Pillole d'autore - Marcel Proust

La corrispondenza di Proust (21 volumi e qualche lettera sparsa) è uno strumento utile per illuminare la sua opera romanzesca. Ma, al di là del valore strumentale, contiene brani di assoluto valore stilistico e tematico. Questa lettera, tratta dal volume antologico Le lettere e i giorni, a cura di Giancarlo Buzzi, “I Meridiani” Mondadori, 1996, alla sua amica di sempre Geneviève Straus ne è un esempio.

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[6 novembre 1908]
Signora,
vi ringrazio infinitamente della vostra lettera così incantevole, divertente, gentile. Quasi contemporaneamente ho letto l’articolo di Ganderax. Mi piacerebbe avervi conosciuta in quel mondo, potervi chiamare “la mia amica di Bas-Prunay”, avere avuto io l’incarico di quella prefazione, sapere tutte quella cose ed essere stato capace di scriverle. In tal caso, credo, le avrei scritte… un po’ diversamente. Non lo dico in polemica con Ganderax, uomo di eccelse qualità, di statura veramente rara oggigiorno e destinata a crescere, e che per parte mia preferisco alla gente di adesso. Ma perché lui che scrive così bene, scrive in questa maniera? Perché parlando del 1871 aggiungere “”anno fra tutti abominevole”? Perché chiamare Parigi “la grande città” e Delaunay “il maestro della pittura”? Perché l’emozione dev’essere a tutti i costi “contenuta”, la bonomia “sorridente”, i dispiaceri “crudeli”, e via di questo passo, tante altre espressioni che non ricordo. Non ci si farebbe caso se Ganderax, quando rivede le bucce agli altri, non fosse convinto di rendersi utile alla lingua francese. Lo dice nell’articolo: “le noterelle a margine che scrivo per dare lustro alla lingua francese e per difenderla”. Niente lustro e niente difesa. I soli difensori della lingua francese (come dell’Esercito ai tempi del caso Dreyfus) sono quelli che l'attaccano.
Questa idea che si ha della lingua francese come di qualcosa che esiste indipendentemente dagli scrittori e da proteggere, è incredibile. Ogni scrittore deve crearsi la propria lingua, come ogni violinista il proprio suono. Tra i suoni di un violinista mediocre e, per la stessa nota, di Thibaut c’è una differenza infinitesimale che è tutto un mondo! Non dico di amare gli scrittori originali che scrivono male. Preferisco – è forse una debolezza – quelli che scrivono bene. Ma costoro non cominciano a scrivere bene se non quando acquistano originalità, quando si creano la propria lingua. La correttezza, la perfezione dello stile esistono, ma non al di qua, bensì al di là dell’originalità, dopo essere passate attraverso errori. La correttezza al di qua – “emozione contenuta”, “bonomia sorridente”, “anno fra tutti abominevole” – non esiste. Sicuro, Signora Straus, il solo modo di difendere la lingua è attaccarla. Perché la sua unità è affidata unicamente alla neutralizzazione dei contrasti, è immobilità apparente che cela una vita vertiginosa e perpetua. Perché “si regge”, si esce bene dal confronto con gli scrittori del passato solo se ci si è sforzati di scrivere in maniera tutta diversa. Quando si vuole difendere la lingua francese, in realtà si scrive tutto il contrario del francese classico. Esempi: i rivoluzionari Rousseau, Hugo, Flaubert, Maeterlinck “reggono” a fronte di Bossuet. I neoclassici del XVIII e dell’inizio del XIX secolo, come la “bonomia sorridente” e “l’emozione contenuta” d’ogni epoca, fanno a pugni con i maestri. Ahimè i più bei versi di Racine :
"Je t'amais inconstant, qu'eussé-je fait fidéle!
Pourquoi l'assassiner? Qu'a-t-il fait? A quel titre?
Qui te l'a dit?",
non avrebbero trovato posto, neanche adesso, sulla “Revue de Paris”. Nota a margine di Ganderax “per dare lustro alla lingua francese e per difenderla”: “Capisco il vostro pensiero. Volete dire: Ti amavo incostante, cosa sarebbe stato se fossi stato fedele. Ma è detto male. Può allo stesso modo significare che, fedele, sareste stato voi. Preposto alla difesa e al lustro della lingua francese, non posso lasciar passare la cosa”.
Non sto facendomi beffe del vostro amico, signora, vi assicuro. So quanto è intelligente e preparato. È un problema di “dottrina”. Quest’uomo così pieno di scetticismo ha certezze grammaticali.
Ahimè, signora Straus, non ci sono certezze, nemmeno grammaticali. E non è una fortuna? Così infatti anche una forma grammaticale può essere bella, giacché bello può essere ciò che reca il marchio della nostra scelta, del nostro gusto, della nostra incertezza, del nostro desiderio, della nostra debolezza. (…)
Che malinconica e folle idea, signora, scrivervi di grammatica e di letteratura. E sto così male! Per amor di Dio, non una parola di questo a madame Ganderax. Per amor di Dio…in cui purtroppo non crediamo né io né voi.
Rispettosamente vostro
Marcel Proust

Libri sotto l'ombrellone - I consigli di CriticaLetteraria (2)

Cari amici,
con il finire del mese ecco che torna la nostra rubrica estiva dei "Libri sotto l'ombrellone". Avete perso la prima puntata? Non c'è problema: cliccate qui.
Ci farebbe molto piacere sapere cosa porterete in vacanza, o se avete letto qualcuno dei titoli da noi consigliati: lasciateci un commento! 


Buon torrido agosto e buona lettura!
La Redazione di CriticaLetteraria
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La natura di Capocaccia, maggio 2011
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Debora consiglia...
Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen
(Clicca qui per l'invito alla lettura)
Perchè: per perdersi nella splendida campagna inglese dell'epoca Regency, ridere, sospirare e struggersi. Perchè cambiano i costumi, le mode, le idee: ma il sentimento d'amore ha la stessa inarrestabile intensità.
A chi consigliarlo: ad un'anima romantica intrappolata in un tempo che non è il suo, ma anche a chi si finge cinico per non cedere ai battiti del cuore.

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Elisa consiglia...

Che la festa cominci di Niccolò Ammaniti

(Clicca qui per leggere la recensione )

Perché: Scrittura coinvolgente, trama originale, colpi di scena, suspense e scene splatter per stomaci di ferro sono il giusto cocktail estivo per divertire il lettore, trasportandolo in mezzo a sette sataniche in cerca di celebrità, egocentrici scrittori fittizziamente anarchici terrorizzati dalla critica e ossessionati dall'apparenza, bizzarre feste pullulanti di VIP dai nomi di fantasia...ma così troppo simili a quei volti noti sempre presenti tra le pagine delle "riviste da ombrellone" 


A chi consigliarlo: A tutti coloro che amano spennellare di ironia i risvolti più amari e grotteschi di questa società vanesia e materialista ma che non dimenticano, tra risate e humor, di riflettere su vuoti, solitudine e mostri interiori che essa crea in ognuno di noi. 
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Francesca consiglia..
1984 di George Orwell
Perché: l'estate è un ottimo momento per raccogliere le idee su passato-presente-futuro, e lo spaccato sociale, politico ed economico descritto da G. Orwell può brillantemente fungere da monito e/o, chissà, da viatico interpretativo e programmatico, per riprendere più consapevolmente in tran-tran quotidiano dopo la fine delle vacanze.
A chi consigliarlo: è stanco di vivere immerso nella "Società dello spettacolo" odierna, ancora più tossica e fagocitante di quella sagacemente preconizzata nel romanzo.
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Gloria consiglia...
La vita accanto di Maria Pia Veladiano
Perché: è una storia un po' alla Alcott, un po' alla Austen, delicata e coraggiosa rivincita di una ragazza bruttissima, per questo emarginata, ma con un grande talento per la musica e una sensibilità spiccata. Attorno a lei, una famiglia problematica, e quattro mura dai colori soffusi, tra toni e sottotoni di azzurro.
A chi consigliarlo: A chi cerca un libro delicato, che non muove alle lacrime ma senza dubbio colpisce. La lettura è scorrevolissima, e c'è una punta di

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Laura consiglia...
Diceria dell'untore di Gesualdo Bufalino
(Clicca qui per leggere la recensione)
Perché: perché nelle notti d'estate i sogni sono più ingannevoli, ed è facile immaginare di fare una partita a scacchi con la morte e immaginare una fuga d'amore con una ballerina; il romanzo di Bufalino è un classico imperdibile: i crepuscoli agostani lo rendono irrinunciabile, e irrimediabilmente affascinante. Lo dico per esperienza.
A chi consigliarlo: a chi piace intrattenere coi libri che legge un gioco di intelligenza e seduzione; a chi subisce la tentazione della parola e ama circondarsi di miraggi.
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Lorena consiglia...
Il giovane Holden di J.D. Salinger
Perché: per quanti anni possano passare dalla sua pubblicazione è un libro sempre giovane e giovane è il flusso dei pensieri del protagonista del romanzo. Perché a suo modo è molto divertente.
A chi consigliarlo: a chi non l'ha mai letto, un classico ha sempre qualcosa di buono da raccontare.
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Michele consiglia...  
Volevo essere un grande chef di Loredana Limone

(Clicca qui per leggere la recensione)
Perché: Loredana Limone ha uno stile tutto suo; racconta storie di tutti e per tutti in modo semplice e originale: ti trovi a seguire una dieta e, subito dopo, ti accorgi di un tradimento. E che dire degli incontri strani e divertenti che condiscono a modo loro queste squisitissime ricette? Volevo essere un grande chef è un "pacchetto" confezionato con cura, armonia e gusto: sicuramente, un buon acquisto. Per l'estate e non solo.
A chi consigliarlo: ottimo esordio per chef, mangioni e golosoni che non hanno mai aperto un libro; perfetto per tutti coloro che non hanno mai messo mano ai fornelli!

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Serena consiglia...
Venuto al mondo di Margaret Mazzantini
Perché: Perchè fa riflettere sul tema della maternità in modo assolutamente non banale. La storia di una famiglia di oggi e di un passato che ritorna (e quando mai il passato sta al posto suo?), sullo sfondo di una guerra troppo recente per non ferire più. Libro che si legge tutto d’un fiato, merito della scrittura forte e incisiva della Mazzantini, Venuto al mondo lascerà in ogni lettore delle immagini e delle emozioni che difficilmente si faranno dimenticare.
A chi consigliarlo: A tutti quei lettori “forti” come la protagonista di questo libro, pronti a fare un viaggio nella Sarajevo degli anni’90 e a misurarsi con le paradossalità dei destini imperfetti di ognuno di noi.

Sándor Márai - Il gabbiano


Il gabbiano
di Sándor Márai
Biblioteca Adelphi, Milano 2011

Traduzione di Laura Sgarioto

1^ edizione: 1943
pp. 163
€ 16

Sì, è evidente che i gabbiani vivono con grande energia, e non sono in molti a chiedersi se la vita di un gabbiano abbia uno scopo. [...] Per decenni ho percorso questo ponte due volte al giorno, e vedo ora per la prima volta i gabbiani, pensa.  Li vedo con gli occhi di questa donna. Anche lei ha gli occhi grigioverdi come l'altra... come quelli di un uccello o di un animale. 
 A un anno dall'uscita delle Braci, capolavoro indiscusso dello scrittore ungherese Sándor Márai, si affaccia Il gabbiano, romanzo-saggio di neanche duecento pagine, solo quest'anno tradotto in italiano per la casa milanese Adelphi. Come nell'opera precedente, la trama del Gabbiano è strutturata su un triangolo amoroso suis generis, dal momento che un alto funzionario statale riconosce nella donna che gli si presenta davanti, Aino Laine, una donna da lui segretamente amata, suicidatasi tempo prima. 
Tuttavia, come sempre in Márai, la trama non è che un pretesto per una riflessione filosofica ed esistenziale, talvolta punteggiata di polemica sociale e politica. Oggetto di ripetuta critica è la società di massa che inizia ad essere riconosciuta dagli intellettuali più acuti: 
Queste persone sono sempre massa, anche quando sono da sole. La loro anima è semplicemente un atomo dell'anima della massa: una brulicante impersonalità, che ha un'"opinione" su ogni cosa, e non ha una reale conoscenza pressoché di niente, ma spaurita, piroettando, scintillando, disordientata e senza uno scopo cerca una direzione in cui sciamare... Perché ti stupisci? Questa massa è il cascame di una civiltà; queste donne dal volto imbellettato come mummie egizie, questi uomini dallo sguardo fisso e crudele, che indossano i loro abiti borghesi alla moda dal taglio impeccabile neanche fossero la divisa di una società segreta. Ovunque gelida complicità. 
Non dimentichiamo che l'uscita di questo libretto si colloca in un momento delicatissimo della storia europea, e la guerra entra prepotentemente anche nel romanzo. Infatti, il funzionario, protagonista indiscusso e unica voce "pensante", quando riceve nel suo ufficio Aino Laine ha appena consegnato la dichiarazione dell'entrata in guerra, che sarà resa pubblica il giorno seguente. E tutta l'azione si concentra in quelle scarse ventiquattrore che precedono la notizia. Accecante nella sua lucidità il passo in cui il funzionario osserva all'Opera lo sfarzo angosciato del pubblico, che cerca di oscurare ciò che in verità prevede drammaticamente. E tuttavia, oltre alla guerra europea, il protagonista deve affrontare anche una guerra interiore, suscitata dall'arrivo di Aino Laine: la guerra dei sentimenti, che aveva tanto abilmente accantonato:
Amore... Non ricordi? Da tempo c’era tranquillità in te e intorno a te. Avevi ormai perso l’abitudine di guardare di tanto in tanto l’orologio senza motivo, di drizzare le orecchie quando squillava il telefono, di voltare di scatto la testa se qualcuno abbassava la maniglia della porta, di frugare in mezzo alla posta del mattino con smaniosa curiosità alla ricerca della grafia familiare sulla busta... tutto questo era ormai passato. E ora? Non hai paura, non ti vergogni ad accogliere nuovamente nella tua vita questa torbida e umiliante inquietudine?
E ancora:
E’ questa l’altra guerra che si cela dietro quella visibile: la guerra delle coppie. Ma nessuno storiografo ne ha mai scritto. Peccato... Però si tratta di una guerra, Aino Laine, e miete non poche vittime. E chi ne è consapevole, a una certa età e dopo aver accumulato una certa esperienza, soppesa l’eventualità della vita e della morte quando si china verso il volto di un altro essere umano per baciarlo, un essere umano che è sì una replica, ma - purtroppo, o grazie a Dio - è anche diverso. Ma poi lo bacia ugualmente, vedi... l’esperienza non gli è servita a nulla. E dice: “Tu”, e dice: “Resta qui”.
In questa solitudine, che è tappa fondamentale dell'amore («L’essere umano forse non è mai così solo come quando il destino lo solleva dalla folla e lo assegna a far parte di una coppia»), l'uomo ha modo di confrontarsi con le sue più grandi paure. In particolare, il protagonista riflette sulla ripetibilità o sull'individualità della persona umana. Sconvolto dalla somiglianza straordinaria tra Aino Laine e la defunta Ilona, il funzionario si interroga su quale sia la reale identità di ognuno, e se qualcosa garantisca l'unicità. I fatti negano di essere unici nel corpo, ma l'interiorità è diversificata, in «sfumature» irripetibili e inimitabili, e Aino Laine ha peculiarità che la distinguono significativamente da Ilona. 
Muovendosi tra fantasmi e nuove apparizioni, il protagonista si trova a sciogliere ben più di un dubbio, e a prendere coscienza di realtà che prima non lo avevano affatto sfiorato, come l'esistenza e lo scopo di vita dei gabbiani (da qui il titolo e la frase scelta per aprire la recensione). Se la trama è avvincente e di per sé già interessante, il vero pregio di questo libro sta negli interrogativi filosofici. Márai agisce furbamente: la trama del libro potrebbe essere stata una costruzione a posteriori, per incastonare le riflessioni in una struttura narrativa più accattivante per ogni lettore che ama la speculazione appoggiata al racconto. Appoggiata? Meglio dire penetrata nel racconto, profondamente incuneata e stretta dalle maglie della narrazione: la bravura dello scrittore ha fatto sì che la storia non si slabbrasse mai dalle divagazioni esistenziali; le due compagini si co-alimentano continuamente, dando al romanzo un'unica sfumata, non ripetibile individualità. 

Gloria M. Ghioni

Il Salotto - Vi presento Loredana Limone!

Mando una e-mail a Loredana Limone lunedì 18 luglio, sono le quattro passate. La solita prassi. Non ho esitato a intervistare Claudio Morandini, dopo la lettura della sua Rapsodia, né Francesco Scardone, che ritroverò in un suo prossimo libro. Perché non avrei dovuto fare lo stesso con l’autrice di Volevo essere un grande chef? Il libro mi è piaciuto – mi ha sorpreso, a dirla tutta. L’intervista, perciò, è necessaria. Mi decido alle 16.35. La giornata era caldissima, neanche un po’ di vento. Soltanto io, il computer e le domande.
Le risposte arrivano dopo due giorni, verso le sei di pomeriggio. Ho recensito il libro in ritardo, continuavo a dirmi; perché una scrittrice così impegnata – ho saputo che ha scritto tante fiaboricette, un romanzo d’amore che è persino andato in scena, e qualche libro per bambini! – dovrebbe darmela vinta subito? Ho aspettato due giorni, insomma. Per delle risposte brevi, a volte; interessanti, in molti altri casi.
Scrivo per Critica Letteraria e qualche altro sito da un po’ di tempo – recensioni, saggi, interventi vari – e più vado avanti, più mi convinco che la mia voce non basti. Lo dico sempre, e non smetterò mai di farlo: la mia è necessaria, ma non sufficiente; serve, per forza, in un modo o nell’altro, il parere dell’autore. Le nostre voci – io, che ricevo, e lei, che manda, in questo caso – devono dire qualcosa, completarsi a vicenda. Un testo, insomma, ha bisogno di vita, e l’intervista è una buona occasione per dargliene un po’.
Ma veniamo a Loredana. Le chiedo di presentarsi in modo semplice, senza tanti convenevoli. Coglie l’invito e non esita a raccontarmi un po’ di sé. Mi piace il fatto che abbia condotto, e conduca tuttora, un laboratorio di scrittura. Me lo dice, soffermandosi su un progetto, “l’antologia dei racconti degli allievi di SAPORI LETTERARI”. Poi mi chiedo: deve essere stata davvero felice, quando una delle sue fiabe venne “[…] utilizzata dalla Lega Tumori di Pesaro nell’ambito del progetto La salute vien imparando”!
Loredana, insomma, sa il fatto suo. D’altra parte, potevamo davvero aspettarci qualcosa di diverso da una appassionata di Pablo Neruda? Assolutamente no. La sua semplicità – questo, almeno, è quello che ho potuto capire da ciò che ci siam detti – non è solo “letteraria”. Tra tutte le cose che avrebbe potuto sottolineare, infatti, ha messo l’accento sui “profumi dell’orto” che le piacciono un sacco: “In Tunisia ho visto intere aiuole di salvia e basilico, e mi sarebbe piaciuto portarmele a casa. Ma qui mi accontento dei vasi che ho sul balcone”.
A voi l’intervista!
- Iniziamo con una domanda scomoda. Avrà sicuramente letto la recensione. Le è piaciuto qualcosa in particolare? Si trova in disaccordo con ciò che è scritto? Vuole dire altro?
Innanzi tutto la ringrazio per la bella recensione e, in generale, per l’attenzione verso il mio libro che, sì, contiene quella voglia di raccontare che non riesco mai a frenare. Grazie delle parole carine: piacevole, delizioso. Spero che lo trovino così anche i lettori. Vero, c’è tanta quotidianità nei racconti e… posso fare anch’io una domanda? Come mai la sua attenzione si è focalizzata proprio sul personaggio di Yuri, marito fedifrago?
In realtà, mi ricorda un amico. È come se avessi rivissuto in questo racconto, neanche tanto lungo se non sbaglio, delle vicende di cui lui mi rese partecipe diverso tempo fa. Meglio continuare con il botta e risposta!
- Non credo ci sia stato un "intento formativo" da parte sua. Ho colto, infatti, più di ogni altra cosa, la voglia di costruire storie con "gusto" e semplicità. Mi chiedo, però, se c’è qualche eccezione. Quali pagine, insomma, nascondono un messaggio particolare?
Sicuramente Il piatto del giorno, ispirato da una storia vera e tragica. Il messaggio è che a volte (anche spesso, purtroppo) il bene si gira al male. Questo è un caso estremo, però bisogna fare sempre molta attenzione.
- Sono del parere che tutti i libri portino con sé un po' dell'autore, in un modo o nell'altro. Quanto di Loredana Limone c'è in Volevo essere un grande chef?
Ogni mio singolo boccone.
- C'è un racconto che le sta particolarmente a cuore? Una storia che le piace davvero tanto?
Come tutti i bambini del mondo: la storia di Dalila e della sua gamba che Gesù guarì. Credo fermamente che, senza il Suo aiuto, noi uomini possiamo far ben poco.
- Il "pacchetto" che lei ha confezionato è davvero originale. Come ho sottolineato nella recensione, infatti, la ricetta è inserita in modo da non forzare né il testo né il racconto. Ha preso spunto da qualche lettura oppure tutto è venuto da sé?
Conduco un laboratorio di scrittura creativa gastronomica, nel quale mi diverto a scrivere insieme ai miei allievi. I racconti sono nati in aula, nel modo più spontaneo e squisito, tra un assaggio e una risata.
- Qual è la storia del suo libro? Come è nata l'idea? Ha mai voluto la tentazione di mollare tutto e iniziare un nuovo progetto? Gli editori hanno accolto subito la sua proposta?
Il libro è stata una naturale conseguenza. I racconti c’erano, le ricette pure (nel laboratorio degustiamo dei piatti in tema con i racconti, che così diventano delle vere e proprie pietanze letterarie). Mi piaceva l’idea del menu letterario e ne ho messo insieme uno gustoso ma di facile esecuzione, che Cult Editore ha pubblicato con entusiasmo.
- Questa non può mancare: tre aggettivi per Volevo essere un grande chef.
Ciò che io spero sia è: gradevole, di compagnia, magari davvero utile.
- Fa un caldo tremendo in questi giorni. Una ricetta fresca e gustosa?
Dal libro? Il gelato al limone, o meglio ancora la macedonia afrodisiaca.
- Cercavo informazioni sul suo conto e ho scoperto che ha già scritto diversi libri. Mi ha incuriosito moltissimo Il fagiolo magico e altre fiaboricette del 2008. La sua, allora, è proprio passione! Pensa di essere cambiata rispetto ai tempi dei primi libri? Se lo è, in cosa?
A parte le fiabe, ho scritto alcuni libri di gastronomia abbinata alla letteratura e alla storia. Approfondire certi argomenti sotto l’aspetto gastronomico è stato interessante e divertente. Oggi mi sto dedicando alla narrativa, ma non escludo in futuro una nuova ricerca su un altro tema appetitoso. Se sono cambiata? Credo che la mia scrittura abbia seguito il suo fisiologico processo di maturazione, ma ci sono delle persone che non crescono mai. Io forse sono una di quelle.
- Avrà sicuramente molti altri progetti per il futuro. Vuole condividerne qualcuno con Critica Letteraria? Ci riesce davvero difficile rinunciare a questo saporitissimo mix di cibo e letteratura...
A me capita che, dopo una fase di elaborazione inconscia, venga fuori la storia che più di tutte preme per uscire. Ho due, tre idee che mi piacerebbe sviluppare, magari in un romanzo, e sono appunto in quella prima fase. Quel che posso dire è che di sicuro il gusto non mancherà.
- Ultima domanda, scontata ma necessaria: che consiglio darebbe a un esordiente?
Non mollare mai.
Davvero un bell'incontro, seppur virtuale. In bocca al lupo, Loredana! E che crepi!
Intervista di Michele Rainone a Loredana Limone

L'inconveniente di esistere

L’inconveniente di esistere
Fabio Carapezza
Demian Edizioni, Teramo, 2011
pp. 150



Dopo un ormai lontano esordio in poesia (Pezzi di vetro, Ibiskos, 1993), Fabio Carapezza esordisce nell’ambito narrativo con i quindici racconti di L’inconveniente di esistere.

Percorre il libro una concezione meccanicista dell’esistenza, un determinismo senza anima e senza senso che i personaggi – emarginati, esclusi, fragili – subiscono, spesso senz’altro scampo che non sia la morte.

Piuttosto diversificate, a vantaggio della varietà di lettura, sono invece le soluzioni narrative (dalla terza persona alla prima, dalla seconda alle intromissioni della voce del narratore) e le situazioni narrative: la distopia di «Homochip 2010», dove un inquietante programma di “digitalizzazione dei sentimenti” presentato in una megaconferenza da un fantomatico Dottor F. (stessa iniziale del nome dell’autore!) permetterà il controllo assoluto delle coscienze e il raggiungimento di una felicità indotta, sulla scia del Mondo Nuovo di Huxley; controllo che sembra essersi già avverato in racconti come «Poeti in vetrina» e «Coniglio pazzo fa i miracoli» in cui il protagonista, in una situazione dapprincipio normale – l’avvicinarsi a una vetrina, il guardare la tv – viene scaraventato, attirato dalle luci dello spettacolo e del consumo, in una massa informe, meccanizzata, da incubo.

Ci sono poi richiami intertestuali fra i vari racconti: la sciarpa grigia di un barbone nell’omonimo racconto riappare citata in «Vita», lo scrittore di «Homochip 2010» viene catturato in «Al quarto turno di notte» per la sua attività artistica eversiva: trovate che contribuiscono all’unitarietà della raccolta.

Una situazione narrativa ricorrente è l’incontro con il diavolo, il Male personificato (non è un caso che, sul retro di copertina, campeggi una citazione dal Faust di Goethe) e i suoi travestimenti: ora è un losco figuro in un porto («Ultimo giorno»), ora un cinico quasi simpatico nei sotterranei di una banca («L’inconveniente di esistere»).

Travestimenti: il libro si apre con «Carnevale», prosa non narrativa, ritmica, imperniata sull’esclusione del bambino che «non ha il vestito». Il Carnevale non è più rovesciamento dell’esistente, riscatto del popolo nei confronti del potere, ma ennesima occasione di far gruppo contro qualcun altro. E isolato è anche il ragazzo che, nel racconto «Gli angeli bevono Coca-Cola?» rischia la vita nelle corse clandestine di moto, perché la sua estrazione e le sue motivazioni sono assai diverse dai ragazzi agiati e annoiati che fanno la stessa cosa. Qui la morte viene solo sfiorata, c’è un dialogo surreale tra l'Angelo e il ragazzo, prima che questi entri in coma: dialogo che mette in campo l’ironia beffarda ma benevola del primo e l’irruente visceralità, e ingenuità, del secondo, in un vivace contrappunto.

Il dialogo, di stampo filosofico – Fabio è laureato in filosofia – non mira tanto a una sintesi, ma può avere il senso di una beffa, come in «Pesciolino rosso», nel quale l’abitante della boccia ascolta impassibile e indifferente il monologo rabbioso e disperato di un moribondo; o può mettere in crisi il male e il senso di scacco, come il ragno che ne «L’inconveniente di esistere» interloquisce col protagonista, di cui è positivo alter-ego, realizzato nel fare bene ciò che è chiamato a fare, sia pure una ragnatela: nel «forse» con cui si chiude il racconto – e il libro – non c’è incertezza, c’è finalmente una positiva fiducia nella vita e in se stessi.

Prima ho parlato di personaggi, ma farei meglio a dire che si tratta di personificazioni, rappresentazioni di assoluti, sdoppiamenti di pulsioni: nei racconti non prevale quasi mai l’interesse per la restituzione di un personaggio verosimile, ma una stilizzazione avviata già nei nomi degli stessi: “Irrisolto”, “Vita”, “Futuro”, “Essere”, “Ragazzo”, ad esempio; stessa sorte tocca alle città di “Guadagno” e “Profitto”.

Non c’è solo il male subìto, c’è anche quello perpetrato: in alcuni racconti esso s’annida nel protagonista, sembra iscritto nel suo DNA e può sfociare contro ogni logica previsione del lettore («La gelataia») o all’insaputa del protagonista stesso, come in «Ultimo giorno», che sembra rifarsi a Dottor Jekill e Mister Hyde. Questi sono, a mio avviso, i racconti più deboli, suonano più gratuiti e sembrano rimanere più in superficie degli altri.

Il libro dà il meglio di sé quando elabora più liberamente i grandi topoi e antecedenti richiamati, quando abbandona un certo maledettismo (che qua e là gonfia il pur scorrevole stile con enfasi, in maniera forse non necessaria) e lascia che il messaggio emerga indirettamente dal narrare, con un’urgenza meno esposta: come avviene nei racconti «La vita dura una neve» e, soprattutto, «Non andare nello stagno».

Nel primo una viaggiatrice, Lea, in Australia al tempo della narrazione, incontra fortuitamente Zak, che vuole costruirsi un bar nella carcassa di un vecchio aereo: un piccolo episodio raccontato con freschezza, dove il sottrarsi dei due protagonisti all’iter borghese, all’assimilazione della società, non porta a un’esclusione risentita, ma un’opportunità, perché «è meglio pensare a rendere il mondo una cosa interessante coi propri progetti, piuttosto che perdere tempo a scavare nel passato».

Nel secondo, protagonista è Gigino, un bambino daltonico che vive in campagna ed è inseparabile dalla sua grotta, e al tempo stesso irresistibilmente attirato dallo stagno, novello Narciso: notevole è la capacità d’immedesimazione – linguistica e di sensibilità – dell'autore nel bambino, la grazia poetica, la partecipazione nel descrivere i suoi curiosi gesti:


Il pomeriggio seguente, alla grotta, Gigino era molto eccitato: prese alcuni sassolini, non tutti quelli di cui disponeva nella saccoccia, li dispose a semicerchio affondandoli per metà nella sabbia. Si era formato qualcosa che assomigliava a un arcobaleno. Poi Mirka capì e, presi i rimanenti sassolini, completò la figura mezza segnata nella sabbia. Venne fuori la forma circolare dello stagno.



E circolarmente, come lo stagno attorno a Gigino, si chiude il racconto: con il ripetersi del richiamo incipitario «Gigino, Gigino!» in una situazione più tragica, eppure più dolce.



Davide Castiglione







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