La forza della Guinea: L’isola sotto il mare.



  

L'isola sotto il mare

di Isabel Allende
Feltrinelli, 2009 
           
€ 19,50





Balla Tetè, Zaritè Sedella, al ritmo incontenibile dei tamburi ardenti , trascinata dalla musica che è vento distruttore di paure nell’attimo di danza in cui muove le sue morbide natiche; scuote la terra scura : tamburi, più in basso, tamburi, le gambe  leggere, ancora tamburi: l’isola sotto il mare.
1770, Saint- Domingue (oggi Haiti), piantagione di Saint Lazare:una schiava si racconta senza rabbia ma con sdegno , tra ribellioni, abusi , violenze, sudore e zanzare ,zucchero e rum fatto di zucchero e zucchero aggravante dei fianchi pomposi delle donne  Grand blanc ; e ancora canneti infiniti come labirinti infuocati di gente che gente non è .
"Aspetta, Tété. Vediamo se ci aiuti a risolvere un dubbio. Il dottor Parmentier sostiene che i neri siano umani quanto i bianchi e io dico il contrario. Tu che ne pensi?”  le domandò Valmorain(…).Lei rimase muta, con gli occhi rivolti a terra e le mani giunte.
“Forza, Teté, rispondi senza timore. Sto aspettando …”
“Il padrone ha sempre ragione” mormorò lei in conclusione.
“In altre parole, pensi che i neri non siano completamente umani …”
 “Un essere che non è umano non ha opinioni, padrone.”
La giustezza del padrone è la giustezza dell’uomo bianco, non  lo si può guardare negli occhi ma si può essere carne per le sue voglie; Valmorain credeva di esser un uomo benevolo con i suoi schiavi, non li mandava di notte tra i canneti a lasciare che li sbranassero i cani, aboliva la responsabilità con la negazione dell’atto, affidava i comandi a Prosper Cambray, l’insaziabile guardiano di schiavi.
Tetè ha nove anni quando viene comprata da Toulouse valmorain, il giovane venuto dalla Francia con l’intento di ritornarci presto, la piccola “schiava per ogni servizio”si occuperà dei lavori di casa, della moglie malata e di suo figlio Maurice; nel mentre altri  schiavi continuano a fuggire, oltre le piantagioni, verso le montagne, pochi raggiungono i neri ribelli altri vengono raccolti dalla gran folla di uomini nudi che scende a bruciare le prigioni di canne e padroni. Tetè conquista la sua libertà salvando Valmorain e Maurice dagli insorti, ottiene una dichiarazione per lei e sua figlia Rosette(la splendida mulatta nata da una della ripetute violenze del signore), la conserva sull’assennato petto ma non può goderne, non può essere ancora libera. Come si sarebbe guadagnata da vivere? Certo era un’ottima infermiera  e anche una bambinaia prodiga, ma chi avrebbe retribuito il lavoro di una nera? E  la sua bambina? Era così desiderabile …               
Doveva restare, doveva proteggere Rosette!                                        
È tanto indispensabile credere in qualcosa, ma è così pericoloso; si crea la rappresentazione immaginifica del manufatto e poi si assapora la sua essenza senza conoscerne l’esistenza, così come la percezione degli spruzzi di un’onda che accendono ma non accontentano.
Dopo l’incendio nella piantagione , l’autrice sposta la vicenda prima a Le Cap e poi in Louisiana, intessendola di continui rimandi politico sociali:dalla ribellione degli schiavi d’America fino alla storia napoleonica. L’Allende plasma un personaggio coscienzioso e intenso con un deciso realismo della narrazione e una penetrante intensità delle sensazioni, mescolando personaggi e credenze, medicina e vudù, nobili  e cocottes, rivoluzioni  e bandiere spagnole-francesi- americane, pirati e coloni, bianchi e affranchis, crèoles  e  français.
Zaritè Sedella perse la paura della Libertà, fu libera quando potè esserlo, ma non perse mai la paura dei Bianchi. Qualsiasi uomo dalle pelle scura, affrancato o meno, rimaneva schiavo della civiltà;nessun documento l’avrebbe salvato dalla torva giustizia , essa lasciava morire calche di uomini neri in prigioni malsane per anni,  e per quale reato?
Le donne nere non possono portare gioielli in pubblico.

Balla, balla, Zaritè, perché lo schiavo che balla è libero … finchè balla.

Isabella Corrado

Yukio Mishima "La neve di primavera"




La neve di primavera
di Yukio Mishima
Feltrinelli, Milano 2009
1^ edizione: 1968
320 pp.
€ 9,00


Primo romanzo della "quadrilogia della fertilità", Neve di primavera rappresenta, secondo alcune opinioni, il lavoro più maturo e ricercato dello scrittore giapponese, di così fondamentale importanza sia nella letteratura locale, che in quella mondiale. Per certi versi, ho sempre trovato Mishima il "D'Annunzio giapponese", con la differenza che almeno per il mio gusto personale, Mishima è più interessante.

In Neve di primavera, lo scrittore-samurai riesce a dipingere e cesellare le molteplici sfaccettature dell'anima, come se si avvalesse dell'uso di uno di quei sottilissimi pennelli con i quali in antichità venivano dipinti gli ideogrammi. Raffinatezza, cura dell'estetica, introspezione, spiritualità e ritualistica attenzione al dettaglio: sono queste le caratteristiche che emergono dalla scrittura di Mishima, e che fanno sentire in ogni momento il lettore come davanti ad un antico rituale giapponese, dove ogni riga equivale a un gesto, una formula, un passaggio di un rito, eseguito con la massima attenzione e devozione.

La trama è la seguente: siamo nel Giappone del primo '900. Kiyoaki e Honda sono due giovani di diciannove anni, diversissimi anche se amici per la pelle. Infatti mentre Honda è intellettuale e razionale, Kyoaki è dominato dalle passioni, e agisce spesso per istinto.Consapevole di essere molto bello, non riesce ad andare oltre l'amore per sé stesso, e per paura di essere sconfitto dai sentimenti, si fa scudo dietro l'indifferenza per gli altri. L'unica persona che riuscirà ad oltrepassare le sue difese, causandogli un grande turbamento interiore, sarà Satoko, la sua amica d'infanzia.

Un romanzo che mescola sapientemente la storia d'amore con un'analisi introspettiva dell'animo umano. Mishima scrive in maniera tale da dipingere le scene, comunica mediante una quintessenza spirituale che emerge da ogni riga del libro, invitando chi legge a non fermarsi alla descrizione o alla scena, ma a cercare di cogliere quel momento di congiunzione tra arte e spirito, che egli cerca di raggiungere mediante la sua letteratura. Un capolavoro, da leggere e da percepire con attenzione.

Giuseppe Novella

RICHARDSON 2.0



Clarissa
di Samuel Richardson
Frassinelli - 15,00€


Lettere su Clarissa
di Samuel Richardson
introduzione, traduzione e note di Donatella Montini
Sette Città - 16,00€


Nel 1741 vede la luce in Inghilterra un romanzo epistolare che ha subito un grande successo: Pamela. Romanzo stampato, curato, pensato, voluto e scritto da Samuel Richardson. Ebbe talmente tanto successo che ne seguì un sequel (come per le nostre serie televisive) anche a ragione di evitare che qualcun altro, astuto e poco avveduto, si prendesse la briga di mettere in circolazione altri volumi, come accadeva all’epoca, con gli stessi personaggi e gli stessi nomi, avendo così un prodotto di facile promozione. Il problema per Richardson era certo di carattere economico e comunque non avrebbe gradito vedere i suoi personaggi, magari anche approssimativi e sviliti, circolare per le pagine di volumi che non era stato lui a scrivere, a visionare, né a stampare. Ma chi era Samuel Richardson? A self-made man, uno che si è fatto da solo.
Nel 1706 il padre non può più mantenerlo agli studi (e qui capiamo che non era una famiglia dalle grandi disponibilità) e lui se ne va a fare l’apprendista stampatore. Lavora sodo, passa il tempo libero a leggere e ad intrattenere rapporti epistolari con chi ne sa di più di lui, della vita ed anche della scrittura. Nel 1721 Richardson chiede la mano della figlia del suo capo e si prepara ad avviare un’attività tutta sua, un qualcosa tipo quello che noi oggi chiamiamo “agenzia letteraria e servizi editoriali”. È competente e veloce nel lavoro e in molti lo cercano. Insomma, una vita dedicata al lavoro e alla famiglia e nel tempo libero legge e scrive.
L’idea di Pamela viene da due librai che gli consigliano (sono i librai che consigliano) di scrivere qualcosa, in forma di lettere, in uno stile quotidiano, ad uso ed utilità degli abitanti della campagna. Richardson non solo accoglie il progetto e si mette al lavoro, ma stravolge l’idea e si dà fini più alti: perché non educare? Perché non istruire su come pensare ed agire in determinati casi? E così nasce uno dei più grandi successi editoriali del ‘700 inglese, il primo tra i romanzi epistolari moderni, un romanzo nel quale la tensione narrativa non è data dal racconto di ciò che è avvenuto, ma dallo stesso verificarsi del racconto. Tanto che il tempo della narrazione può coincidere con il tempo del narrato: scrivo del mio dolore mentre provo dolore, scrivo che ho paura mentre ho paura, racconto delle lacrime versate mentre il foglio di carta si sta bagnando. Oppure si può raccontare di qualcosa che è da poco accaduto, cogliendo le sfumature linguistiche e caratteriali che un dato fatto può determinare in una persona, oppure le proprie speranze, pensieri e desideri: è il presente in cui si scrive, il tempo intorno al quale tutto ruota. Una sorta di diario, si potrebbe dire, ma non è così. Perché nel romanzo epistolare, quello di Richardson e degli altri che si sono cimentati, il rapporto è a più voci: c’è chi scrive e c’è chi risponde. Chi scrive lo fa per essere letto e letto da una precisa persona, ha quindi degli intenti, dei fini, che sia lo stesso desiderio di raccontare un fatto o condividere un sentimento. Queste lettere possono poi essere lette da qualcun altro, bruciate, rubate, rispedite al mittente… (provate a leggere Les liaisons dangereuses).
Questo è il Richardson autore, ma ricordiamo che è stato anche editore e stampatore. Innovatore linguistico (tanto da essere citato nel dizionario di Johnson) fa largo uso nei suoi romanzi, soprattutto Clarissa, di punteggiatura e segni tipografici (trattini, asterischi) per materializzare nella scrittura lo stato di shock dell’eroina dopo la violenza del suo Lovelace.
Insomma, Richardson prende un genere – il romanzo epistolare – che già era in uso e piaceva – Lettere portoghesi – lo modernizza sotto ogni aspetto, lo pensa per farne ricavare un insegnamento morale e lo rende coerente alla società inglese del suo tempo. Società illuminista, della borghesia che cresceva e guardava in alto, quella della familiar letter ovvero di quel gusto che la gente aveva di scriversi lettere anche per raccontarsi cosa stanno leggendo, cosa hanno fatto in giornata, di cosa ci si sta interessando…
Richardson, che a 13 anni scriveva epistole d’amore su commissione, conosceva bene lo strumento tanto che sarebbe interessante ripercorrere lo sviluppo della stesura dei suoi capolavori (Pamela 1740, Clarissa 1748, Sir Charles Grandison 1753) e delle vicende editoriali, passando attraverso quella fitta rete di relazioni epistolari (guarda caso) che Richardson teneva con i suoi lettori: medici, critici, grammatici, pastori. Donne, fameliche lettrici, a cui lui inviava copie dei suoi romanzi che non sono stati ancora pubblicati (i suddetti romanzi erano divisi in volumi che uscivano a distanza l’uno dall’altro) e queste avevano il diritto ed il dovere di fare appunti al lato non solo su ciò che reputavano buono, ma anche sui momenti poco riusciti, aspetti poco chiari, atteggiamenti che nella realtà, e dati certi personaggi, difficilmente si sarebbero verificati. E prontamente, lettrici e lettori in contatto con Richardson, lo facevano presente allo stesso, magari invitandolo a concentrasi di più su un aspetto che piace molto del personaggio e che poteva continuare a decretarne il successo. Richardson da queste chiacchierate per iscritto traeva linfa vitale per i suoi romanzi, materiale che non solo gli veniva dai consigli, ma anche dal modo di scrivere dei suoi corrispondenti analizzati magari come personaggi e solo dopo che anche lui si sia fatto personaggio a sua volta. Personaggio di un rapporto epistolare reale che si basa su un romanzo composto da lettere che hanno la pretesa di essere lette come verosimili, romanzo di cui lui è l’autore, e pertanto si trova a scrivere lettere come se fosse ora Clarissa alla sua confidente Anna, ora Lovelace al suo confidente Belford, ora Pamela ai suoi genitori…
C’è un bel libriccino (S. Richardson, Lettere su Clarissa, a cura di D. Montini, Viterbo, Sette Città, 2009) curato da Donatella Montini che ci offre, in testo originale e tradotto, alcune di queste lettere (raccolta Carroll) che Richardson inviava ai suoi corrispondenti, felice di ricevere consigli e pronto a far valere le proprie scelte. In più, la raccolta, contestualizza tale produzione romanzesca affiancata dalla corrispondenza nell’Inghilterra del ‘700 e ripercorre le vicende della pubblicazione della corrispondenza privata che per volere di Richardson è divenuta pubblica. 

Fabio Mercanti

All'arrembaggio con i corsari di Valerio Evangelisti

Tortuga
di Valerio Evangelisti
Mondadori, 2008

pp. 330
€ 9,50





Come di consueto Valerio Evangelisti non delude il lettore con “Tortuga”, il primo volume di una trilogia tutta dedicata alla pirateria.

Dimenticatevi dei parodistici Pirati dei Caraibi della Disney o della scanzonata ciurma di One Piece e preparatevi ad affrontare un romanzo nudo e crudo, che non si lascia contagiare dall'alone caricaturale e giocondo con cui siamo stati abituati a vedere i pirati al giorno d'oggi.

Siamo nel 1685 e mentre Re Luigi XIV ordina la fine della pirateria con la conseguente normalizzazione della Tortue (tradizionale covo dei filibustieri del mar dei Caraibi) un ex Gesuita portoghese, Rogério de Campos, viene catturato durante un arrembaggio dal capitano Lorencillo e arruolato a forza sul Neptune col grado di Nostromo.

Qui inizia l'avventura del portoghese che lo porterà a scoprire il mondo della filibusta. Un mondo spietato, sanguinario e privo di scrupoli, ma tuttavia ambiguo. I corsari seguono un codice preciso, tra loro si chiamano “Fratelli della Costa” e mostrano rispetto, se pur a modo loro, gli uni verso gli altri. Passato al servizio del cavaliere De Grammont, sul Le Hardi, Rogério parteciperà all'ultima spietata impresa dei pirati dei Caraibi: la presa sanguinosissima di Campeche, sulle coste messicane. In mezzo a tanta brutalità l'unico spiraglio di luce è l'amore dell'ex Gesuita per una schiava africana, su cui però anche il tetro De Grammont ha posato lo sguardo...

Tortuga è un romanzo dall'ambientazione tanto riuscita quanto accurata; Evangelisti non è di certo parco di dettagli, che contribuiscono a rendere la lettura un'esperienza indimenticabile. Ci troveremo così a respirare l'odore salmastro del mare, a provare sulla pelle gli schizzi delle onde, a scivolare sui ponti inondati di sangue, sentire l'ebbrezza del rhum e provare i piaceri delle prostitute della Tortuga, il tutto sempre circondati da una marmaglia di pirati dai tratti animaleschi e proprio per questo così umani.

Di certo in un'opera del genere non manca l'azione, sempre descritta in maniera avvincente ed esaltante, realistica e per tanto cruenta.

Pregevole l'utilizzo accurato della terminologia navale, gli ufficiali impartiscono ordini ben precisi all'equipaggio, e non poche volte il lettore, a meno che non sia esperto di tale terminologia, dovrà far ricorso a un buon dizionario per capire di preciso cosa accade sulle navi durante gli scontri per mare.

Assolutamente degna di nota e menzione è la risma di personaggi con cui avremo a che fare durante la lettura. Il protagonista, Rogério, sembra inizialmente uno spettatore in balia degli eventi, terrorizzato e attonito da ciò che accade intorno a lui, solo a lettura inoltrata capiremo la sua personalità tanto sfuggente da sembrare inesistente.

Diversamente, il capitano Laurens De Graaf, detto Lorencillo, è la rappresentazione del filibustiere tanto allegro e scanzonato quanto temibile e feroce, il suo modo di vestire e di parlare lo caratterizzano fin dalle prime pagine e i suoi modi di agire e pensare lo renderanno uno dei pochi personaggi positivi alla fine dell'opera.

Mentre chi fornisce delle succulente riflessioni filosofiche all'interno del romanzo è il medico di bordo del Neptune: Ravenau de Lussan. Personaggio dalla mente acuta e contorta, cinico e spietato, la sua visione della filibusta è chiara a partire dai primi capitoli, dove, durante una conversazione con Rogério, afferma:

Il Neptune è una sintesi brutale, e dunque vera, non ipocrita, di ciò che è il mondo nel suo assieme. Ciò vale, naturalmente, anche per il Mutine, per l'Intrépide e per la Tortuga tutta intera, come vedrete quando vi metterete piede. In questo senso, è un posto d'osservazione straordinario per chi voglia riflettere sulla condizione umana. Non so se riuscite a seguirmi...

Infine, il cavaliere De Grammont, tetro e cupo, coi suoi abiti neri e il volto scarno è forse il filibustiere più affascinante del romanzo. E' un capitano terribile, sprezzante nei confronti di Dio che è stato così ingiusto nella sua vita, ogni sua frase è accompagnata da irripetibili bestemmie, e, seppur torturato dalla gotta si sforza di mantenere un portamento dignitoso. Nei suoi occhi stanchi, il lettore troverà una saggezza e una bontà inaspettata.

Tortuga” in sintesi è un romanzo dove vengono narrati gli eventi che portano alla fine della pirateria, ma per gli amanti dell'avventura a bordo di vascelli che sventolano la Jolly Roger niente paura, Evangelisti ci ha già forniti del secondo volume della trilogia: “Veracruz” (Mondadori 2010) e programmato il terzo: “Cartagena” (di prossima pubblicazione) ed entrambi saranno dei prequel agli eventi narrati nel primo romanzo.

Quindi affilate la vostra sciabola e preparatevi all'arrembaggio, la lettura di “Tortuga” non sarà certo una delusione!


A. Dario Greco


Le stanze dell'amor furtivo, una carezza sensuale dall'India




Le stanze dell'amor furtivo.
Le cinquanta strofe del ladro

attribuite a Bilhana


in Poesia d'amore indiana

a cura di Giuliano Boccali e di Daniela Sagramoso Rossella


Letteratura universale Marsilio, 2002


Tanti anni fa, trovai per caso su una bancarella un volumetto intitolato Le stanze dell'amor furtivo. Il titolo mi colpì subito e acquistai il libro d'impulso. Un intero universo di poetica e raffinata sensualità mi si spalancò davanti.
Si tratta di una raccolta antichissima di poesie, attribuita al poeta indiano Bilhana (XI-XII secolo d. C.). Mi affascinò fortemente la leggenda che avvolge questa splendida serie di componimenti, secondo la quale il poeta, colpevole di avere una relazione segreta con la principessa, viene prima condannato a morte e poi assolto grazie alla commovente bellezza dei versi con i quali ricorda i momenti trascorsi insieme all'amata.

Insieme alle cinquanta strofe si alternano visioni colme di emozioni e traboccanti di sensualità, in cui trionfa lo splendore della giovane principessa. La bellezza di lei, sottile gazzella, fiore delicato, perla luminosa, è ancor più vivida nel ricordo, che diviene appassionato e struggente. La principessa, nel rimembrare nostalgico del poeta, è simile ad una dea avvolta da un alone di leggenda, ad una divinità venerata e adorata dal suo umile servo.
Oggi ancora, lei sorridente, chinata dal peso
del seno,
il collo abbagliante di fili di perle,
sul monte Màndara della passione del dio che ha
per armi i fiori
la mia amata ricordo insegna di boccioli radiosa
di luce.
Oggi ancora, lei, sciolti i nodi della chioma intrecciata,
ricaduta la ghirlanda, le labbra dolci d'un riso celeste
- collane di perle le baciano deliziose i seni alti,
ricolmi-
nel segreto, eccitati gli sguardi, ricordo.
Un erotismo delicato ma intenso trabocca dalle descrizioni degli incontri segreti d'amore.
Oggi ancora, lei che regge le briglie nella danza
selvaggia d'amore
rivedo, la figura snella sfinita dalla lunga separazione;
con il mio corpo circondandola mentre mi offre
i fianchi
tenendo gli occhi appena chiusi, certo davvero non
la lascio.
Oggi ancora, lei, vessillo al tempio di ebbrezza,
mentre accoglie dentro la bocca il petalo delle mie
labbra,
mentre circonda con le membra sfinite dal dio
senza corpo il mio corpo
immerso in lei, distesa sul letto dei giochi d'amore
ricordo.
L'amore - un amore fortemente sensuale - è un gioco da ricercare fino allo sfinimento, nell' intreccio di corpi che si fondono l'uno all'altro, nelle labbra dolci come il miele che si uniscono per assaporare fino in fondo l'estasi degli incontri, negli sguardi furtivi pieni di ardore e di attesa.
L'amore unisce, abbatte le barriere sociali, avvince gli amanti fino al punto di renderli una cosa sola, eppure deve rimanere segreto, deve essere vissuto furtivamente, al riparo degli sguardi e del giudizio altrui, che non lo ritiene lecito:
Oggi ancora, lei nell'amore, il corpo sfinito
di languidezza,
lo sciame dei capelli a riccioli caduti sulle guance
chiare,
le braccia flessuose tralci sospesi al mio collo
come per trattenere fra noi la colpa segreta…
ricordo.
L'amore è dolce come il miele, ma anche selvaggio e impetuoso come un combattimento. L'unione dei corpi assomiglia ad una lotta incalzante e sfiancante, le unghie graffiano e feriscono la carne:
Oggi ancora, la sua durezza incantevole ricordo
nella battaglia intrecciata dal gioco d'amore,
le mani, senza presa nel sollevarsi e abbassarsi
dei corpi annodati,
spruzzate dal sangue dei segni delle mie unghie
che premono sul suo corpo,
dei miei denti sulle sue labbra.
L'amore è fisico, passionale, carnale; eppure non esiste dolcezza e poesia maggiore del ricordo, colmo di nostalgica amarezza.
Oggi ancora, notte e giorno il mio cuore arde di pena:
il volto bello di luna al colmo della mia amata,
splendido del sale donde è vinto il gelsomino
dalla dolce essenza,
un'altra volta, per sempre, non lo vedrò più.
Tale è la potenza evocativa delle Stanze che si è travolti da un nugolo di sensazioni: tutti i sensi sono stimolati e coinvolti, sembra quasi di sentire il profumo del gelsomino, di accarezzare la veste preziosa della principessa, di vedere i suoi occhi neri risplendere su un volto che, con la sua luminosità, oscura la luna, di sentire il respiro affannoso dei due amanti, sottratto alla sua caducità e reso immortale da questi versi.

Irene Pazzaglia

Beatrice Talamo e la sua narrativa in punta di piedi

Io, Velocia
di Beatrice Talamo
Del Vecchio Editore, 2010

con una nota introduttiva di Dacia Maraini

pp. 136
€ 14.00

Ecco qui i racconti di Beatrice. Hanno la stessa brevità lieve e intensa dei quadri. Sono mini interventi ironici sui sensi scoscesi. Piccoli ritratti dall'aria distratta che graffiano nel profondo. Piccole azioni che si inseguono e muoiono nello spazio di un volo. (dalla Nota introduttiva di Dacia Maraini, p. 7)

Prova singolare, questa di Beatrice Talamo, ai più conosciuta come docente universitaria di Letteratura tedesca (presso l'Università di Lingue di Viterbo) e traduttrice. Ma accanto all'attività accademica, vi sono anche i disegni, i video d'arte, e la scrittura. Come rileva Dacia Maraini nella sua empatica Nota introduttiva, il confine tra quadro e scrittura è molto labile per Beatrice Talamo. Io, Velocia racchiude un piccolo mondo d'immagini, di non-eventi o, tuttalpiù, di eventi mancati: i testi, sempre molto brevi (al massimo di qualche pagina, più spesso occupano un breve rettangolo incorniciato dal margine bianco molto generoso), sperimentano una scrittura a tratti psicologica, a tratti decisamente impressionistica. 

Una grande liricità contraddistingue tutti i testi, forse definibili come "poemetti lirici" o "prose liriche", alternate a poesie e a numerose altre prove, che rivelano una deliberata commistione di generi. Tuttavia, si nota una costante: i toni pastello dominanti rivelano sfumature grigiastre di malinconia e nostalgia. Le donne protagoniste, perlopiù io-narranti, sono osservatrici del mondo, ma apatiche e in stallo, piene di sofferenza per la solitudine o per una parziale autoemarginazione. Colte in uno di questi momenti di assenza-osservazione, a volte un evento esterno smuove dall'immobilismo e dall'alienazione (o autoesclusione dalla vita): momenti minimi possono portare a prese di coscienza illuminanti. E non a caso sono epifanie improvvise a generare rivoluzioni minime, ma pur sempre rivoluzioni: bastano il cenno di una bambina o un evento naturale a dare un appiglio di speranza. E qui, solitamente, la narrazione si interrompe, lasciando il lettore sospeso: non sapremo mai se il cambiamento si realizzerà, o se la protagonista troverà la forza per reinventarsi. 

La consapevolezza letteraria dell'autrice porta poi a inserire numerose figure simboliche: così ci sono vere e proprie proiezioni al di fuori di sé, e spesso torna il tema (nonché la parola-chiave) del "saltimbanco", sia nell'accezione baudelairiana clawnesca, sia secondo la tradizione del Pierrot intristito. Inoltre, ricorre l'immagine della farfalla, emblema di libertà ma anche testimone della natura effimera dell'esistenza, nonché di un continuo sorvolare le esperienze, senza mai soffermarsi davvero. Ecco lo stralcio di Luna, in cui si svela l'origine del titolo:
Ma cosa dice quella strana farfalla che sembra fare il verso alle barche, che si scalda come gli innamorati al sole di Napoli? Che vola vicino ai gabbiani, instancabile? - Il suo nome. Ha corso talmente tanto nella sua vita che s'è trasformata in farfalla. Lei, Velocia. Antica compagna di fantasie stralunate, di notti d'angoscia e di albe irrequiete. Ambica di deliri e di passioni sconsiderate e morbose. Unica alternativa poetica sorta da un sogno, mille anni fa. Piccola farfalla veloce, Velocia. Riemersa d'improvviso senza che me n'accorgessi. Simbolica creatura femminile che, per salvarsi, per salvarmi, ha dovuto nascere e poi scomparire. Aspettando il giusto tempo perché fosse possibile vivere. E scrivere. Di lei, di me, del saltimbanco. (pp. 55-56)
Come si può notare, una prosa enigmatica, a tratti allusiva a un pregresso non esplicitato, a un contesto solo parcamente descritto. Si crea un'atmosfera onirica, e in questa dimensione ucronica non resta che lasciarsi trasportare. Sentimento del passato e delle occasioni mancate tempesta le prosette di insoddisfazione e desiderio di una svolta, ma anche di condivisibili rendez-vous: mai si saprà l'evoluzione degli eventi narrati; dunque, mai la conclusione segnerà un percorso compiuto.
Inoltre, i numerosi richiami interni all'opera assicurano non uno solo, ma molti fili rossi: seguirli non è sempre semplice e, per quanto sia affascinante il cammino, la scrittura a tratti si fa tanto privata - e quasi "terapeutica" - da escludere il lettore.
Dopo questa lettura di prosette, liriche, riflessioni e impressioni, viene da chiedersi cosa potrebbe fare Beatrice Talamo alle prese con un'opera d'ampio respiro, impreziosita dalla sua eleganza formale ma con il mordente e l'energia di una vera narrazione.

Gloria M. Ghioni

Una spirale di musica




Lucifer over London
di Antonello Cresti
Aereostella (2010)
 

pp. 269
€ 20,00


 
La mia recensione non può che essere diversa dalle altre che, sullo stesso testo, potreste trovare in rete. Per un semplicissimo fattore: come si evince dal sottotitolo, Lucifer over London è un libro che tratta di musica industrial, folk apocalittico e controculture radicali in Inghilterra, materia di cui io sono (rectius ero) assolutamente digiuna. Ma c’è di più: non amo e non ho mai amato questo genere musicale e la sua forma espressiva estrema, radicale, a volte sconfinante nell’occultismo o, addirittura, nel satanismo.

Certa, però, di avere dei pregiudizi in merito, ho comunque accettato di buon grado questa sfida, spinta dalla mia solita curiosità e dalla voglia di capirci qualcosa in più e, come forse prevedevo, è stata una sorpresa.

L’excursus storico presentato da Antonello Cresti, il racconto delle esperienze musicali e artistiche dell’Inghilterra a partire dagli anni ’70, il ritrovare tra le righe nomi a me noti come Battiato, Beatles, Led Zeppelin, riferimenti a compositori come Wagner, al pensiero di Thomas More o alla filosofia di Francis Bacon, mi hanno convinta che, dietro ad una genere a me così lontano, ci fosse una storia comunque complessa e interessante.

Ma la rivelazione più grande è stato proprio l’oggetto di questo lavoro: la musica. Antonello Cresti mi ha dato l’occasione di ascoltare album e gruppi che non sapevo nemmeno esistessero e di cui, in alcuni casi, ho anche apprezzato le interpretazioni: i Throbbing Gristle, per esempio, definiti come i “pionieri del movimento industrial”, gli stranissimi Penguin Cafe Orchestra o, ancora, i Bonzo Dog Doo-Dah Band con il loro prendersi gioco dei vari generi musicali.

Di certo da domani non inizierò ad ascoltare Current 93, Death in June, Sol Invictus o Coil ma avrò sicuramente un approccio più aperto, e giustamente critico, nei confronti di un genere musicale che non è solo eccesso e provocazione. Come ha ben evidenziato l’autore nel capitolo conclusivo di questo saggio, qui non si sta parlando dei personaggi attuali che sfruttando il trend giovanile per provocare e guadagnare. Stiamo parlando di un’intera cultura, della sperimentazione di nuovi canali per esternare il pensiero decadente, l’ossessione di un popolo per la crisi, la caduta, la fine.


…ma non deve sfuggire che la lezione specifica contenuta nella musica di questi artisti risiede altrove, ed è una lezione talmente atipica e profonda che non si esaurirà per ancora molti anni a venire. E con essa restano, ovviamente, tante brillanti intuizioni e tante sonorità prima sconosciute.
Continueranno a esistere musiche che sono veicolo di messaggi sociali ed esistenziali, ma le modalità utilizzate dalle personalità che abbiamo analizzato resteranno difficilmente imitabili e riproducibili e le loro visioni più profonde continueranno a ispirare le scene contro culturali.

Mi scuso con Antonello, che ho conosciuto di persona, se il mio commento non può andare oltre il semplice racconto del piacere di leggere. Non ho l’esperienza e le conoscenze specifiche per poter entrare nel merito di questo saggio. Posso solo dire che la semplicità di scrittura, il tono diretto e ben cadenzato e la grandissima mole di informazioni che aprono spiragli per nuove ricerche, hanno reso la lettura di questo libro un’esperienza estremamente interessante. Tra le parole scritte si può palpare la forte passione che c’è stata nell’affrontare la ricerca, lo studio e la stesura.
Di tutto questo ho avuto piena conferma quando ho incontrato Antonello, personaggio – così credo sia corretto definirlo – disponibile, simpatico e, soprattutto, eccentrico proprio come la Gran Bretagna di cui racconta.
Spero di averlo presto ospite per una bella intervista!

Silvia Surano

Il respiro sul marmo

Il respiro sul marmo (titolo originale Kvėpavimas į marmurįa)
Laura Sintija Černiauskaitė (trad. dal lituano di Guido Michelini e Birutė Žindžiūtė-Michelini)
Atmosphere Libri, gennaio 2011

pp. 159


Con Il respiro sul marmo Laura Sintija Černiauskaitė (Vilnius, 1976) ha vinto il premio dell’Unione Europea per la Letteratura 2009. Pubblicato nel 2009 in Lituania, ora il romanzo è riproposto in Italia da Atmosphere Libri: un’operazione degna di nota, perché vòlta alle letterature cosiddette “marginali” e alla qualità.
L’adozione di Ilja, un bambino di sei anni proveniente dall’orfanotrofio, è l’inizio dell’esplodere silenzioso dei rapporti, dell’incrinarsi fino alla rottura dei già fragili equilibri della giovane famiglia composta da Izabelė, dal suo compagno Liudas e dal figlio naturale Gailius, affetto da epilessia.
È questo il perno a partire dal quale l’autrice rappresenta – con una imagery simbolica ma dalla forte connotazione fisica – i mutamenti interiori ed esteriori dei protagonisti: mutamenti dei quali essi stessi sono attori e vittime, tanta è la passività irrazionale con cui vengono accettati (Izabelė), o l’acribia razionale con cui vengono ignorati (Liudas).
I pochi, brevi, spesso distratti dialoghi nella coppia e più in generale fra i protagonisti – fra i quali è anche Beatričė, direttrice dell’orfanotrofio e amica-rivale di Izabelė – riflettono un’incomunicabilità verbale che sposta la pregnanza psicologica dei personaggi sul piano del non-detto, dell’ossessione e dell’azione ingiustificata: dall’affaccendarsi di Liudas attorno alla sua Opel per nascondere a Izabelė (e a se stesso) la sua nuova relazione con Beatričė, alla precisione ossessiva con cui questa versa e mescola il caffè davanti a Izabelė ormai certa del tradimento, fino al complesso rapporto che lega Izabelė a Ilja, portandola a coprirlo perfino quando questi, in preda a un attacco aggressivo incomprensibile, uccide con un coltellino il fratellastro Gailius, di due anni più grande.
È a quest’ultimo – figura discreta, inerme, commovente – che l’autrice affida le osservazioni più acute e amare, le domande più scomode che il lettore stesso vorrebbe porre, e che restano comunque senza risposta. La sua ipersensibilità lo porta a prevedere e dichiarare, inascoltato, la sua stessa fine; a cercare, con le migliori intenzioni, il contatto di Iljus, impenetrabile Caino contemporaneo; a tenere un quaderno dove scrivere i pensieri più profondi, come nel brevissimo capitolo Tanta seta nei capelli e dappertutto, probabilmente il punto più alto dell’intero libro.
Qui, con un linguaggio semplice ma intenso, il bambino racconta la sua malattia:
La mamma si spaventò molto quando iniziai a piangere, sembrava l’inizio di un attacco. Di quella bestia sempre in agguato in me, che senza preavviso mette fuori il muso e spaventa tutti. Io vivo con essa, ma non l’incontro mai. Quando mette fuori il muso, io mi ritiro. So di lei dalla mamma e dal papà. A loro quella bestia ha rosicchiato la vita. Non vedo nessuna differenza tra il verme e me. Soltanto una cosa: un verme così piccolo non può ospitare in sé una grossa bestia. Vuol dire, non porta dolore agli altri.
Di Ilja invece non sappiamo quasi nulla. Malgrado i continui tentativi di Izabelė, la sua estraneità alla famiglia (e al lettore) rimane assoluta, se si eccettua un breve episodio che lo vede piangere stretto a Izabelė: più che un personaggio è una presenza minacciosa, passibile di molteplici interpretazioni.
Il thriller così non consiste nello scoprire se sia Ilja ad avere ucciso (tanto più che il crimine è rappresentato nelle fasi iniziali della narrazione, con uno stile convulso, da presa diretta), quanto a intuire perché Izabelė sia così legata a lui: alcuni parchi indizi fanno pensare a una ostilità taciuta nei confronti di Beatričė, contraria all’adozione, a un desiderio di auto-punirsi con un bambino difficile per non sapersi perdonare il declino del suo rapporto con Liudas, e infine a un’incapacità di accettare Gailius e la sua malattia.
L’unico personaggio che attraversa più metamorfosi è proprio lei, Izabelė: passa da una fragilità di ragazza testarda e irrazionale a un’atarassia anestetizzata durante la rielaborazione del lutto; dalla successiva regressione infantile nel recuperare un rapporto con la vita, all’ingresso nella maturità con un crescendo di atti di riscatto personale: la dedizione all’insegnamento e alla pittura, la relazione col giovane fotografo Karolis, la decisione di non tornare insieme a Liudas – che nel frattempo, dopo la rottura con lei e la morte del figlio, ha cercato di riavvicinarsi – e quella, finale, di intraprendere un viaggio purificatore in montagna. Come frammenti luminosi, questi atti puntellano il precipitare degli eventi, e contrastano il sentimento fatalista (per nulla estraneo alla sensibilità slava) che aleggia sulla narrazione.

Se la fabula è tutto sommato semplice, con pochi avvenimenti di rilievo e pochi personaggi, l’intreccio scombina le carte giocando con flash-back che rievocano un passato precedente la vicenda narrata, immettendo episodi sul confine labile tra realtà e sogno, dando all’opera una struttura circolare grazie all’affinità delle scene iniziale e finale. A ragione di questi aspetti compositivi, nell’intero testo è percepibile l’influenza di un moderato modernismo.
L’attenzione dell’autrice si concentra così sui gesti minimi, sempre compresi dagli ambienti (la casa e la campagna lituana sono pervasive e tangibili come ulteriori presenze), e il determinismo a cui sottostanno i suoi personaggi ha un correlativo formale nell’uso frequente dei pronomi personali anziché dei nomi propri, che in alcuni passaggi rende difficile una loro immediata identificazione.
La liquefazione delle personalità – con la già vista eccezione della rinascita finale di Izabelė – è perseguita mediante ritorni lessicali legati ai campi semantici della liquidità e dell’evaporazione: per esempio le macchie, che siano di cacao, latte, sangue o altro, tornano ossessivamente in tutto il testo; finalizzato a questo scopo è anche l’uso dello straniamento metonimico (“il vuoto con le fattezze di Ilja la seguì attraverso il cortile”, p. 20; “le gambe, leggere e silenziose, la portano nell’anticamera”; “il palmo resta appoggiato con le dita semiaperte, come se chiedesse le elemosina contro la sua volontà”, p. 67); al contrario, le sensazioni sono spesso connotate fisicamente mediante personificazioni (ad es. “Le parole si scontravano nella coscienza come cani rabbiosi”, p. 67).
Di ogni personaggio l’autrice mette in evidenza alcuni tratti che finiscono per diventare vere e proprie sostituzioni metonimiche, o emblemi riassuntivi, dei personaggi stessi: gli occhi come spilli di Ilja, i capelli ricci e sensuali di Beatričė, il fango portato in casa da Liudas, i capelli cenere e il collo sottile di Izabelė, il bianco e il rosso della morte di Gailius (“molte volte aveva visto il suo volto pesante e liscio come un marmo antico […] Ma là, sotto il volto, più in basso, illuminata dalla luce serale che cadeva dalla porta, fiammeggiava nell’addome del suo bambino una bocca infernale insanguinata”), e che campeggiano, fra l'altro, sulla copertina.

Il periodare accompagna la lettura con sinuosità e senza pesantezze, grazie anche a un’interpunzione che è ritmica e poetica prima ancora che logica; peccato solo per talune legnosità espressive in sede traduttiva, a rendere alcuni passaggi un po’ artificiosi all’orecchio (viene il sospetto che sia mancata una approfondita fase di revisione per uniformare il tutto, dato che la maggior parte del testo scorre con naturalezza ed eleganza), come per esempio la richiesta “alza finalmente il tuo sedere” di Beatričė a Liudas (corsivo mio), o una presenza eccessiva dei pronomi anche laddove potrebbero essere omessi.

Per concludere, al promettente esordio che è Il respiro sul marmo – romanzo intimistico dai risvolti esistenziali e perfino psicoanalitici, caricato di senso pressoché in ogni gesto compiuto e in ogni frase – si possono perdonare certi difetti scaturiti forse dall’altezza dell'ambizione: come l’eccessivo ricorso a una simbologia esibita, alle metafore e alle similitudini, o certe fugaci intromissioni della narratrice nello spiegare lo stato d’animo dei suoi personaggi, veicolato così bene a livello di rappresentazione da non meritare commenti a margine.

Davide Castiglione

Giovannino Guareschi: la riapertura degli studi


"Camminare su e giù per l'alfabeto". L'italiano tra Peppone e Don Camillo
Atti del convegno tenutosi a Pavia (Collegio S. Caterina da Siena, 1 dicembre 2008)

con uno scritto di Claudio Magris
a cura di Giuseppe Polimeni
Edizioni Santa Caterina, Pavia 2010

pp. 139
€ 15,00

Testi di Luigi Ganapini, Martina Grassi, Nuccio Lodato, Claudio Magris, Fabio Marri, Rossano Pestarino, Giuseppe Polimeni, Mirko Volpi

IL CONVEGNO - In occasione del centenario dalla nascita dello scrittore di Fontanelle, nel 2008 è stato organizzato un convegno di studi al Collegio Santa Caterina di Pavia, che negli ultimi anni offre una straordinaria disponibilità per simili eventi. Nella prima parte della serata, gli intervenuti hanno proposto un'indagine sulle opere, soprattutto da un punto di vista storico-linguistico e critico-letterario. In seguito, due studiosi di cinema hanno affrontato il problema della riduzione filmica del Don Camillo da parte di Duvivier, preparando così il campo alla successiva proiezione della pellicola. Senza dubbio, tra le più amate dal pubblico di ogni generazione, come ricorda Giuseppe Polimeni nella presentazione. 
E' stato un vero peccato riscontrare tra il pubblico accademico, qui e là, proprio quel "pregiudizio supponente nei confronti di ciò che appare facile e popolare" condannato da Claudio Magris nello scritto che accompagna gli atti. Atteggiamento becero e insensato, ancor più maleducato data la presenza in sala dei figli di Guareschi, Carlotta e Alberto.
Ciò non ha impetidot alla giornata di rinnovare l'interesse critico su Guareschi, e di auspicare una rilettura scientifica più accurata in futuro. 

GLI ATTI - Per la recentissima casa editrice Santa Caterina, è uscita nel 2010 la raccolta degli atti, accompagnata da uno scritto di Magris (già pubblicato sul "Corriere della Sera", 23 giugno 2009), con la sua prosa brillante, che segue l'efficace presentazione del curatore Giuseppe Polimeni.
Poi, gli interventi. Si distingue per cura e acume lo studio di Mirko Volpi, che s'è occupato della lingua politica tra il "Candido" (rivista che esce dal 15 dicembre 1945) e Don Camillo (1948), con una schedatura attenta che dà risultati sorprendenti. Infatti, poche sono le tessere politiche reimpiegate nei racconti: solitamente, è netta la linea di demarcazione tra polemica giornalistica e narrativa.
Il rapporto tra idea politica e narrativa è stato oggetto di numerose riflessioni di Luigi Ganapini, nel suo intervento "Guareschi nel Mondo piccolo". 
Altra linea di studio linguistico ha portato a indagare il "'Mezzo alfabeto' di Peppone e le 'duecento parole' di Guareschi", come riporta il titolo dell'intervento di Fabio Marri. Si tratta di un'intelligente carrellata attraverso l'italiano popolare di Guareschi, caratterizzato da neologismi originalissimi, ottenuti attraverso derivazioni, deformazioni e composizioni, da cui deriva spesso un aspetto caricaturale.

Il latinorum di Don Camillo e l'approccio alla cultura hanno interessato Giuseppe Polimeni e Rossano Pestarino, che hanno ravvisato entro il Mondo piccolo spiccati richiami e confronti con il ben più noto latinorum del Don Abbondio manzoniano. Pestarino ha privilegiato i documenti biografici che confermano la conoscenza approfondita di Manzoni da parte di Guareschi; Polimeni, dopo un piacevole percorso tra i passi  incentrati sull'istruzione, ha rintracciato nell'episodio di Mariolino e Gina richiami (ora scoperti ora nascosti) ai Promessi Sposi.

Nella seconda sezione degli atti, Nuccio Lodato ha proposto la sinossi del film Don Camillo (girato tra Brescello e gli studi romani di Cinecittà, novembre 1951- marzo 1952), cui è seguito un tentativo di approfondire i legami tra la narrazione e il film. Rapporto complesso, risultato di continue mediazioni con l'autore, sempre molto partecipe e difficilmente accontentabile, spesso in cattive acque con Duvivier. Di questo e delle testimonianze documentarie, nonché dei ricordi locali, si occupa l'intervento di Martina Grassi, che chiude la raccolta di atti.

Il risultato è una raccolta curata nei dettagli, minuziosamente accompagnata nel suo farsi dalla precisione di Giuseppe Polimeni. La partecipazione motivata degli intervenuti garantisce saggi intelligenti, né si trovano riempitivi, come spesso accade in simili occasioni. Concludo con un augurio: che un certo "oscurantismo" settario allontani le proprie ombre censorie dall'opera di un autore tra i più letti e conosciuti d'Italia!

Gloria M. Ghioni

Neve bianca di Eduardo Cocciardo

Neve bianca
Eduardo Cocciardo
Albatros, 415 pp.


Secondo romanzo per Eduardo Cocciardo, che con questo "Neve bianca" si cimenta nel suo primo thriller, dalla trama apparentemente ghiotta: Virgilio e Maya sono una coppia che abita a Settebagni, vicino Roma, una coppia che conduce la normale vita di ogni altra famiglia. L'esistenza di Virgilio è stancamente scandita dalla routine della quotidianità, ma, un bel giorno, cambia repentinamente.

Sul treno che abitualmente prende per andare al lavoro, improvvisamente perde la memoria, non ricordando più alcunché. Cominciano così le sue peregrinazioni, dettate unicamente dal caso, dapprima per una Roma piovosa e grigia, successivamente fuori dai confini Italiani, fino a giungere in Spagna. A cercarlo, la moglie Maya, in compagnia del figlioletto Jonas, un bambino di quattro anni che, durante la ricerca, ha delle intuizioni fenomenali, e l'ispettore di polizia Coppola.

Il romanzo possiede dei buoni spunti, una trama di fondo che potrebbe risultare interessante, e l'autore riesce a caratterizzare bene i personaggi, tratteggiando quei dettagli che gli danno umanità e spessore. Tuttavia il libro procede affannosamente, la scrittura è troppo spesso ampollosa, volutamente condita di artifici stilistici che, invece che valorizzare il testo, lo affogano nel superfluo e confondono l'immaginazione del lettore.

La vena lirica che probabilmente Cocciardo intendeva dare alla sua opera, è troppo massiccia, supera a volte l'intreccio degli eventi che racconta, e capita spesso che ci si ritrovi spiazzati durante la lettura, procedendo a lungo unicamente per seguire le divagazioni stilistiche dello scrittore, senza che però all'interno della narrazione ci sia niente di rilevante. La conseguenza è un testo pesante, che annoia spesso, e che nonostante i buoni spunti e i momenti interessanti, risulta sempre troppo stancante.

Sarebbe stato opportuno, invece, sgrossarlo in maniera consistente, e concentrarsi maggiormente sul dinamismo e la coerenza delle scene, invece che sull'eccessivo "condimento" di artifici stilistici.

Giuseppe

Un progetto ambizioso: RomaEuropa Fake Factory

REFF RomaEuropa Fake Factory
La reinvenzione del reale attraverso pratiche critiche di remix, mashup, ricontestualizzazione, reenactment
a cura di C. Hendrickson, S. Iaconesi, O. Persico, F. Ruberti, L. Simeone
Fake Press, 2010

Prefazione di B. Sterling
€ 30.00
pp. 284

In quale direzione sta andando la cultura contemporanea? Dove l'arte? A queste domande prova a rispondere il progetto di REFF (Roma-Europa Fake Factory), nato nel 2008: 
Quando il regolamento del concorso Romeuropa Web Factory, promosso da Fondazione Romaeuropa e Telecom Italia, attira l'attenzione di un gruppo di artisti e di attivisti. La miccia, ancora una volta, è la proprietà intellettuale. Il disclaimer legale del concorso obbliga i partecipanti a cedere unilateralmente i diritti di utilizzo e sfruttamento dele proprie opere; le opere frutto di remix, mashup e manipolazione sono escluse dal concorso; Fondazione Romaeuropa e Telecom Italia detengono tutti i diritti di sfruttamento sui lavori scritti, compreso quello di remixarle: Fondazione e Telecom possono remixare, gli artisti no. 
Così si legge nell'Autoritratto che apre gli interventi del presente volume. Comprensibilmente, da parte gli artisti è nato un profondo sdegno, amplificato da un passaparola informatico potente. Da qui, l'idea di creare un "fake", ovvero una competizione alternativa, che affianchi e riveda il concorso ufficiale, liberando gli artisti dai vari gioghi legali. Il risultato è stato dirompente. 

REFF fa dell'eterogeneità e della libertà artistica due valori massimi: al progetto partecipano professori, fotografi, pittori, scultori, ricercatori, studenti. E i contributi sfruttano tutte le possibilità combinatorie che permettono le diverse discipline: remix, mashup, riletture, citazioni, rielaborazioni sono le pietanze offerte alla mensa del progetto. Il pane è la tecnologia, fondamentale per gustare il tutto: oltre all'interdisciplinarità, è fondamentale l'ipertestualità
Infatti, REFF si avvale dei più recenti mezzi tecnologici, come Qrcode e Fiducial Marker per integrare i testi di immagini e approfondimenti che, altrimenti, difficilmente troverebbero spazio sulla carta. Così, ad esempio, vengono abolite le note a pié di pagina: basta avere un cellulare di ultima generazione o un computer per andare a scoprire, ad esempio, le biografie dettagliate degli autori, o per trovare musiche e immagini che accompagnino la lettura. Inoltre, il sito web (clicca qui) è in continuo aggiornamento: ora si possono apprezzare gli interventi anche su iPhone e su iPad, grazie ad applicazioni specifiche. 

Inoltre, attrae la totale assenza di confini di REFF, geograficamente (gli autori provengono da diverse parti del mondo) e culturalmente: non si conosce il destino di questo progetto, ma si assiste al suo continuo arricchirsi di contributi. Dall'idea iniziale di una competizione si è ora davanti a un interessante esperimento di work in progress: non resta che restare "updated" e osservare quali intelligenti proposte verranno prossimamente da REFF.

Ricordo, infine, che si può anche prenotare il libro in versione cartacea: clicca qui. E un giorno, chissà, si potrebbe anche partecipare in prima persona! 

Gloria M. Ghioni

Il talento del disordine




Il talento del disordine
di Emilio Pagano
Cicorivolta Edizioni, 2010

«I miei litigi hanno il gusto di un capriccio / e la mia rivolta inizia con un'alzata di spalle».
Sono gli ultimi versi di Mondi difficili, e rappresentano bene le pagine migliori di Il talento del disordine. Nelle liriche meglio riuscite si avverte una leggerezza («il gusto di un capriccio») che si oppone a una realtà tragica ma priva anch'essa della compostezza e della serietà che abitualmente le riconosciamo e che solitamente le riconosce anche l'autore. Quando non lo fa, però, dà senz'altro il meglio di sé. Quando il suo tono abbandona le vette imponenti della Malinconia, quella con la “m” maiuscola da cantare dopo le dovute riverenze, e si fa più umilmente umano. Quando la maiuscola viene messa da parte e si racconta il disagio in forme più dimesse. Quando, insomma, il tragico si nasconde nella «sedia che ha ospitato le tue calze», e la logorante fuga del tempo si lascia narrare piuttosto che incensare o esorcizzare con parole maestose. Va detto: l'Olimpo della Sofferenza, dello spleen, del rimpianto e dei rimorsi nelle pagine di questo libro non è altro che una montagnola di terra secca che fa solo il verso alla montagna sacra. Ne riproduce approssimativamente la forma, ma sulle sue pendici corrono troppi stereotipi, troppe immagini che sono repliche e parodie involontarie delle originali.

L'immaginario poetico entro cui Pagano si muove è in buona sostanza quello del decadentismo francese. Ci sono l'amore carnale e assoluto che è mezzo per elevarsi al di sopra della «vita che lascia merda sulle scarpe», la noia che è angoscia esistenziale e via dicendo. Spesso, però, chi legge non avverte quel fremito che prova la buona riuscita di una poesia.

A mio giudizio non vanno a segno le immagini prelevate di peso, o quasi, dagli epigoni dei Rimbaud o Verlaine di turno e di fatto traslate passivamente. Sono immagini che, al di là dell'involucro, non conservano più la loro vita. «E allora rido di voi, in malora», «Perduto per sempre nella mia cenere, mio deserto infinito», accostamenti come «Io fuoco, lei paglia» e rime come sorte-morte: no, abbiamo già sentito tutto ciò, lo abbiamo letto espresso in forme molto migliori.
Quando il poeta carica su di sé il fardello del Male e quando vuole comunicarlo in versi, quasi sempre fallisce. Del resto, quanti non soccomberebbero di fronte a un peso del genere? Il nostro sa scrivere, intendiamoci. E lo si vede bene quando abbassa l'asticella e salta dopo corse meno funamboliche. È il caso di 06:00, lirica che smantella nel giro di quattro strofe i versi sovraccarichi e manierati accumulati fin qui. È con chiuse come
«Piscio. L'orinatoio è uno scrigno di dissoluzioni»
che il lettore smette di leggere, dilettandosi, e inizia a riflettere. “Zampate” che istigano alla riflessione non sono rare; se ne trovano, ad esempio, in Clandestini («Siamo arte che urta tra ossa e aorte») e in Adieu: 
«Amore, il cui universo si consuma / nella struggente protervia di un tuo neo».
Quanto alla forma, domina un'innegabile staticità. Tutti i componimenti constano di terzine e quartine, e in ciascuna di esse si esaurisce il percorso logico e sintattico intrapreso a inizio strofa.
Si registrano numerosi incipit identici nella tipologia. Una parola o comunque un sintagma minimo si collocano in apertura e, mediante il punto o i puntini di sospensione, si staccano dal resto («Pomeriggio..../ E celebrano il riposo, guaiti di quartiere»).
L'onnipresenza dei puntini di sospensione è una caratteristica del poeta, anzi un vizio, dato che questi ne abusa senza nessun ritegno. Spesso sono utilizzati quattro o cinque volte in poesie di una quindicina di versi. La loro totale assenza è quantomai rara, nonostante nella maggior parte dei casi i loro uso appaia al limite del superfluo.

In fin dei conti, è un libro che vale la pena leggere. Incostante, privo di mordente in molte sue parti, riesce anche a graffiare. Se è doveroso rimarcarne gli evidenti limiti, è altrettanto doveroso riconoscere la capacità di scrittura dell'autore quando ci apparecchia versi che si insediano nella mente del lettore e lì rimangono a lungo.
 
Marco Giorgerini

Quando il boss diventa chef. “La mafia a tavola”, le ricette dei mafiosi


La mafia a tavola
di Jacques Kermoal e Martine Bartolomei
trad. di Anna Scopano
Ed. L'Ancora del Mediterraneo

Pp. 155
Euro 15.00


La casa editrice napoletana L’Ancora del Mediterraneo pubblica il libro La mafia a tavola, scritto dai due giornalisti Jacques Kermoal e Martine Bartolomei, nel quale si raccontano pranzi e cene mafiose con dettagliati menu e ricette.

“Mafia e gastronomia sono strettamente intrecciate”, come scrive Jacques Kermoal nell’introduzione, “nella storia della mafia il pasto è importante quanto i vangeli”. Ogni volta che l’onorata società è chiamata a prendere decisioni importanti si riunisce intorno alla tavola, i pasti della Mafia costituiscono sempre un rituale, una liturgia. Il folclore siciliano pullula di storie di tavolate magione intorno alle quali gli zii si dividono le fonti di profitto e i due autori di questo volume raccontano le più significative.

Si parte dal banchetto d’onore offerto all’eroe dei due mondi dai capi delle famiglie mafiose riconoscenti del regalo che Garibaldi stava facendo loro. Era il 1862, un anno dopo l’unità d’Italia, Garibaldi credendo di donare la Sicilia a Vittorio Emanuele II di Savoia, la affidò, invece, alla Mafia. Il pranzo pantagruelico, degno degli imperatori romani di ritorno a Roma, fu a base di: prosciutto affumicato della Conca d’Oro; agghiotta di pesce spada; baccalà alla messinese; stufato di gallinelle farcite al tartufo; cosciotto di capriolo marinato all’acquavite di prugne di Agrigento; agnello arrostito con olio extravergine d’oliva di Caltanissetta; cavolfiori; carciofi e sedano; formaggio di capra; creme, gelati; torta a piani; pignolata; mele alla cannella. Il tutto innaffiato dai vini: Bazia molto fresco per il pesce; Faro e Corvo per le carni e Marsala all’uovo per i dessert.

Un secolo dopo un giornalista di Le Ore è invitato a pranzo a Napoli a casa di Lucky Luciano, il re della droga che sarebbe morto tre settimane dopo in circostanze molto strane. A raccontare il convivio cucinato personalmente dal padrone di casa è lo stesso giornalista: 
«Il pranzo preparato da Lucky Luciano era semplice e raffinato: caviale e salmone affumicato, pastasciutta con le sarde, filetto di manzo alla napoletana con asparagi caldi al formaggio di capra, insalata, zabaione e biscotti alle mandorle».
La mafia a tavola non è un libro di ricette né uno dei tanti volumi sulla mafia, ma un modo originale e interessante di raccontare più di un secolo di pranzi e cene durante i quali si sono scritte pagine di storia del nostro Paese, il tutto condito a un’aneddotica gastronomico-mafiosa dove le ricette hanno un ruolo fondamentale.

Luisa Roberto

«Le pesche non s’innestano sull’olivo». Invito alla lettura del Mastro-don Gesualdo

Mastro-don Gesualdo
di Giovanni Verga

a cura di Giancarlo Mazzacurati
Einaudi, 2005

pp. 630, 11 euro


È il 1881. Nella Prefazione a I Malavoglia, Giovanni Verga illustra il progetto del famoso – e destinato a restare incompiuto – “ciclo dei vinti” e in poche righe, marcate da un efficace lessico pittorico, dichiara quali saranno le forze alla base del suo successivo romanzo, il Mastro-don Gesualdo:
«Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro-don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato».
Passeranno sette anni prima che il lavoro esca a puntate sulla Nuova Antologia e poi, nel 1889, in volume per l’editore Treves. Nel frattempo Verga ha proseguito con la produzione novellistica (le Novelle rusticane e Vagabondaggio sono rispettivamente del 1883 e del 1887); ha riflettuto, in particolare, sulla struttura formale con cui realizzare il quadro che ha ben chiaro in mente. Il risultato è un’opera eterogenea, che offre originali spunti di riflessione.

A differenza del romanzo precedente, il cui titolo originario (Padron ‘Ntoni) era stato modificato in I Malavoglia per stigmatizzarne la prospettiva collettivizzante, Mastro-don Gesualdo resta fedele al suo progetto: focalizzare la propria attenzione sull’individuo. Il titolo non coincide soltanto col nome del protagonista, come accade specialmente nell’Inghilterra moderna (Robinson Crusoe, Pamela, Moll Flanders, Emma, Tom Jones) e nella Francia naturalista (Madame Bovary, Père Goriot): qui, come accadrà nel pirandelliano Il fu Mattia Pascal, l’anomalia propria del protagonista è individuata in modo lampante nella sua qualificazione sociale. O, per meglio dire, nella sua inqualificabilità sociale. Se Mattia soffrirà l’assurdo di una doppia morte, mastro-don Gesualdo vive l’eterna, insanabile conflittualità del suo status.

Chi è Gesualdo Motta? Più che un parvenu, è un self-made man. Egli non possiede la boria arrogante dei nuovi arricchiti, né l’avidità insaziabile del guadagno. Nulla di diabolico in lui, se non un’intelligenza pratica e guardinga. È, in fondo, un buon uomo: offre instancabilmente aiuto economico ai suoi parenti, nonostante questi continuino a rinfacciargli la sua ricchezza; le sue mani «mangiate di calcina» si trovano a disagio nella buona società che lo rigetta come un corpo estraneo: e di quelle ruvide mani si scusa con la moglie, Bianca Trao, debole spettro di una nobiltà in declino. Ha dei limiti, certo; ma a conti fatti, è un personaggio animato da valori positivi.
È un ritratto un po’ diverso da quello che ci si trova nelle storie letterarie, non è vero? In effetti, la vulgata su Gesualdo parla di un uomo arricchito e consacrato alla dea Roba, da confrontare con un altro gran sacerdote verghiano: Mazzarò, protagonista della novella La roba. Il paragone è d’obbligo, ma non è scontato come si crede. Il progetto di rappresentare «l’avidità di ricchezze», infatti, si complica. La roba è una vera parabola del possesso. Mazzarò assume connotazioni mostruose: la sua tragedia è la lotta contro la morte e l’impossibilità di “avere per sempre”, il fallimento di fronte alla biblica, proverbiale affermazione che tutto è vanità. Ma è facile creare eroi, quand’anche siano eroi neri: molto più difficile è dare compiutezza a un incompiuto, all’uomo che si crede eroe e, non essendolo, diventa triste pagliaccio.

Il grande tema sviluppato è quello della solitudine, dovuta non all’avidità, ma all’incomunicabilità. Verga è un narratore abile e accorto: e sa benissimo che il suo romanzo non racconta la rovina di un avido, ma il fallimento di un uomo, il progressivo rimpicciolimento dell’eroe mancato. L’intero romanzo è il racconto della frizione tra codici diversi. Mastro-don Gesualdo ama, per esempio, sua figlia Isabella: ma lei è «una vera Trao», appartiene a un mondo al quale non può accedere se non coprendosi di ridicolo e disprezzo. Lui non può che riconoscere l’irrealizzabilità di un rapporto padre-figlia; e lo fa con una metafora potentissima, icastica, semplicemente perfetta:
«Era il sangue della razza che si rifiutava. Le pesche non s’innestano sull’olivo.»
Ecco Gesualdo, mastro e don, condannato ad essere un ibrido risibile nella sua inclassificabilità. Del titano non resta che l’ombra, una pretesa che a volte ha del comico («Badate che vi sto sempre addosso come la presenza di Dio!» ripete ai lavoranti che non l’ascoltano), altre del tragico («la stessa guerra implacabile ch’era stato obbligato a combattere sempre contro tutto e tutti»). Questa oscillazione costante si realizza in quel salto formale al discorso indiretto libero che, è una verità unanimemente conclamata dalla critica, costituisce la più importante innovazione narrativa dai Malavoglia al Mastro.

Tutt’intorno c’è un’intera comédie humaine, che se letta senza pregiudizi si mostra nella sua nuda, brutale attualità. Il mondo è una fiera sociale, teatro di un bellum omnium contra omnes. E la società del romanzo, vera antagonista di Gesualdo, è un vero bestiario, una spietata galleria di ritratti dai tratti variopinti e animaleschi. L’esempio più gustoso: la baronessa Rubiera, malata, è «simile a un bue colpito dal macellaio», capace di lanciare «un urlo spaventoso, come se stessero sgozzando un animale grosso». Ma si trova di tutto: vipere, gatte, scimmie, galli e galline, anatre, orsi, barbagianni, muli, vespe, cavalli, volpi e lupi. Soprattutto questi ultimi hanno un ruolo di primo piano:
«Anche oggi, laggiù, al Municipio, avete visto?... quello che vi feci dire dal canonico Lupi?...»
«Lupus in fabula!» esclamò costui entrando come in casa propria […] «Sparlavate di me, eh? Mi sussurravano le orecchie…»
«Voi, piuttosto, buonalana! Avete la cera di chi ha preso il terno al lotto!»
«Il terno al lotto? Mi fate il contrappelo anche?...»
Pura teatralità. E vale la pena ricordare, con Plauto, che homo homini lupus?

L. Ingallinella

Un'analisi disincantata dell'adolescenza e della vita

ACCIAIO
di Silvia Avallone

Rizzoli 2010

pag. 357

euro 18,00



Anna e Francesca, amiche adolescenti , trascorrono la vita in una periferia grigia come il metallo che viene prodotto alla Lucchini, acciaieria di Piombino. Con lo sguardo rivolto all’Elba, vista come una chimera, aspettando Caronte che le traghetti verso un futuro la cui sola idea soffoca nell’afa dei pomeriggi d’estate permeati di sudore e immobilismo.
Accanto a loro fratelli, amici, padri viziosi e madri frustrate e su tutto i loro corpi adolescenti , innocenti e maliziosi allo stesso tempo, che prepotentemente rivendicano il loro posto nel mondo.
Anche i sentimenti in questo scenario acquistano una valenza di sofferenza e dolore. E nel tentativo di acquisire una loro precisa identità si scontreranno con una realtà troppo dura e ingiusta che non va aldilà delle cose che sono e quelle che si vorrebbe che fossero.
Che dire? Romanzo talmente coinvolgente che ti provoca un buco nello stomaco e un groppo nella gola.
E bevi ogni parola cercando di placare l’arsura come se fossi tu a respirare quella realtà grigia, in quel cimitero industriale nella luce bianca, anzi incolore, e l’odore di ruggine, ferro e bagnato.

Arianna di Tomasso

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Lo spirito degli alberi


Lo spirito degli alberi. Una chiave per la vostra espansione
di Fred Hageneder
Edizioni Crisalide, 2001

Traduzione di A. Leonetti e D. Tecchio
Libro illustrato + cd
pp. 440
€ 24,90

Parlare di alberi, in quest'epoca di deforestazioni incalzanti e scellerate, significa, quasi sempre, adottare i registri della denuncia o della polemica più rabbiosa. La scomparsa progressiva delle foreste è una tragedia planetaria, un olocausto tributato ai sacri altari del dio denaro, un crimine sordo ai moniti della vita e, ancor più, della spiritualità.
Il problema di fondo, come al solito, è culturale, prima ancora che politico, e le ricadute etiche sono sotto gli occhi ( e la responsabilità ) di tutti. 

Ma ce ne preoccupiamo davvero? E dove inizia la cultura del rispetto, se non nelle nostre coscienze, stordite e rese insensibili da troppi richiami accattivanti che sanno più di possesso e attaccamento che di accoglienza e introspezione? 

Che gli alberi siano creature dotate di spiritualità non è una trovata dell'ultima moda New Age, ma una realtà nota e testimoniata dalle civiltà di tutti i tempi e confortata dai risultati più recenti della scienza.
Che poi ci sia una riscoperta del tema natura-spirito da parte di una certa letteratura di attualità, è sintomatico dell'importanza di un approccio all'ambiente che rispolveri i vecchi e sempre validi paradigmi filosofico-religiosi del genere umano. 

Fred Hageneder, pittore e musicista (arpista) tedesco, nel bel saggio Lo spirito degli alberi con sottotitolo una chiave per la vostra espansione, ci invita con garbo a visitare l'affascinante universo delle piante. Un percorso in quattro tappe che parte da un'introduzione scientifica, per passare, senza tediarci, a un documentato escursus storico sul ruolo degli alberi nelle antiche civiltà di tutto il mondo, su come il culto delle piante e la sacralità loro attribuita si siano modificati nel tempo, fino ad oggi. 

Ma la parte centrale del libro, quella che ne giustifica l'intestazione, è la terza. Ci appare strutturalmente non meno sistematica delle precedenti, ma è anche la più poetica, in quanto ognuna delle 24 specie di alberi presentate emerge nei suoi connotati individuali, tracciati su un crinale a metà tra il mito e la storia. Niente a che vedere con le classificazioni e le schedature dei manuali di divulgazione scientifica. In questo saggio chiamare in causa scienza e medicina coi rispettivi guadagni teorici e sperimentali, significa sensibilizzare anche i più scettici, quelli che classificano come ridicole superstizioni i tentativi di presentare gli alberi quali esseri senzienti. 

Relazionando tutti i campi del sapere, dalla scienza alla filosofia, dalla storia delle civiltà all'arte e alle religioni, Hageneder chiama in causa ognuno di noi, ricordandoci, senza polemica e senza indici puntati, che la difesa della natura non è un affare per ambientalisti militanti, ma un atto di consapevolezza umana tout court.
E allora, dati questi presupposti, sedersi vicino a un albero con rispetto a meditare, non ci apparirà più come una pratica per mistici, da cui evadere col solito alibi del 'non ho tempo'. Abbracciare il fusto di una pianta si rivelerà un'esperienza rigenerante, tutt'altro che bizzarra, un incontro vibrante di campi energetici tra viventi, non certo un sintomo di schizofrenia.
Se l'uomo vuole veramente dimostrarsi un essere superiore, deve esercitare il suo dominio sulla natura sotto forma di responsabilità protettiva, non di bieca prevaricazione. Un modo per recuperare il senso autentico delle Sacre Scritture, troppo a lungo e comodamente frainteso.
Valga, come spunto di riflessione, il pensiero che chiude la prima parte del saggio:
Colui che opta per la vita pianta alberi, sulla terra o nel cuore.

Lvxita