Troppo corta è qualunque recensione per il pensiero ossessivo, di natura infinito.

Il pensiero perverso. Troppo corta è sempre la notte per il pensiero ossessivo, di natura infinito.
di Ottiero Ottieri
Bompiani, Milano 1971

pp. 153

Il piacere del dovere / o il dovere del piacere?

Difficile classificare il poemetto che Ottieri compone di getto, cercando di «scrivere del pensiero ossessivo nel pochissimo tempo/ lasciatogli libero dal pensiero ossessivo» (incipit). Come avverte la quarta di copertina, siamo di fronte a una prova di poesia "non-metaforica", che fa dell'esplicito la sua forza eversiva. Versi singhiozzanti, ansiosi e ansiogeni si fanno spazio tra le anse della depressione mai latente, compagna imprescindibile di qualunque momento («l'ansietà del vivere gli impedisce di scrivere», p. 37). Anche del sesso, che prepotentemente entra nei versi con una grande libertà d'espressione, senza alcun filtro metaforico, ma diventando - spesso - movente stesso e origine della poesia, nel paradossale «Possedere con la testa/ e scrivere col pirla/ è brutta festa» (p. 70).

A placare il pensiero pervertito (in senso freudiano, cioè legato alla fissazione lasciata dalla libido), l'arma a doppio taglio dell'alcol, con la sua dipendenza duratura e insostituibile. 
Non a caso ho citato Freud: Ottieri, nei tanti anni di malattia, ha studiato e criticato aspetti della psicoanalisi, impossessandosi del lessico specifico ("rimosso", "inconscio", "scissione", "devalorizzazione", "coazione",...), molto presente nel poemetto, a discapito della liricità e del ritmo. Ma, d'altra parte, non sono i valori tradizionali della poesia a interessare a Ottieri: il verso è l'unica dimensione per esprimere fino in fondo il proprio disagio, che si esplica anche in una metrica smaccatamente irregolare (ma non casuale!), che fa dell'enjambement uno strumento prezioso per evidenziare antitesi e per rabberciare pensieri altrimenti slegati. Infatti, è la nevrosi stessa a dominare la poesia, piegandola al volere dell'ansia e della fretta, altrove al raziocinio sghembo, altre volte inappuntabile. Questo spiega la frequenza martellante di parole come "fobia", "panico", "paura" e i loro derivati, ma anche la sintassi nominale che frammenta i versi e spesso addirittura li maciulla. Allora i concetti sono solo giustapposti, fino a minare l'unità semantica del testo. 
Leggiamone una prova: 

Quando a un letterato la letteratura come rimovente non dura
timido o altero s'affaccia il rimosso e lo intride.
Non si sa bene che cosa avviene.
Può scatenarsi il pensiero perverso.
Allora solo l'alcol smussa
i sanguinolenti spigoli del dubbio,
i sussulti del corno trascurato,
le fotografie del fantasma agli occhi
cocciuti della mente. La grande antica forza,
l'accettazione del presente e del qui,
è intesa come digiuno.
Non sa digerire, non ha
da digerire,
non ha mai sazietà. La poppata è magra.
(p. 51)
Mancanza e perenne anelito alla sazietà sono temi interconnessi e presentissimi. La reazione è una profonda sofferenza, spesso acuita dalla sensazione illusoria di aver trovato ciò di cui si ha bisogno e dalla successiva frustrazione:

L'unicità gli era parso
d'averla trovata.
Parso che gli porgesse
la lancia e la lenza
in una felicità straordinaria
sotto forma di un ago.
(p. 31)

Da qui, sfoghi di ira ma anche moti di rassegnazione, che tuttavia saranno poi smentiti da una nuova illusione, e così via; più che un percorso circolare, sembra una spirale continuamente ritorta su sé stessa e sulle precedenti coazioni (tra cui, non dimentichiamo, la "coazione a dire" e a comporre queste pagine). La centralità del "pensiero perverso" comporta una continua ripresa e riproposizione delle stesse tematiche, senza  che il poemetto abbia un significativo iter narrativo: la stasi e il rovello del protagonista sono impaludati nei versi («Oltre non amare,/ non lavora, poiché pensa./ Il suo lavoro è il pensiero perverso», p. 117, fino al gioco di parole spietato «Il pensiero perverso non ha tempo da perdere,/ perde tutto il tempo del mondo», p. 118).
Un'ultima riflessione (ultima solo per questione di spazi, ma l'opera susciterebbe molti altri pensieri) va al punto di vista: l'io-lirico si nasconde dietro a una terza persona, che apparentemente sembra allontanare dai sospetti di autobiografismo. Apparentemente, perché invece altrove si palesa un coinvolgimento estremo, con continui punti di tangenza con la vicenda biografica di Ottieri. Dunque, una finzione per maggiore libertà espositiva? Questione di stile? Ciò che è certo è che questo protagonista solitario e sofferente si muove pensoso con l'unica compagnia di sentimenti e concetti personificati, in attesa del prossimo delirio, «acquattato al di qua/ della vita umana» (p. 153).

GMG