare un ragazzo innamorato (della Marcella alla quale il libro è dedicato, forse?), che con le spalle al mare del Salento, ritengo per ricavare ispirazione dal moto enigmatico delle onde, inventa nuove metafore, ancor più enigmatiche, con essenziali melodie. I suoi compagni sono Rimbaud, Campana, Blake, Dickinson, Merini; non soltanto autori dai quali egli ha tratto alcune immagini per i suoi versi. Forse, con questi poeti, Milo ha veramente parlato. E loro, in qualche modo, hanno ascoltato. Se ciò che dico non è totalmente folle, vorrei sapere come sono stati questi dialoghi: 
«La follia è un simbolo secondo me. La nicchia di coloro che credono in un mondo a cui tutti aspirano, ma non ne hanno il coraggio per possederlo e allora lo appestano. La follia non lascia passare chi tradirebbe nel suo mondo, quindi la domanda è totalmente folle. Rimbaud lo incontrai nei giorni in cui non esisteva nemmeno un essere umano che mi avrebbe considerato salvabile, fra psicosi che poi si rivelarono la realtà della cattiveria che fischia sul pianeta con “una stagione all’inferno” e magiche trasformazioni dei tramonti in cui attendevo un treno fantasma, un treno senza orario, e una biglietteria dove chiedere con “illuminazioni”. Ricordo che mi misi in cima ad un palazzo in bilico e gli dissi: “che son per noi mio cuore…”. I suoi occhi erano azzurri come lo sarebbe stato il sole se fosse stato azzurro. Rimbaud mi rispose chiaramente: “dentro di te ci sono le albe a cui aspiri, la chiave per abbattere tutto, il verso che riproduce questa tua visione di me”. Blake, vivisezionatore dell’inferno, una notte mi mostrò come con una martellata rompeva un gargoil di pietra e come lo frantumava, fino alla polvere. Mi disse: “quanto mai può essere grande un nemico, non potrà mai eclissare tutte le stelle gioiose”. Con Blake non parlai poiché contrastavamo in molte idee, ma lui comunque apprezzava l’immagine che diedi di lui, ossia: “rivolti il drago ascetico mostrandone gli organi mortali”. Campana lo apprezzo per la sua fame, per la sua foga, per il fiuto circa la poesia. Stimavo la sua persecuzione degli editori, sanguisughe perenni, ignoranti e impotenti nell’arte. Inoltre, per la poesia “Pampa”, ricordo che lo ringraziai, avendo descritto la natura come nessuno prima, come una madre che può per amore dare paradiso e inferno, altro che frutti e miele. Dickinson mi fece impazzire con i suoi versi sulle api. Un giorno gli confidai che le api sono angeli in segreto. L’umiltà dell’angelo lo camuffa perfettamente in un insetto dentro cui c’è tutta la gloria. Alda Merini, invece, è stata compagna fedele nei miei reparti psichiatrici e dannazioni intellettuali. Un giorno, vedendola in tv, vedendo la sua grassa indolenza davanti a questi ladri di miti e leggende all’umanità, mi venne talmente tanta rabbia che credo mi abbia sentito telepaticamente bollire poiché guardò la telecamera con una espressione che solo io potevo capire. Ecco, detto ciò dico ai lettori: considerate tutto questo un pezzo di un romanzo che tanto amate… i romanzi, i gialli, le cafonerie di storie da vincenti del grattaevinci. Niente è vero per chi aspetta il telegiornale della sera per sapere la verità, ma per chi vorrà crederci sappia che nessuno lo sta ingannando. Tanto a tutti piacciono le bugie comunque».
Le bugie non piacciono a nessuno. Ma è una necessità, per tutti, sapere, aggrapparsi a qualcosa, per sapere. Milo, invece, odia tutti gli inganni, preferendo la realtà nuda (anche se mi piacerebbe capire quale essa sia, se il punto di vista è sempre il particolare: l’occhio di Cesario Milo). Questo aspetto rivelatore, è rimarcato nei suoi componimenti. Evita al lettore autonomia, indicando cosa pensare, o forse indicando la strada “giusta”, quella ripulita dalle bugie. Ogni poesia, difatti, contiene una spiegazione e un verso:
“Scritta, perché…”.
Dunque, l’intero libro diviene la risposta a quella domanda che fa da titolo. Se si dovesse però scrivere una spiegazione specifica al libro, simile alle spiegazioni poste sopra le poesie, quale verso troverebbe il lettore? 
«Ovviamente il titolo non è lì a vanvera. Cerco di affrontare quel gradino che l’umanità non riesce mai a fare, “come un eterno neonato che cade in continuazione di fronte alla verità”. Non solo, essere o non essere, ma chiederci se siamo più simili al cielo o agli oggetti, alla magia o ad una scala, al sogno o ad un palazzo. Il verso che sceglierei è: “è il ritmo arcano della vita e non dei proverbi umani”. Scritto, perché si riaffaccino i folli alle finestre che i bambini guardano prima di addormentarsi, perché la vita non è i proverbi che girano in mondo visione. Smettiamo di ingannare i fanciulli».
L’umanità non riesce a superare il gradino della verità. Forse il gradino è alto, forse dovremmo scendere dal gradino, invece di affrontarlo. Mi aiuti a capire, riguardo l’inganno dei fanciulli: cosa diciamo loro? Che il mondo in cui si trovano è un inferno? In questa domanda, in questo dubbio, è racchiuso l’intero senso del libro, ovvero: rispondere alla domanda “In cosa mai siamo mortali?”, o semplicemente rispondere alla “domanda”. «Lautreamont diceva che “I bambini non sanno niente della vita, nemmeno la grandezza”. Anche se non condivido a pieno ciò, posso dire che ogni bambino che nasce, nasce comunque Santo, puro, sorride all’assassino, anche sapendo che è un assassino. Perdona il buio che lo terrorizza, accetta le scuse del coetaneo: questo è moltissimo, visti gli adulti. “I bambini trovano tutto in niente, gli adulti trovano niente in tutto” diceva Jim Morrison. Il mondo è fuggito da mille mondi e ha deciso di atterrare solamente su quello terribile e orrendo, scordando i mille altri mondi di gioia. Disincantare un bambino è imperdonabile. In un verso di “In cosa mai siamo mortali?”, scrivo: “[…] Lasciate che i bambini non difendano i vostri peccati».

Dario Orphée