CriticaLibera

Francesco Totti e Giuseppe Giacchino Belli
di Paolo Mantioni

Domenica 14 aprile 2008, ore 15,00. In quel di Udine, opposta all’Udinese, fiera e orgogliosa compagine locale, la Roma affronta fiduciosa una gara decisiva per le fortune del sodalizio sportivo. Ma l’avversario si rivela più ostico del previsto: il gioco dei giallorossi stenta a decollare, i bianconeri friulani ribattono sfrontati colpo su colpo, i campioni romani cincischiano, quelli udinesi si esaltano nella difesa e nel contrattacco. Il gol non arriva, anzi, arriva, ma a favore degli avversari. Sotto le insegne della Lupa, tra gli atleti si diffondono sconcerto e ansia. Finalmente, però, a seguito di un’azione concitata e casuale, il numero 10, il Capitano, il marcatore più amato e acclamato, Francesco Totti, ha la palla buona: libero dalle arcigne marcature avversarie, al centro dell’aria di rigore, capita un pallone che chiedeva solo di essere spedito in fondo al sacco. Impallato malauguratamente dall’arbitro dell’incontro, il Signor Rizzoli di Bologna, l’infallibile atleta cicca la battuta e la palla si perde ballonzolante al lato della graziata porta. Francesco Totti vede nell’arbitro la causa del suo errore, lo sconcerto e l’ansia lo spogliano dei doveri regolamentari e, impudente, si pianta davanti all’uomo causa dei suoi mali: “vaff…,” apostrofa. Quello, comprensivo, lascia correre, finge di non aver sentito. Ma, niente, il romano insiste, ripete l’improperio non una, bensì due volte, quasi a pretendere di essere “ingiustamente” punito a termini di regolamento, sfida il potere dell’arbitro scagliandosi frontalmente, senza speranza alcuna, contro la micidiale irrevocabilità del fato: il gol mancato. Il Signor Rizzoli di Bologna commina una blanda punizione, interlocutoria, non definitiva, comica, non tragica: una semplice ammonizione. Il condottiero rientra nei panni del calciatore professionista e la partita può riprendere. La vincerà la Roma, senza per questo vincere il Campionato.

Talvolta può essere utile ed istruttivo guardare alla cronaca con occhi attenti, strizzati, farla tremolare alla luce della Storia, leggerne la filigrana, come si fa con una banconota di dubbia autenticità.

Per mio piacere e per quello del Lettore, trascrivo integralmente un sonetto di Giuseppe Gioacchino Belli.
Er funtanone de Piazza Navona

Quann’era vivo er nonno de la zia
der compare der zoscero de Nina
cqua da Piazza Navona a Tormellina
ciassuccesse un tumurto e un parapîa.

Pe ccausa che un’orrenda carestia
de punt’in bianco un giuveddì a mmatina
mannò a cquattro bboecchi la vaccina,
senza nemmanco dì Ggesù e mmaria.

T’abbasti a ddì cch’edè la ribijjione,
che ccor una serciata a cquer pupazzo
je fesceno sartà nnetto er detone.

Chi ddà la corpa a un boccio, chi a un regazzo:
ma er fatt’è cche cquell’omo ar funtanone
pare che ddichi: A vvoi; quattro der cazzo!
(Giuseppe Gioacchino Belli, Tutti i sonetti romaneschi, a cura di Marcello Teodonio, Newton & Compton, Roma 2005, pag. 58).

La ribellione popolare per l’aumento dei prezzi, avvenuta tanto e tanto tempo fa e che coinvolse tante e tante persone, s’abbatte contro una delle statue della fontana di Piazza Navona, la quale, ovviamente, non solo non fa una piega, ma in virtù della mutilazione subita, ribadisce concretamente ed eternamente la condanna della plebe: “pagherete per sempre quattro baiocchi la vaccina”.


Il grande poeta romano, a tutt’oggi insuperato interprete di alcuni aspetti della mentalità popolare, spesso contraddittoria e inafferrabile dall’esterno, ne coglie in questo sonetto un fattore specifico. L’espressione popolare può prevedere in Belli la più mite rassegnazione, o lo sberleffo blasfemo come puro istinto vitalistico, o, ancora, il comportamento astuto per mettersi al riparo dalla cattiva sorte e dal potere; nel caso del sonetto trascritto si tratta di una ribellione cieca e disperata, che conferma in un atemporale presente la decretata immobilità della propria condizione. A differenza di altre plebi, quella romana aveva di fronte a sé un potere che era insieme umano e divino. Il Papa, i cardinali, i vescovi, i preti, i parroci erano al contempo uomini in carne e ossa che esercitavano un potere corrotto e prevaricatore e rappresentanti della divinità. Il Papa era un uomo, ma anche Dio in terra. Sicché se la plebaglia parigina aveva potuto tagliare la testa al suo Re, quella romana avrebbe dovuto tagliarla al suo Dio, ossia avrebbe dovuto scagliarsi frontalmente, senza speranza alcuna, contro la micidiale irrevocabilità dell’istituzione divina. Questa situazione storica, protrattasi per più di un millennio, si è stratificata nel popolo romano fino a diventare un dato antropologico, etnico, quasi, quasi come la criniera bionda dei popoli del Nord-Europa.

Chissà se quel gesto di Francesco Totti, romano e romanista, non sia un residuo inorganico di quella stratificazione, slacciata dal suo contesto storico, ma operante in un ambito più profondo, più lento ad evolversi, più specifico, che si è fatalmente avvinghiato ad una condizione universale: lo sgomento tragico di fronte all’irrevocabile finitudine umana.
Paolo Mantioni