"Sensualità" di Michela Zanarella (recensione e intervista)


Sensualità. Poesia d'amore d'amare
di Michela Zanarella
Sangel Edizioni, 2011

Booktrailer a cura di Valerio D'Amato

Michela Zanarella è nata a Cittadella, Padova, il primo luglio del 1980. Quest’anno ha pubblicato, per Sangel Edizioni, la raccolta poetica “Sensualità”. Nella prefazione, scritta da Giuseppe Lorin, viene fornita un’indicazione:
«“Sensualità” si può considerare il classico libro per San Valentino, da abbinare al rosso delle rose, espressione cromatica dell’amore... e della sofferenza». (Pag. 3). 
La poesia della Zanarella, dal mio punto di vista, di classico sembra avere poco. C’è tanta ricerca espressiva: 

[…] Per un istinto
che svetta sulle nostre anime
identica suona la vita,
immensa abbastanza
per raggiungere il mare. […]
(Pag. 37). 

[…] Un villaggio di dolcezza
mi scivola in labbra,
ho baciato le grotte di un confine
maschile. […].
(Pag. 41). 

una ricerca che impegna parecchio il lettore. Per comprendere le scelte poetiche della Zanarella, ho chiesto direttamente all’autrice alcuni chiarimenti. Eccoli. 

Ho osservato il titolo sulla copertina a lungo: “Sensualità”. La parola mi piace parecchio. Mi spieghi come, un qualsiasi amante dei sentimenti, può cogliere almeno la superficie del “sehnsucht”, e successivamente esprimerlo. È la sua poietica ciò che tendo di indagare.
La sensualità come la intendo è il bramare l’oggetto del desiderio con l’obiettivo spesso non raggiunto di una concretezza che rimane e dà forza al pathos dell’esistenza. Chi legge le mie poesie è coinvolto nell’idea panteatica di ciò che rappresenta la sensualità con le sue mille sfaccettature e si sente partecipe di un’emozione altissima, dove i sentimenti più reconditi prendono forma e consistenza nella coscienza del vivere.

Mi perdoni se faccio un passo indietro, ma ci sono alcuni passaggi che vorrei chiarire insieme a lei. Innanzitutto, mi piacerebbe sapere: l’esistenza ha pathos? Poi, in riferimento alla prima domanda: lei ritiene, insomma, che le poesie all’interno del suo libro siano un aiuto per chi vorrebbe aver coscienza della sensualità?
L’esistenza ha pathos, perché ogni istante è diverso dall’altro e quindi si crea pathos in quell’artista che vive il momento, nella speranza di vederne un altro a seguire. Non mi considero erogatrice di insegnamenti, la mia poesia è ciò che la mia anima mi suggerisce in quel momento.

Leggendo la raccolta, ho concretizzato un dubbio che aumentava pagina dopo pagina: perché raccontare l’amore con forme quasi surrealiste, in alcune parti metafisiche, piuttosto che romantiche? Mi riferisco a espressioni del tipo (ne cito qualcuna a caso): “La voglia di entrare in te/per bere le prigioni calde...”, “...succhiare brividi...”, “...ogni rintocco di pelle/sporca di piacere/l’dea di essere mare umano...” e anche: “Ho davanti un infinito/intelligente...”.
La mia poesia può rientrare nel parallelismo pittorico che attraversa i grandi maestri come Picasso o Giorgio De Chirico, dove la frantumazione dell’essere è alla ricerca di quell’esistenziale, che ha sempre rappresentato la vita su questa terra, dove i quattro elementi sono basilari alla nostra espressione artistica. 

Avevo intuito che le sue poesie sono fatte di immagini, più che di proposizioni. Avevo anche intuito a quali «grandi maestri» lei è legata. Non capisco perché frantumare l’essere per andare alla «ricerca dell’esistenziale». Sono schietto: a che giova? La vita sulla terra è fatta di cose molto più complicate…
Secondo lei a chi giova che Picasso abbia frantumato la realtà riproponendola nelle sue opere, a chi giova il bianco scuro scelto dal Caravaggio, a chi giova la scelta di Modigliani di proporre le donne con il collo lungo? Logicamente è una scelta che identifica il proprio stile e lo differenzia tra gli innumerevoli “artisti” di questo nostro millennio. 

A Picasso, Caravaggio e Modigliani non posso chiederlo. A lei sì. Vista l’occasione, volevo approfittarne.
I grandi della Storia dell’arte sono un riferimento di studio e di ricerca: non si smette mai di apprendere. Mi permetto di esprimere le mie emozioni in Poesia, senza pretendere troppo. La scrittura è un mio quotidiano ritorno alla vita, mi basta questo.
 
Dario Orphée

SVILUPPO CAPITALISTICO E UNITÀ NAZIONALE


SVILUPPO CAPITALISTICO E UNITÀ NAZIONALE
Un convegno a Roma per parlare di economia, politica e cultura (e delle loro crisi) nei 150 anni dell’Italia unita

di Serena Alessi
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Tra le iniziative per festeggiare il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia ce n’è stata una che si è distinta dalle altre per non essere caduta nella facile retorica di molte celebrazioni di questo 2011. Nella splendida Biblioteca della Camera dei Deputati a Roma si è tenuto il 25, 26 e 27 maggio un convegno dal titolo Sviluppo capitalistico e unità nazionale. Le forme economiche, politiche e culturali dell’unità nazionale e della sua crisi, organizzato dall’”Associazione per la storia e le memorie della Repubblica”, dal dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università “La Sapienza”, e patrocinato dall’”Associazione italiana dei costituzionalisti” e dall’ “Associazione italiana per la storia dell’economia politica”.
Tre giorni di dibattiti su economia, politica, società e cultura italiana e sulle loro trasformazioni nei 150 anni di unità: noi di Critica Letteraria abbiamo seguito le ultime due sessioni.

Nel pomeriggio di Giovedì 26 si svolge la parte più prettamente letteraria, dal titolo Scrittori, sviluppo economico e unità nazionale. La discussione incomincia con l’intervento di Antonio Prete, che parla di “scritture morali e cadenze mercantili”. Quella di Prete è una perfetta introduzione, un viaggio tra gli scrittori italiani e le loro diverse contemporaneità: da Leopardi a De Sanctis, fino alla necessità dei “nuovi doveri” che la letteratura ritrova dopo la seconda guerra mondiale, e alle esperienze poetiche di fine Novecento. 
“Già Vittorini”, dice Prete, “aveva mostrato come forme del dire e ethos politico potevano essere congiunti”. Oggi “con l’affermarsi di una cultura dell’immagine mediatica e di uno stile mercantile”, continua Prete, 
“le forme letterarie ripiegano prevalentemente su una passiva adeguazione ai generi, in un dialogo con l’editoria di consumo, con un romanzesco assimilabile a quello veicolato dalla comunicazione televisiva”. 
Sarà forse la poesia, così come già era avvenuto tra le due guerre, a soccorrere la scrittura svuotata del suo ethos politico? 
La poesia “è il primo movimento di una resistenza al vortice della cultura mediatica e mercantile che tutto contamina e assorbe e svilisce”.  
Difendere la lingua, quindi: ecco l’invito che fa Prete alla fine del suo intervento. Difendere la lingua per resistere e difendere la Costituzione per diventare “un’altra Italia e altri italiani”.

All’excursus introduttivo di Antonio Prete segue quello che forse è stato l’intervento più denso di pathos delle ultime due sessioni. Gianni D’Elia parla del “circo Italia”, alias quello che in Francia chiamano le cirque Burlescon. D’Elia denuncia quella mancanza di verità su cui si è fondato il berlusconismo; parla dei tre delitti formativi della Repubblica, quello di Mattei (delitto economico), quello di Pasolini (delitto culturale) e quello di Moro (delitto politico); cita le parole profetiche di Baudelaire (stupidità, stampa e telegrafo:così il poeta spiegava ai francesi l’ascesa di Napoleone III. “Sostituiamo telegrafo con telefono e avremo la trinità di oggi” commenta D’Elia), di Dante (orgoglio e dismisura sono all’origine della corruzione della città di Firenze) e il Pasolini dell’incompiuto Petrolio. Esaminando la volgare “scienza italiana dell’incoscienza che procede per spettacoli e finzioni”, D’Elia invita a rifiutare quelle “veline” che, in tutti i sensi, ci pongono in continuazione davanti agli occhi. Il suo è un appello pratico alla ribellione, all’azione. 
“Qualcosa sta per succedere. Forse partirà dagli studenti, forse dagli Indignados spagnoli, ma non possiamo stare qui a parlare di altri: dobbiamo parlare di noi in prima persona”, 
dice con voce appassionata e sollevando non poche polemiche tra i suoi colleghi. 

Segue poi la relazione dello scrittore siciliano Vincenzo Consolo, purtroppo assente. Antonio Prete legge le parole di Consolo che sono elogio al suo conterraneo Leonardo Sciascia e riflessione sull’impegno civile dello scrittore di Racalmuto. Dal buio della zolfara alla luce dell’agorà: perchè 
“senza lo zolfo lo scrittore Sciascia non si potrebbe spiegare. Spiegare la sua tagliente logica, la sua penetrante capacità di lettura della realtà, della storia, il suo morale, civile bisogno di smontare le tessere della storia proditoriamente o casualmente mal disposte e rimetterle nell'ordine della verità; spiegare la sua indignazione quando un uomo, un potere, un sistema esercita violenza, offesa su un altro uomo, su una minoranza, su una società”. 
E poi l’impellenza di affrontare il tema della mafia, la funzione civile dei romanzi polizieschi, l’Affaire Moro: le parole di Consolo attraversano trasversalmente le esperienze civili e letterarie di Sciascia e si concludono affermando che “questo nostro Paese si è fatto sempre più sciasciano”. Il sonno della ragione ci intorpidisce, la “peste mediatica” umilia la nostra dignità. Ed è nel buio di questo momento storico che l’insegnamento di Sciascia deve esser mantenuto sempre vivo.

Dopo Sciascia è il turno di Paolo Volponi, scrittore estremamente ancorato alla sua contemporaneità e che poco prima di morire visse la delusione delle elezioni del ’94. Il critico letterario Massimo Raffaeli nel suo intervento Da Teano a Piazza Fontana. Il sipario ducale di Paolo Volponi parla del pensiero dello scrittore marchigiano che proclama il “dovere di rifiutare una atavica soggezione, di ribellarsi alla normalità della morte civile e pertanto rigettare lo stato di cose presenti”. Raffaeli, che ha curato il volume collettivo Paolo Volponi. Il coraggio dell’utopia (Transeuropea, 1997), segno della dedizione per quello che secondo lui è “insieme a Fenoglio il più grande scrittore di romanzi della seconda metà del Novecento”, legge alcuni passi da Il sipario ducale (Garzanti, 1975), romanzo che si svolge subito dopo la strage di Piazza Fontana a Milano, e da altri scritti di Volponi, tra cui queste intense parole: 
“Il nostro è un Paese sgangherato, ma non è morto. E anche nella cultura, nella letteratura, perché non siamo tutto e soltanto televisione, tutto e soltanto plastica. C’è ancora molto che freme, frigge, farnetica”.

L’ultimo intervento del pomeriggio è quello della femminista Biancamaria Frabotta, dal titolo provocatorio Degrado di un simbolo: dalla patriota alla escort. O meglio dalla escort alla patriota, poichè il suo discorso è cominciato con la definizione di escort, appunto “scorta”, e con l’amara constatazione che della poesia di Giulietta Masina delle felliniane (e pasoliniane) notti di Cabiria non c’è proprio nulla: la escort che scambia il sesso con un posto di lavoro o con la condivisione del potere non fa né arte né storia. Poi la Frabotta, tra una citazione di Mary Wollstonecraft e una di Simone De Beauvoir, disegna un trittico di donne-simbolo dei nostri 150 anni di unità. Cristina di Belgiojoso, la patriota dalla vita avventurosa, e le due Amelia Rosselli: la prima l’Amelia Pincherle madre dei fratelli antifascisti assassinati in Francia, la seconda, sua nipote, la celebre poetessa italiana morta suicida nel 1996. È con i versi della seconda Amelia Rosselli che si conclude l’intervento della Frabotta,versi che 
“ci faranno scorta in questa amara solitudine di italiane senza Italia”.
FINE PRIMA PARTE 

Giorgio Todde: Paura e carne



Paura e carne
di Giorgio Todde
Edizioni Il Maestrale

10 euro, 257 pp


Secondo romanzo dedicato alle vicende dell'imbalsamatore-investigatore Efisio Marini, alle prese con un giallo singolare ambientato nella Cagliari dell'Ottocento. A fare da sfondo una torbida storia di intrighi, oppio, e alcuni omicidi misteriosi sui quali l'imbalsamatore ventiseienne indaga con lucidità e rigore, svelando alla fine i nodi della storia.

Todde regala in questo libro il suo solito stile venato di lirismo, con situazioni tratteggiate quasi come dipinti, piene di sensualità, ricche di dettagli e di descrizioni che spesso sconfinano nell'onirico, disegnando situazioni che sembrano stare al confine tra sogno e realtà.
La trama è ricca di intrighi, come è classico nello stile dello scrittore sardo, con vicende che si sviluppano intrecciandosi alla psicologia dei personaggi e alla profondità della descrizione di luoghi e situazioni, dando luogo a una narrazione complessa e profonda, che cattura lo spirito della Sardegna pre-novecentesca e confeziona una storia avvincente e ricca di sviluppi.

Giuseppe Novella

Per ogni frazione - Davide Castiglione

Per ogni frazione
di Davide Castiglione
Campanotto Editore, Udine 2010

con una postfazione di Luca Stefanelli
pp. 104
€ 10.00


C'è un passare di gente,
di visi in vetrina e sotto i portici
l'arco più basso delle labbra.

Non è l'inverno ad abbottonarla,
mi convinco, se i cappotti
stringono i gesti a farli simili
a un viale senza deviazioni;

sarà la paura di urtarsi
pari al desiderio di urtarsi,
sui marciapiedi un vestirsi a sorriso
che più eccede e più lascia

nudi: così, per non sentirci
assenza o incrocio mancato,
gente a passarsi in mezzo,
in vetrina, a passare, a non conoscersi.

Un'interessante brezza poetica scivola lungo le strade di Pavia, entra nelle aule universitarie ma, soprattutto, raggiunge i bar, con letture e discussioni che creano movimento, quasi novelle "Giubbe rosse" della pianura padana. Tra queste giovani voci, Davide Castiglione, classe '85, alessandrino di origine ma pavese d'adozione, per i suoi studi linguistico-comparatistici e per l'avventura collegiale. La sua prima raccolta, Per ogni frazione, ospita la postfazione di Luca Stefanelli, finissimo studioso di letteratura e filosofia dell'ateneo pavese, ed è uscita per l'editore Campanotto, da sempre attento alla poesia contemporanea. Indizi, questi, che lasciano presagire la portata della raccolta, di cui si intuiscono i caratteri di serietà poetica e di sapienza compositiva, nonostante la giovane età del poeta (i testi sono stati composti tra il 2005 e il 2009). 
Basta scorrere l'indice per accorgersi che niente è lasciato al caso, nella poesia di Davide Castiglione: l'epigrafe; la divisione in cinque sezioni dai titoli significativi; l'attenzione tipografica alla resa dei titoli delle singole opere e alla distribuzione del testo nella pagina; le note dell'autore - tutto testimonia l'importanza del paratesto, ereditata forse dall'amatissimo Sereni.

Ma passiamo alle poesie. Fin dai primi testi, emerge l'importanza del ripiegamento intimistico su di sè, che non tradisce alcuno snobismo; al contrario, si tratta di una scelta del giovane io lirico, ossimoricamente «intimo straniero - familiare distante», che s'inerpica per la via scarsamente penetrabile della conoscenza di sé e degli altri, simboleggiata dalla metafora del viaggio.
Paure, offese, smarrimenti, dimenticanze e perdite sono spesso risposte frustrate al desiderio di comunicazione («i suoi minuti infissi alla porta senza suono/ il mio soffrirli in tutto il sorriso che vi mostro») e, ribadisco, di conoscenza (si veda la bella "Dialogata"). Questo viaggio di immersione in sé, testimoniato dalla presenza di un alto tasso di forme riflessive e dalla trasformazione di verbi transitivizzazione dei verbi, non poche volte porta a evitare la presenza di dati referenziali e a non soffermarsi sulle circostanze che hanno dato origine alla poesia. Non vorrei però che si pensasse a una poesia - pur sottilmente - autoreferenziale: semplicemente, il potere evocativo e l'evanescenza di certi contorni versali contribuiscono alla polisemia dei testi. In altre parole, al lettore è concesso spesso di interpretare e ricontestualizzare le liriche. 

Altrove (come nella sezione Sensi della piazza), le poesie  si soffermano brillantemente su microcosmi ben circostanziati: ora sulla geografia, ora sugli oggetti quotidiani. Il collegio, le aule universitarie, Piazza Vittoria e il Lungo Ticino tornano, a volte nominalmente a volte semplicemente evocati, ma sempre riconoscibili per chi conosce Pavia. E' una geografia reinterpretata in rapporto alla fiumana di esistenze che la popolano, come nella poesia riportata sopra: mondo naturale e umano si intrecciano - a volte scontrandosi, a volte leggendosi dentro reciprocamente, a volte rabberciandosi vicendevolmente. Il poeta, non sempre attante («l'occhio non è nuovo/ a chiamarsi fuori»), è un contemplatore inesausto, a volte scoraggiato, ma disposto a saggiare la realtà. Umiltà e curiosità formano un binomio ben accostabile a Castiglione, tanto riservato quanto estremamente attento:

I
Il vento, se fa tanto, lascia che i panni oscillino,
mai imparata l'urgenza di tenersi o andare.
Come i loro, ammansiti dal sole (perché c'è,
è un fatto), sono i toni di un contrasto dalla strada,
da una finestra, scivolati alla veranda dove siedo.
Un foglio diviene semplicemente aeroplano,
a lanciarlo quasi docile giunge a chi si vuole;
nel soggiorno, senza identità o concordanza
aprire un giornale è lo stesso che accendere il televisore;
la cronaca non ferma la forchetta a mezz'aria,
il fuori del fuori si fa soffio - fino a schiacciare.


Ma la poesia si accosta anche al sentimento, e anzi lo celebra, se ne fa espressione e crea un ponte sull'indicibile. Quotidianità di amori «sciolti» e amori «legati»: si evita così il rischio onnipresente nella lirica contemporanea di cadere nel già detto o nel sentimentale. Basti leggere i frammenti di "Quadri" per ammirare la discrezione con cui il poeta si rivolge all'amore, senza retorica né illusioni. Il campo generalmente inflazionato dell'amore offre l'occasione per sperimentare, come leggiamo nell'originalissima "Racconto di una sedia":

"Raccontami di una sedia.
La voglio così: eterna.
La voglio anche: di vapore".

Certamente. Ci sono: io e te.
E sedia sta per
sostenere
in questa storia.
Che (sei attenta?) dura
da dieci - chiedimi
se mesi
o minuti, mentre ti
sbilanci (a guardarmi);
più sotto c'è un vuoto
in miniatura.

Stanco
e in silenzio (ascolti?) la affido
ad altri, e sempre
se non ti pesa
fai che siano me:
la sedia carica sta per
cadere: a dirlo
è l'evidenza, un minimo
aggiornata in fisica.
Lo Zanichelli:
la sedia sedia sta per
sedile per una persona
sola.

Sono da ritenere attendibili.

Creare, realizzare. Realizzo:
eccoci, a terra
(mi senti?)
io e.

Anche la sensualità, presente solo a sprazzi, non è mai alternativa al sentimento, ma ne è parte integrante. Si noti la delicatezza con cui viene ricordata una prima notte d'amore: senza negare la carnalità dell'atto, Castiglione vi trova rinascita, rigenerazione, miracolo nella «stamberga» della realtà, «in respiri approssimati» a quelli dell'amata, ma «per eccesso»:


Lei da sé, dalle ciglia, nella calma mi sfila
la carcassa di una notte, la prima,
la rimuove. Grembo immemore, ne riemergono
baci senza scia, un tempo scartato, miracoli precari.
Io non so; la sento, solamente mi fermo,
nelle vene delle alghe, nel fiore nella stamberga
nella camera ambrata, la sua mano inventa il mondo.

Altro aspetto interessantissimo è il primo piano dedicato all'atto di scrivere, Leitmotiv presente nelle singole liriche, come in "Lettera da casa". L'obiettivo principale della poesia è, per il Davide Castiglione, l'ambiziosa funzione eternatrice, sulla scia oraziana:
«sono nati museo per non morire/- l'ossessione con cui pensavo/ il mio scrivere». 
Come già emerso dalle poesie scelte, lo stile è curatissimo, colto senza cadere nel verboso o nell'intellettualistico; le citazioni poetiche, lo studio della parola e della iunctura tradiscono la cultura letteraria di Castiglione, nonché la ricerca di piacevolezza fonica riflette la maturità precoce del poeta. Non resta che aspettare le prossime prove. Nel frattempo, possiamo parlare con Davide della sua poesia (e ascoltarne le letture) in uno dei frequenti incontri del gruppo poetico "Tredici cadenze" all'AmBARabà di Pavia. 

Gloria M. Ghioni

Roberto Benigni di Francesco Mininni e Andrea Bellandi



Roberto Benigni. Da Berlinguer ti voglio bene alla Divina Commedia: il percorso di un comico che si interroga su Dio
di Francesco Mininni e Andrea Bellandi
Società Editrice Fiorentina, 2011

pp. 132
€ 12,00


Il libro esamina il lavoro di un artista che si è lasciato turbare da dubbi, inquietudini e interrogativi. La comicità e la poesia, attraverso la risata e il giocare con le parole sono due modi distinti per dire ciò di cui si ha difficoltà a esprimere. Benigni nelle sue opere dimostra di avere una certa attenzione ricorrente per le tematiche religiose: Dio, Gesù, la Bibbia, la creazione, gli angeli e i diavoli, il Giudizio Universale, Maria. Un percorso che attraversa tutti i film di Benigni, da Gesù Bambino di Tu mi Turbi al Padre Nostro recitato, per intero, da Attilio davanti alla moglie Vittoria, in fin di vita in un ospedale a Bagdad nel film la Tigre e La Neve. Un percorso che approda infine ai grandi temi dei tre regni oltremondani danteschi che parlano, del peccato, del perdono, della grazia, dell’umano e del divino, spina dorsale dei canti della Commedia.

Da qui è nato il progetto, nella redazione di «Toscana Oggi», di analizzare come il Benigni non più comico, ma profeta del verbo dantesco, parli nelle sue opere di Dio. Il critico cinematografico Francesco Minnini e il teologo mons. Andrea Bellandi incuriositi dal “fenomeno Benigni”, hanno iniziato a studiare quel “Benigni pubblico”, quello che regalandosi agli spettatori attraverso film e spettacoli diventa proprietà comune.

Il libro, suddiviso in due parti, illustra due diversi aspetti della personalità di Roberto Benigni e soprattutto analizza il rapporto del comico italiano con la fede. Nella prima parte il critico cinematografico Minnini, descrive Benigni come attore e regista, partendo dal film "Belinguer ti voglio bene" analizzando la figura di Mario Cioni, il primo personaggio interpretato da Benigni, costretto a vivere in un mondo troppo gretto e cattivo; un mondo che lui non vorrebbe, ma che è li e lo aspetta. Mario é un personaggio particolare: dopo la morte della madre, passa la notte sotto un ponte e vaga senza meta facendo ragionamenti su Dio. Benigni con il film Berlinguer Ti voglio bene racconta le proprie origini, ma senza mostrare alcuna voglia di tenerezza e di rimpianto.
Sa soltanto che quello è il luogo della sua infanzia e adolescenza, che lì ci sono i suoi genitori e le sue sorelle e che con esso dovrà sempre confrontarsi perché rimarrà dentro di lui. Roberto è partito verso un altro mon- do, Mario resta lì. Entrambi sanno, però, che la poesia, sia essa Prevert o uno stornellatore di strada, aiuta a campare. E ci si aggrappano come un naufrago al salvagente.
Mario per non morire, Roberto per vivere.
Nella seconda parte Mons. Andrea Bellandi, analizza invece Benigni come lettore e commentatore della Divina Commedia, soffermandosi principalmente sull'interpretazione che Benigni offre rispetto al testo dantesco e sul rapporto che il Benigni uomo ha con Dio. Mons. Bellandi spiega che negli ultimi anni è stato soprattutto grazie a Benigni che la Commedia è tornata a essere un’opera appassionante, epica e travolgente che ha spinto molti ad approfondire anche gli aspetti più profondi e spirituali. Il merito di Benigni è quello di essersi messo in gioco e di aver giocato bene: sempre in bilico sul filo fra comicità e devozione alla parola scritta, non ha deluso i suoi fan che lo hanno amato nel Piccolo Diavolo o in Johnny Stecchino, ma nemmeno gli “addetti ai lavori” del settore dantesco come filologi, letterati, intellettuali o anche ecclesiastici.
Lettera a Dante che Benigni premette al primo canto dell’Inferno:
Caro Dante..., ti voglio ringraziare perché con la tua Divina Com- media m’hai fatto innamorare della poesia, che è la cosa più bella del mondo, m’hai fatto sentire il bene e il male, m’hai fatto andare a let- to impaurito, m’hai fatto venire da piangere, mi hai portato con te dappertutto, sull’Oceano Atlantico, in Lunigiana, a Gerusalemme, a Monteriggioni; m’hai fatto morire dal ridere, anche se hai scritto in una lingua difficilissima, misteriosa, incomprensibile, che per capirla – pensa – me la son dovuta far spiegare dai miei nonni analfabeti!
Costanza Bucci

CriticARTe: La regalità di Tamara




TAMARA DE LEMPICKA. La regina del moderno
11 marzo – 10 luglio 2011
Roma, Complesso del Vittoriano

A cura di Gioia Mori

Quando si nominano i ruggenti anni Venti e Trenta del Novecento non si può fare a meno di non pensare a Tamara de Lempicka, ritrattista attenta, che ha saputo farsi portavoce e icona di quel periodo, diventando l’emblema dell’emancipazione femminile e della modernità.
La mostra romana vuole rendere omaggio alla personalità di un’artista trasgressiva, complessa e sfaccettata con una retrospettiva che, a partire dalle sue prime opere, approda a quelle più famose ed emblematiche degli anni ’20 e ’30, fino a quelle meno note e più tradizionali degli anni successivi.


Tamara, di origini polacche, conosce il marito, l'avvocato Tadeusz Łempicki a San Pietroburgo e per sfuggire all’instabile situazione politica russa, i due si trasferiscono a Parigi nel 1920. È qui che la donna riprende gli studi artistici alla Académie de la Grande Chaumiere e alla Académie Ranson coi maestri Maurice Denis, e il cubista André Lothe. Sviluppa uno stile particolare e personale, caratterizzato da immagini ben definite, dai contrasti netti e spigolosi, ma dotate di grande forza espressiva e caratterizzate prevalentemente da una ristretta gamma di colori, in cui il grigio è onnipresente.


Nelle prime opere degli anni ’20 è forte l’influenza tecnica degli artisti cubisti e futuristi, che frequenta a Parigi (il tenero Ritratto di bambina con orso, 1922, in cui raffigura l’amata figlia Kizette, Donna che dorme, 1923) e raffigura spesso soggetti dimessi, personaggi abbandonati, come donne sole, facendo trasparire la personale biografia di “profuga” (come Portrait de Mme P. (Sa tristesse), 1923, che, noto solo grazie ad una fotografia, si pensava fosse perduto, ma è stato ritrovato grazie alle ricerche compiute in occasione di questa esposizione).


Nella prima metà degli anni Venti l’artista inizierà a cambiare radicalmente soggetti, preferendo ai soggetti dimessi, la vita mondana della società borghese e nobile del tempo (Ritratto di Madame Zanetas, 1924, Ritratto del marchese Sommi, 1925, Portrait d’André Gide, 1924-1925 circa, Portrait de S.A.I. le grand-duc Gabriel Constantinovitch, 1926 sono solo un esempio dell’innumerevole produzione artistica di quegli anni). Queste sono senza dubbio le opere più conosciute ed emblematiche della Lempicka, in cui emerge la sua perizia ritrattistica, l’attenzione all’individualità e alla caratterizzazione di ogni personaggio, lo sfarzo proprio di un’epoca, ma al contempo una velata tristezza, una malinconica solitudine individuale. Le opere più belle sono quelle che ritraggono “la bela Rafaëla”, una giovane e intrigante donna amata dall’artista: nudi sensuali, i cui le forme morbide e sinuose della giovane sono contornate da morbidi tocchi di chiaroscuro (La bella Rafaëla, 1927), Rafaëla su fondo verde (il sogno), 1927, La sottoveste rosa, 1927).

Tamara alla fine degli anni ’20, dopo aver divorziato dal marito, si reca a New York, dove si trasferirà stabilmente nel 1939 con il secondo marito, il barone ebreo Raoul Kuffner. Nelle sue opere americane ritorna spesso il tema della vecchiaia e dei rifugiati, ma soprattutto fanno capolino nei suoi quadri i grattacieli, emblema della modernità, forme e colori metallici dalle prevalenti e raffinate sfumature blu-grigio (Nudo con grattacieli, 1930, Sciarpa Blu, 1930, Ritratto di Madame M., 1932).

L’ultima parte della mostra, che malamente vuol confrontare il lavoro dell’artista con alcune opere dei suoi contemporanei polacchi, è dedicata alla fase meno conosciuta e dall’esito meno felice (anche per quanto riguarda l’accoglienza critica) di Tamara, in cui l’artista subisce un “ritorno all’ordine”, fortemente influenzata dalla tradizione rinascimentale italiana e fiamminga, e si dedica a soggetti umili, intimi, nature morte dalle forme meno spigolose e più morbide e sinuose (ad esempio Brocca su una sedia I (Natura morta con uova), 1941).


Le parole di Magdeleine Dayot in un articolo del 1935, riassumono perfettamente a caratteristica dell’arte della Lempicka:
“Questo curioso mélange di estremo modernismo e purezza classica attira e sorprende, e provoca, forse, prima di conquistare completamente, una sorta di lotta cerebrale, dove queste tendenze così diverse lottano una contro l’altra, fino al momento in cui lo sguardo avrà afferrato la grande armonia che regna in queste opposizioni”.
Accompagnano la mostra numerose foto e due filmati d’epoca che ritraggono l’artista come una diva, oltre ad alcune lettere e recensioni.


Elisa Laboranti

Scrittori in ascolto - Lorenzo Coveri, Viaggio nelle lingue di Fabrizio De André

Lorenzo Coveri e Giuseppe Polimeni
LORENZO COVERI 
"Viaggio nelle lingue di Fabrizio De André"

Pavia - Collegio Santa Caterina 
24 maggio 2011, h. 17.30

Introduce Giuseppe Polimeni (Università di Pavia) 

Segue la premiazione dei vincitori dell'8^ edizione del concorso "I poeti laureandi"


Sono le 17.30 di un martedì afoso padano, quando ha inizio l'incontro annuale con le parole della canzone. Lo scorso anno era stato ospite Giuseppe Antonelli, con il suo Ma cosa vuoi che sia una canzone, per una piacevolissima analisi dei testi italiani degli ultimi cinquant'anni. 
Lorenzo Coveri
Quest'anno, è la volta di Lorenzo Coveri, professore ordinario presso l'ateneo genovese, studioso di dialettologia romanza e ligure, giornalista pubblicista, tra i promotori della lingua italiana come lingua seconda all'estero, visiting professor in Ohio e Rio De Janeiro. Gli interessi accademici di Coveri si intrecciano alla passione per la canzone italiana, nel primo volume La lingua di Luigi Tenco (2003), e nei successivi I dialetti (e le lingue) di De André (2004), Il dialetto nella canzone (2008), e proseguiranno nel volume di prossima pubblicazione La lingua della canzone.

Nella sempre bella cornice del collegio Santa Caterina, Coveri propone un percorso nello studiatissimo (un centinaio di monografie e molte più tesi di laurea!) universo di Faber. In particolare, si sofferma su Creuza de mä, album concettuale scritto con la collaborazione di Mauro Pagani, che nel 1984 aveva destato totale sconcerto anche nel pubblico genovese. Nel progetto originale vi era il desiderio di scrivere un album che rispecchiasse il Mediterraneo, e non solamente la Genova degli ultimi. Per realizzare ciò, De André sceglie una commistione di elementi linguistici altri, non solamente genovesi, come si evince dalla canzone omonima. 
In particolare, l'operazione linguistica di De André è ben precisa: non scrive un album dialettale, ma un album in dialetto, ovvero non un album populistico, ma elegantemente ricercato. Il dialetto, infatti, per De André non è una lingua parlata (ricoridamo che la sua famiglia era piemontese), ma è una lingua poetica, cantata con una pronuncia quasi da alloglotto. Anche questi elementi confermano la scelta anti-folklorica; piuttosto, a detta del poeta genovese Roberto Giannoni, il dialetto è uno strumento di trasgressione, per prendere le distanze dall'alta-borghesia da cui proviene la famiglia De André. 

Inoltre, questa cosiddetta "terza fase" della produzione di De André si apre in linea con le tendenze della poesia italiana, che negli stessi anni vedeva l'affermarsi della poesia "neo-dialettale". Non stupisce dunque che su oltre cento testi scritti da Faber, molti contengano elementi dialettali o di altre lingue. Oltre al genovese, Coveri riflette sui testi in gallurese (la Sardegna sarà la seconda patria d'adozione di De André), dal francese (in particolare negli anni '60, soprattutto da Brassens, che Faber considera non solo una fonte poetica ma anche un maestro di vita), dall'inglese (Cohen, Dylan, Edgar Lee Masters), ma anche dall'America latina (come la discussa Prinçesa). 
Se l'analisi di Coveri era stata aperta della proiezione di Creuza de mä, eseguita da Faber in uno dei suoi ultimi concerti, l'incontro si è concluso con l'altrettanto intensa Dolcenera. I presenti hanno accolto le tante suggestioni di Coveri con un lunghissimo applauso.


Al termine dell'incontro, la rettrice del Collegio S. Caterina, la professoressa Maria Pia Sacchi, ha dato inizio alla premiazione dei vincitori del concorso di poesia "I poeti laureandi", giunto alla sua ottava edizione. In una sobria cerimonia, che ben si sposa con l'atmosfera familiare del collegio, i premiati hanno letto la poesia con cui si sono aggiudicati chi il terzo premio (Lorenzo Marchese), chi il secondo (Sara Eusebi) e chi il primo (Stefano Damiani). Ogni tre edizioni, le poesie vincitrici e quelle segnalate vengono raccolte in una plaquette per le edizioni del collegio.

La rettrice Maria Pia Sacchi e la giuria

 Gloria M. Ghioni

La Somalia con gli occhi di Kaha Aden

Fra-intendimenti
di Kaha Mohamed Aden
Ed. Nottetempo 2010

pp. 144
€ 13.00



Kaha Aden, figlia di uno dei più importanti uomini politici somali, incarcerato nel 1982, ha lasciato Mogadiscio rifugiandosi a Pavia prima che la guerra sconvolgesse il suo paese.
Fra-intendimenti è il suo primo libro, una raccolta di racconti vividi e ironici che ci permettono di conoscere più da vicino la tragedia della Somalia ma anche la quotidianità degli immigrati in Italia. Si respirano i profumi della terra d'Africa e la paura che nasce dalla semplice consapevolezza di non appartenere al "giusto" clan, quello al potere. Si conosce l'imbarazzo degli immigrati di fronte a certi atteggiamenti razzisti degli italiani o lo sgomento di chi si trova in una realtà lontana anni luce dalla propria vita di sempre.
E' interessante poi fare conoscenza con la filosofia di vita somala, molto distante dalla nostra, e con le tante abitudini che caratterizzano in maniera netta i membri dei vari clan, così diversi che non calcolano allo stesso modo nemmeno il trascorrere delle ore: così le quattro di notte del clan Daarood (e del resto del mondo occidentale) sono le dieci per il clan Hawiye.
La scrittura di Kaha Aden è briosa, ironica, inconsueta e molto semplice, una narrazione informale e quotidiana come quella discorsiva tra due amiche che si raccontano le vicende della vita.

Recensione di Carla Casazza

Sofi Oksanen, La Purga

La Purga
di Sofi Oksanened,
Guanda, Parma 2010 
pp. 393 
€ 17,50.

trad. di Nicola Rainò
1^ edizione: 2008 

La Purga di Sofi Oksanen è un romanzo storico. Le vicende narrate si svolgono per lo più in Estonia tra il 1933 e il 1992 – date e luoghi sono sempre esplicitati in epigrafe ai singoli brani narrativi e hanno una funzione capitale nello sviluppo narrativo. Dunque, Seconda guerra mondiale, occupazione e annessione dell’Estonia da parte dell’Unione Sovietica, purghe staliniane, Chernobyl, dissolvimento dell’impero sovietico, neoschiavismo. Romanzo storico perché i destini individuali di cui si narra sono strettamente connessi, se non addirittura determinati, a quelli dei popoli e delle nazioni; romanzo storico perché la cura documentaria, benché non ostentata, è di primissimo ordine.
La prospettiva assunta dall’autrice è igienicamente e consapevolmente faziosa, è la prospettiva di genere: la Storia, per lo più determinata da uomini autoritari o imbecilli o violenti (spesso tutt’e tre le cose insieme), sconvolge la vita delle donne e passa, come un cingolato, sopra il loro corpo.
L’apparentemente casuale arrivo della giovane Zara, derelitta e allo stremo delle forze, nel cortile dell’anziana e sola Aliide in un paesino semi abbandonato dell’Estonia nel 1992, è gradatamente spiegato al lettore grazie a brani narrativi autonomi. Il presente narrativo, l’intreccio di solidarietà umana, diffidenza e ostilità tra le due donne, ha origine nel passato di entrambe: per Aliide si tratta di drammatiche vicende di torture, di deportazioni familiari, di non innocente e doloroso adeguamento alla nuova realtà storica in nome di un amore impossibile; per Zara si tratta dell’illusorio e sbrilluccicante benessere occidentale che l’ha condotta nelle mani dei nuovi schiavisti. L’autrice rinuncia alla linearità cronologica, sovrapponendo tempi e luoghi in rapidi frammenti che lentamente prendono ad incastrarsi tra loro chiarendosi l’un l’altro. È una formula narrativa che avvince il lettore, la si potrebbe considerare quasi una malizia da intrattenimento, se non rispondesse anche ad una profonda esigenza ideologica e artistica: ogni superficie – il presente, il luogo attuale, il destino individuale, il mondo visibile – nasconde e al contempo è determinato da un sottomondo misterioso, minaccioso, buio, brulicante, fatto di rumori, grida, squittii, fruscii. La scrittura deve coraggiosamente attraversa questo sottomondo, deve decifrare i segnali che emette, deve portare alla coscienza della comunicazione ciò che si presenta in forma non cosciente e non verbale.
Ad eccezione di alcune pagine di diario inframmezzate alla narrazione e di alcuni rapporti della polizia segreta nelle pagine finali, l’uno e gli altri redatti da uomini, letterariamente rozzi e anodini, il romanzo è formalmente narrato in terza persona, ma in realtà affida tutta la sua elaborazione letteraria all’indiretto libero delle due protagoniste; al narratore in terza persona non resta che posizionarsi alle spalle delle due protagoniste, appunto in quel mondo dell’invisibile che determina il visibile, per contestualizzare e incastrare nell’intreccio i frammenti narrativi, attingendo così, per via dell’effetto di sfasatura, quella profondità che la rinuncia all’analisi psicologica poteva far mancare. Nel maneggiare l’indiretto libero Sofi Oksanen mostra un virtuosismo stilistico che in alcuni brani – da antologia – ha del prodigioso.

Come si sa, è nella corrispondenza, nell’analogia e nella coerenza tra microstruttura e macrostruttura che si rivela, più che altrove, la qualità letteraria di un testo, la sua necessità, la sua “cosa” da dire. E su questo piano la scrittrice finlandese si rivela ben all’altezza della sfida, inducendo il dolce pensiero che sarà lei uno dei personaggi su cui puntare per il futuro (raramente si chiude un romanzo di 400 pagine già pensando a quanto sarà bello il prossimo). Solo due esempi. 1. Ogni brano narrativo è introdotto dalla data e dal luogo riferiti al quel brano e da un sibillino (tanto da apparire incongruo) titoletto in corsivo. Se la data e il luogo sono la Storia e la Geografia, quel titoletto, desunto quasi a caso dal brano, è la vicenda individuale, il sottomondo rispetto alla storia e alla geografia ufficiali: ricostruire i rapporti tortuosi, spesso invisibili, minacciosi e dolorosi tra il tempo e lo spazio storico e la vita individuale è la funzione di svelamento della scrittura (la letteratura ha una funzione specifica!). 2. Sono molto frequenti serie di questo tipo: “La manica della camicia si staccò, la sedia cadde per terra, il tavolo si rovesciò” (pag. 200); oppure “Le tende sbattevano forte, i ganci tintinnavano, la tela sbatacchiava fragorosamente” (pag. 333). Gli oggetti sembrano muoversi da sé, quasi a voler frangere la linea di demarcazione tra organico e inorganico, alla stessa maniera tutto il romanzo è teso a rompere l’assedio, fatto di oppressione e soffocamento, del passato sul presente, del mondo invisibile sul visibile, del non verbale e del non umano sulla comunicazione e sull’umano, dell’uomo sulla vita e sul corpo delle donne.
Paolo Mantioni
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Anche Luisa ha recensito La purga: clicca qui per leggere la recensione

Michael Moore, Stupid White Men

Stupid white man
di Michael Moore
Mondadori, 2003

Traduzione di Brugnatelli E. e Colombo M.
€ 14.00
pp. 305

Per maggiori informazioni, il sito dell'autore: www.michaelmoore.com

Michael Moore premio Oscar nel 2003 con "Bowling a Columbine" racconta con sapiente ironia in questo libro il periodo del governo Bush con i suoi imbrogli e il suo spirito guerrafondaio.
Questo libro è un interessante documentario sul governo americano precedente all'attuale che ci aiuta a comprendere qual'è l'America ereditata da Obama e quali speranze possono essere riposte nell'attuale amministrazione degli Stati Uniti.
D'altronde nei mitici States sempre guardati come simbolo del progresso, già prima di parlare dell'attuale crisi economica, "analfabetismo, miseria, corruzione politica, alcolismo e inquinamento" vengono citati in queste pagine come alcuni dei mali che, all'epoca della pubblicazione del libro cioè pochi anni fa, minavano alla base la più grande democrazia del mondo (dopo l'India).

Attualmente alcune conquiste di civiltà e democrazia che appartengono alla vecchia Europa non sono patrimonio degli Stati Uniti.
Obama si è presentato alle elezioni promettendo una riforma della sanità che non è accessibile come in Italia ed in diversi Stati americani vengono ancora eseguite condanne a morte.
Il primato di esecuzioni capitali spetta ancora al Texas, dove prima di diventare presidente degli Stati Uniti, è stato governatore lo stesso Bush.
Molto interessante a riguardo è proprio il capitolo che parla della detenzione, dove uno dei racconti più impressionanti è l'alta percentuale di errori giudiziari e un altro dato che lo è altrettanto, è l'alta presenza rispetto all'intera popolazione carceraria, di cittadini provenienti dalle comunità nera e ispanica.
Inoltre la pena di morte costituisce una vera e propria ingiustizia sociale in quanto, nel sondaggio che qui viene citato, tra gli intervistati,
"il 65 percento si è detto convinto che, a parità di reato,per una persona povera sia più facile essere condannata a morte di quanto non lo sia per una di reddito medio o superiore alla media".
Soprattutto tutto il mondo non può dimenticare che proprio nel 2003 durante il primo mandato di Bush è scoppiata la guerra in Iraq, un pantano di morte e violenze dal quale ancora ai giorni nostri sembra non sia facile uscire fuori.
Ancora oggi il pericolo delle minoranze cristiane in Iraq, come purtroppo in altre terre del mondo arabo come il Pakistan, dopo i recenti attentati è un allarme che il mondo intero non può ignorare.
Ma l'elezione di Obama è stato il segnale che anche gli americani stessi hanno chiesto una svolta degli Stati Uniti nella propria politica e per il bene del mondo intero che, nonostante i vari provincialismi, è destinato a diventare sempre più globale, ci si augura un cambiamento della politica estera fino ad oggi adottata per raggiungere il bene più prezioso per l'umanità che è la pace.

Lucia Salvati

Epica minore e storia nei versi di Andrea Italiano

Guerra alla tonnara
Andrea Italiano
Giuliano Ladofi Editore, Novara 2011

pp. 74
€ 12

L’esordio di Andrea Italiano è singolare se confrontato alle esperienze di poeti più o meno coetanei (mi riferisco alla generazione nata a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta) e già piuttosto affermati. Se questi ultimi spesso oscillano tra un narrativismo autobiografico attento al reale, e spinte astratte o immaginifiche, Andrea si pone dall’inizio, e con naturalezza, nel solco di una narrazione corale: per intenderci, in quel genere epico che negli ultimi secoli è stato in qualche modo sostituito o riassorbito dal romanzo.
Non è quindi un caso che i suoi modelli, o meglio i suoi predecessori, vadano cercati nell’ambito della narrativa (nella prefazione Giulio Greco cita, a ragione, i Malavoglia del conterraneo Verga), piuttosto che in quelli della nostra – a volte paralizzante – tradizione poetica.
La prima conseguenza è psicologica, ancora prima che stilistica: se è vero che manca un fitto dialogo – che è sempre anzitutto formale – con i poeti del novecento, è altrettanto vero che viene saltata a piè pari quella che Harold Bloom chiama l’angoscia dell’influenza, così come tutta l’arcinota (per gli addetti ai lavori) vicenda dell’io poetico. Andrea nasce cioè al riparo dai rischi autistici e dai vezzi narcisistici che corre la maggior parte dei poeti – riflesso della mancanza di riferimenti e dell’aver perso i ponti con la Storia, nel sincronismo della condizione postmoderna.
Qui invece non c’è individualità intesa nel senso di separatezza, in quanto il poeta si riconosce totalmente nella comunità dei quaddarioti, gli abitanti della sua Calderà (in provincia di Messina), ricostruendo con grande empatia la drammatica emergenza alimentare che vissero come “effetto collaterale” della seconda guerra mondiale. 

Questo è il perno del poemetto eponimo Guerra alla tonnara, che costituisce la prima, e più ampia, sezione del libro. Se il suo stile è scarno – a tratti persino diluito, non esente da cadute espressive, in parte insite nella stessa scelta dell’epica, che privilegia l’esposizione all’ornatus – la sua architettura è rigorosamente concepita. Infatti, dopo una “notizia” in prosa e una poesia introduttiva, viene ripetuto sei volte questo schema: 1. testo breve in prosa, di carattere storico-didascalico; 2. serie di testi narrativi in versi, da un minimo di tre a un massimo di cinque sezioni; 3. testo corsivato in versi, di carattere più riflessivo e riassuntivo (alcuni dei quali, a mio parere, tra gli esiti più alti del libro). La progressione è cronologica, e va dal 10 giugno 1940 al 5 maggio 1945: gli estremi della partecipazione dell’Italia alla guerra, e della fine della stessa.
Andrea intreccia abilmente, proprio come le reti delle tonnare, caccia al tonno e guerra dell’uomo: dopotutto, la prima è già di per sé una vera e propria guerra, sia per la mattanza (si veda il bel testo in limine, a tal proposito) sia per le strategie utilizzate per la cattura dei tonni (in un altro testo si legge che «la pesca al tonno / fu inventata da Adamo o da Dio in persona / tanto è perfetta, razionale matematica. / Se uno ci pensa gli viene da impazzire»); la seconda invece, assai meno nobile e più barbara, ha messo fine alla prima, privando la comunità della sua principale fonte di sostentamento, nonché d’identità.
L’assumere così totalmente il punto di vista dei quaddarioti porta a un revisionismo della liberazione degli alleati in Sicilia, e a un pessimismo che non risparmia vincitori né vinti («Quei figli di puttana dei liberatori / (ma chi non deve in qualche modo ringraziarli? / ti potevano sorprendere ovunque, / persino al cesso persino al centro città / con le buste della spesa in mano»; ma si veda anche l’affondo sui tedeschi che, paragonati ai turchi e ai marocchini «picchiavano, strillavano come i senzadio, / si dedicavano di continuo alle rapine per fame»). 

Questa posizione può sorprendere in tempi dalla facciata politically correct come i nostri, ma interpretarla in senso ideologico sarebbe fuorviante: si tratta infatti di un sentimento viscerale, esasperato dalla fame e dalla rabbia, di cui il poeta si fa portavoce, ritraendo personaggi locali o accostandovisi, come Franciscu Monucu (Francesco Stagno), guardiano di garitta delle tonnare e padre di Marina Stagno, nonna dell’autore e sguardo privilegiato attraverso cui rivivere gli eventi. La stessa univocità non va dunque giudicata come insufficienza nel creare una poetica e perfino un “discorso sul mondo”, ma va spiegata nei limiti autoimposti della sparizione del poeta nei protagonisti dei suoi testi; comune all’uno e agli altri resta, comunque, l’acceso, risentito pessimismo storico ed esistenziale: il quale diviene evidente quando l’autore passa, nelle due sezioni successive, dalla narrazione del passato ai magri bilanci del presente, dall’epica alla lirica; dove insomma è lui il centro conoscitivo, sia pur sempre diretto a ciò che lo circonda.
Qui lo stile si fa più sentenzioso, più sorvegliato, restando costantemente all’insegna della chiarezza e dell’immediatezza. In entrambe le sezioni (complementari già dai titoli: «Nel deserto» e «Una pianta rara», emblemi del vuoto contemporaneo e di una possibilità sia pur fioca di riscatto), c’è un uso scoperto dell’allegoria, come in «Il mondo, la crepa» e l’importante «Allegoria di un restauro». 

Se escludiamo l’apertura alla speranza dell’ultima lirica, «Una pianta rara», eponima dell’ultima sezione («sui brandelli sparsi di una civiltà senza testa / è ritornata l’erba / i fiori gialli e viola del rimedio») il pessimismo è davvero insistito. Pochi accenni: «sulla strada ho sentito uomini e cose / soffrire disperatamente: / il nostro è lamento di uno solo»; «E chi più sente soffre, / chi più scende nel profondo / peggio è per lui». Addirittura, viene rovesciato il simbolo positivo di un pessimista come Leopardi nella poesia eloquentemente intitolata «La ginestra» (fortissimo l’incipit: «con un mazzo di ginestre fare un cappio»); tuttavia, come per contrappasso, alla solitudine del recanatese si oppone la partecipazione del poeta, come nella bella «Pioggia di giugno», che sembra rovesciare la situazione de «Il passero solitario».
Altre volte il rilievo negativo rimane un po’ in superficie, sui generis, limitato dalla fretta di essere detto («Ci trovi l’origine di un mondo (il nostro) / nato cattivo e bugiardo»), oppure persiste una connotazione perentoria e idealizzata, sia pure al negativo, della figura del poeta («Perché un poeta non è mai felice / Un poeta non è mai solo»): indici di una ingenuità che qua e là fa capolino in quello che ritengo comunque un esordio consapevole, sopra la media e, soprattutto, dalle grandi potenzialità future.
Queste ultime si intravedono nella corposa sostanza di base, che avrebbe forse bisogno di essere maggiormente “problematizzata” e sfumata in una visione più articolata, meno manichea, magari limando anche il verso – la cui tenuta ritmica è già notevole – per alzarne la temperatura espressiva, certo senza tradire uno dei pilastri e dei punti di forza di questa giovane poesia: l’imperativo della comunicabilità a pieno raggio delle proprie convinzioni e della propria e altrui esperienza.

Davide Castiglione

Ematite di Chiara Mazzera


Ematite
di Chiara Mazzera
Serra Tarantola, 2010

€ 14.00


Ematite è un romanzo della scrittrice emergente Chiara Mazzera. Il titolo si riferisce ad una pietra, l'ematite appunto, il cui nero intenso si riflette negli occhi di Naran, una misteriosa ragazza che viene dalla Mongolia. Paolo, uno studente di Bergamo, incontra l'affascinante Naran in un'aula universitaria. E, all'improvviso, tutto cambia. O meglio, tutto deve cambiare, perchè questo incontro solo in apparenza casuale è in realtà frutto di un destino che unisce nel profondo i due giovani.
Ben presto, Paolo viene a sapere che Naran è dotata di poteri particolari e che è a conoscenza di un segreto molto importante che riguarda la tomba di Gengis Khan, del cui tesoro si vuole impadronire un paleontologo senza scrupoli, che per riuscire nel suo intento si avvale dell'aiuto di uno sciamano nero, ossia di un sacerdote asservito agli spiriti del Male. I due si mettono sulle tracce di Naran, arrivando a rapirla e a torturarla per costringerla a rivelare il luogo segreto. Paolo, che dopo una breve crisi iniziale ha capito di non poter fare a meno della ragazza e sente di essere disposto a tutto per aiutarla, è pronto a rischiare la vita per la donna che ama e parte alla volta della Mongolia accompagnato da Altan, il fratello di Naran.
Dopo una serie di avventurose peripezie, i due innamorati riescono a riunirsi; nel frattempo entrambi hanno acquisito una nuova consapevolezza: ora sanno che le loro vite sono legate a filo doppio, che le loro anime si appartengono da sempre. La battaglia contro il Male sembra essersi conclusa, ma il finale aperto del romanzo sembra suggerire nuove sfide.

La lettura di Ematite, oltre ad evocare alla mia mente immagini suggestive di verdi paesaggi incontaminati come quelli descritti dall'autrice, mi ha fatto pensare ai manga giapponesi, e, più in generale, ai fumetti: la trama sarebbe perfetta per la sceneggiatura di un avventuroso cartoon o anime, anche grazie alla caratterizzazione a "tutto tondo" dei personaggi. Infatti non ci sono mezze misure: i protagonisti sono totalmente buoni e positivi oppure interamente negativi e malvagi.

Le caratteristiche dello schema narrativo, che ricorda quello delle fiabe, rendono quindi a mio parere Ematite molto adatto a una trasposizione fumettistica. C'è la bella protagonista in pericolo, c'è il giovane eroe innamorato e disposto a tutto per salvarla, ci sono i cattivi di turno, spietati e alleati con gli spiriti del Male. C'è la figura ausiliatrice, rappresentata dalla nonna di Naran, Odon, la quale usa i suoi poteri sciamanici per fare del bene e per aiutare i nostri eroi nella loro impresa. C'è il segno di riconoscimento, la famosa "macchia mongolica" che segna il destino fin dalla nascita. C'è la lotta di Paolo, di Altan e dei giovani valorosi che partecipano alla battaglia contro i malvagi. Il passo in cui il protagonista del romanzo affronta lo sciamano ricorda le imprese di un eroe dei fumetti che si batte con il suo crudele antagonista. E' l'eterna guerra del Bene contro il Male, uno scontro destinato a ripetersi all'infinito, come sembra suggerire l'autrice lasciando tutto in sospeso, si potrebbe dire rimandando il seguito "alla prossima puntata".

Spero che l'avventura di Paolo e Naran non si concluda qui, perchè sarei ben lieta di continuare quella che è stata, nel complesso, una gradevole lettura e di tuffarmi di nuovo nelle atmosfere di questa particolare "favola moderna", sognando, da appassionata del genere, di vederla magari un giorno rappresentata in forma di avvincente cartoon.

Irene Pazzaglia

Epica e cantori nell'era del web: i Wu Ming

Invito alla lettura: 
i Wu Ming

Un tempo c’erano gli aedi, cantori che tramandavano oralmente le vicende epiche da una generazione all’altra basandosi sull’utilizzo di formule mnemoniche. Intessevano un canto che per secoli il popolo avrebbe ricordato e trasformato a sua volta. Oggi ci sono i Wu Ming. Accostamento paradossale, senza dubbio. Ma – mutatis mutandis – potremmo dire che è così.
Quattro scrittori, ognuno porta un numero di riconoscimento. Non si presentano come individui ma come gruppo perché ciò è funzionale alla loro idea di letteratura. È una sorta di laboratorio di scrittura potenziale: si scambiano idee, testi, li correggono e li riscrivono a vicenda. Ciò che ne deriva è l’opera collettiva in cui non ha importanza distinguere ciò che si è scritto personalmente nell’insieme di un prodotto artistico finito. Sono gli autori di uno dei più famosi romanzi collettivi contemporanei: Q (firmato da un certo Luther Blisset, pseudonimo che indica il gruppo). Ad esso sono seguiti altri testi del genere: 54, Manituana, Altai
Hanno dato anche importanti contributi alla definizione di letteratura contemporanea con alcuni saggi tra cui il famoso New Italian Epic, in cui hanno teorizzato la nascita di un 
“nuovo romanzo epico italiano”. 
Provocazione sì, ma anche “lucido tentativo di sistemazione teorico letteraria”, come lo ha definito Asor Rosa.
I Wu Ming hanno fatto delle scelte ben precise: rinunciando all’immagine personale, al divismo dell’autore, hanno posto l’attenzione esclusivamente su un progetto di scrittura nuovo, comunitario nel senso primitivo del termine, che esplori strade mai percorse prima e che si serva, allo stesso tempo del più imponente mezzo di comunicazione della nostra epoca: il web. Arcaico e primitivo sono complementari e compresenti.

Sono sempre presenti sulla rete, tutti i loro testi si trovano sul loro sito/blog Giap e sono scaricabili gratuitamente (che affronto per il mercato!). Conducono un’attività frenetica: intrecciano un dialogo inesausto con altri scrittori, artisti. Commentano i testi altrui e fanno dichiarazioni di poetica. Ma più di tutto sono in perenne contatto con i lettori che scrivono loro e pongono domande sugli argomenti più disparati. E rispondono sempre. Viene a cadere quella rigida separazione artista divo-creatore e lettore adorante-passivo a favore di un rete unica di comunicazione. Non li vedremo in tv o in posa su un rivista patinata eppure presentano i loro volumi, vanno in giro per le università e i giovani sanno che li possono trovare con un semplice click e che dall’altro lato del computer non c’è un addetto stampa che risponde al posto loro.
Letteratura e mondo esterno, letterario ed extraletterario in dialettica costante. È questa l’essenza dell’universo postmoderno: non ha più senso che l’uomo di lettere si richiuda in una torre d’avorio perché la letteratura è diventata anche attualità, riciclo di materiale esistente, comunicazione massmediatica, strategia di marketing. E, per quanto doloroso, è anacronistico non volerlo vedere. 

Ma i Wu Ming sono interessanti davvero anche sotto il semplice profilo letterario – editoriale. Nel primo caso rappresentano un tentativo riuscito di dar vita a una scrittura ricorsiva, che si modifica costantemente, che non resta mai uguale a sé stessa. Dall’altro lato una nuova strategia di ingresso dei libri nel mercato: come in una corsa a ostacoli, si salta lo step della mediazione editoriale e si arriva al lettore. Così…semplicemente.
È un’idea di letteratura potente, un po’ azzardata forse ma che ha ritrovato una fiducia nella parola che negli anni ’90 sembrava essere perduta. Sicuramente essa spiazza la maggior parte del pubblico che si trova adesso di fronte a oggetti narrativi difficilmente identificabili che mescolano invenzione e realtà, realismo e astrazione. Il tutto nella profonda convinzione che il romanzo non ha cessato di esistere ma è un oggetto in divenire e un romanzo contemporaneo è ancora possibile. Certo non sarà più Madame Bovary o Anna Karenina ma può essere qualcosa di ugualmente interessante che solo il tempo ci aiuterà a valutare con la giusta ottica.
E inoltre, paradossalmente, la loro è anche una fiducia nella Storia, che resta un elemento fondante nel caos dei loro testi. Solo si tratta di una storia ibridata con elementi e generi diversi (dal fantasy, al gangster, al realismo grottesco fino ad arrivare alle inclinazioni etniche).
Un bel miscuglio? Una furba trovata? Lascio a voi giudicare. Nel frattempo, se fossi in voi, un giro sul loro blog lo farei.

Claudia Consoli

Il link al sito nuovo dei Wu Ming: http://www.wumingfoundation.com/index.htm

La carne quando è sola di Vera Lucia de Oliveira








La carne quando è sola
di Vera Lucia de Oliveira
Società Editrice Fiorentina, 2011

pp. 72
€ 10,00


se era perché tutto si disperdesse fra le cose
le parole dure gli occhi se era perché
l’amore fosse un muro e la casa una prigione
mi avresti dovuto avvertire mi avresti dovuto
dire che l’amore non poteva bastare.


La carne quando è sola è una raccolta di poesia della poetessa brasiliana, Vera Lucia de Oliveira. La carne quando è sola un vero libro "potente e intenso" che mescola due tradizioni culturali opposte: poesia del corpo, ma anche incontro-scontro con la vita, animata da una idea di un' oltre vita, intesa come contraddittorio e sfuggente. Viene posto l'accento sulla transitorietà del nostro paesaggio terreno come accadimento ineluttabile per tutte le creature, cosa che può dar luogo ad un'impellente infinito desiderio di ricerca di senso, che si esaurisce in piccole cose che annientano ogni forma di speranza. La luce si riflette sui corpi appartati, lontani dalla vita, dagli affetti, si tratta di una poesia che da voce all’anima delle cose. Una poesia spirituale, anche in assenza di Dio, di fede, una storia costituita da versi, grumi narrativi che delineano un mondo particolare fatto da luoghi, panorami, case e personaggi. Uomini, donne, anziani e bambini, descritti con le loro angosce paure, senza sapere di che pianeta o in che epoca fanno parte.

dalla finestra sentiva il rumore del vento
la vita nel ventre pulsava
i rami sul vetro come unghie
appuntite laceravano la luce
convocavano Dio, per vedere
la carne quando è sola

Individui diversi raccontano piccole storie dolorose che esprimono il male di vivere e lo riflettono in tutto quello che toccano.
La carne quando è sola trascina verso un tempo lontano, quello delle origini per poi rimbalzare nel presente. È una poesia potente e forte che da voce all’assenza e mescola la vita e la morte il vuoto e il corpo, dove il dolore guarda il mondo con occhi impregnati di odio parlando di se stesso.

Costanza Bucci
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Vera Lúcia de Oliveira è nata in Brasile nel 1958, la madre è figlia di immigrati italiani. L'esordio poetico risale al 1983, lo stesso anno in cui vince una borsa di studio per l'Italia e si trasferisce a Perugia, dove tutt'ora vive, pur essendo ricercatrice di Letteratura Portoghese e Brasiliana presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell'Università di Lecce. Scrive (e traduce) sia in portoghese che in italiano. Tra i tanti riconoscimenti è da segnalare almeno il Premio di Poesia dell'Accademia Brasiliana di Lettere e quello, più recente (giugno 2006), del Ministero dell'Educazione del Brasile con il libro inedito Entre as junturas dos ossos, che sarà pubblicato in 300.000 esemplari e distribuito in tutto il paese.