L'idea di libertà

L'idea di libertà
Ian Carter e Mario Ricciardi (a cura di)

Feltrinelli, 1996
206 pp.

Vorrei festeggiare il 25 Aprile sul nostro blog recensendo un libro che raccoglie contributi importanti e diversi circa l'analisi del concetto di libertà. D'altronde, oggi festeggiamo proprio la liberazione del nostro Paese dalla dittatura fascista e nazista, e nel farlo ricordiamo i tanti antifascisti membri di una Resistenza plurale, che hanno lottato perché noi oggi potessimo gustare il senso di questa parola: libertà.

Libertà è un concetto dai sensi così plurali e diversi già nel nostro linguaggio comune, e fatto proprio da ideologie diversissime e in conflitto che, non solo darne una definizione sembra essere un daunting task, come ricorda Tim Gray in Freedom (Macmillan, 1991), ma anche che sembra un concetto, tra i concetti politici, intrinsecamente contestabile: socialisti e liberali, libertari ed egualitari, politici, filosofi, rivoluzionari, romanzieri, hanno dato ad esso significati così diversi che è difficile (ma io credo possibile, e auspicabile) trovare o costruire il nucleo comune che ne fa un unico concetto. Ma, prima di assumere una posizione scettica, vale la pena di sondare le nostre intuizioni, e farne teoria, se possibile.

Dagli anni '60 in poi si è sviluppato, all'interno della tradizione della filosofia politica analitica, un fecondo e vasto dibattito, che prosegue ancora oggi, circa l'analisi del concetto di libertà e le connesse implicazioni per la fondazione, o la critica, di una teoria liberale della giustizia. Nel 1996 Ian Carter e Mario Ricciardi, curando l'edizione de L'idea di libertà, ebbero il merito notevole di organizzare la traduzione di alcune delle differenti analisi rilevanti. Il libro, infatti, è una raccolta di interventi di autori come Gerald C. MacCallum, John Gray, Charles Taylor, Hillel Steiner, David Miller, Felix Oppenheim, G.A. Cohen.

I papers raccolti trattano propriamente della libertà di agire, l'idea di libertà direttamente rilevante per la teoria politica. La cosiddetta libertà sociale al centro dell'indagine è perciò analiticamente distinta dalla libertà del volere: il dibattito qui esposto non è quello tra assertori del libero arbitrio, compatibilisti e deterministi. Esso ha piuttosto al suo centro la libertà dell'agire. Un esempio intuitivamente chiaro di libertà di agire è quello del prigioniero, che è non libero di fare molte cose che un'altra persona non prigioniera è libera di fare: egli, ad esempio, non può andare a teatro, un cittadino comune, invece, sì, purché non vi siano vincoli alla sua libertà. Potremmo perciò chiederci: quali sono i vincoli alla libertà? La povertà, ad esempio, può essere considerata un vincolo alla libertà? Una persona povera è libera di cenare all'hotel più costoso della città? Inoltre: vi sono solo vincoli esterni alla libertà di azione (ostacoli esterni all'agente), o anche vincoli interni, come le manie compulsive, le fobie, l'ignoranza? In questo senso, un uomo che non esce di casa perché ha una paura (più o meno fondata) di essere ucciso dal vicino, o di essere assalito dai suoi creditori, è libero di uscire di casa? Diremmo di lui che è non-libero di uscire di casa perché se lo facesse dovrebbe pagare un costo più o meno alto (quanto alto?) o che, pur dovendo pagare un costo variabile, è nondimeno libero di farlo nella misura in cui ostacoli esterni all'azione non lo impediscano fisicamente (Steiner)? Il cassiere di una banca è libero di non consegnare i soldi al rapinatore che gli sta puntando contro una pistola? Sembra allora che dobbiamo domandarci se minacce e lusinghe abbiano effetti, siano vincoli, alla libertà. L'ignoranza, ad esempio, è un vincolo alla libertà? Un uomo che non conosce la matematica è libero di fare una somma, o una divisione? Allo stesso tempo, anche dalla distinzione tra capacità e libertà sorgono questioni problematiche: possiamo dire di essere non-liberi di computare operazioni algebriche complicatissime, o siamo invece semplicemente incapaci, ma non non-liberi di farlo? Si pensi, inoltre, ai Paesi retti da regimi dittatoriali, nei quali le persone sono spesso non-libere di leggere molti libri che vengono censurati, o non vengono stampati, e subiscono restrizioni nelle loro libertà di parola, e di movimento. Si ammette generalmente, invece, che cittadini di una democrazia liberale siano in un qualche senso più liberi di chi vive all'ombra di una dittatura. Da questa nostra intuizione generalmente condivisa possiamo notare che: a) la libertà di cui stiamo parlando non è la libertà del volere: il prigioniero è altrettanto socialmente libero (è non impedito di fare lo stesso numero x di azioni) anche se ammettessimo il determinismo. Un individuo che si trovi di fronte ad una strada interrotta dalla caduta di un albero che ne impedisce il passaggio, è sempre socialmente non libero, in quanto ostacolato, di attraversare la strada, sia che si ammetta il libero arbitrio, o il determinismo. Alcuni autori, però, in lavori recenti, hanno sostenuto che per parlare di libertà sociale si debba discutere anche della libertà del volere, e spesso la discussione sulla libertà sociale è collassata in un dibattito sul libero arbitrio. É opportuno però, almeno analiticamente, tenere la distinzione tra i due usi del termine “libertà”. E b) che le nostre intuizioni sembrano richiedere una qualche misurazione precisa della libertà, per permetterci di fare confronti. È possibile misurare la libertà?

Ho sollevato qui solo alcuni punti rilevanti in merito. Quello dell'analisi della libertà è un campo di studi che si è molto sviluppato negli ultimi decenni. I differenti risultati raggiunti non permettono ormai che una teoria della giustizia eluda il confronto con essi e non prenda precisamente posizione in merito. Mi permetto, perciò, di segnalare solo alcune indicazioni bibliografiche per il lettore che volesse ulteriormente approfondire.



Bibliografia
Nelle pagine conclusive de L'idea di libertà Carter e Ricciardi hanno curato una vasta bibliografia ragionata sulla libertà, che è utilissima, e che è consultabile presso: http://www3.unipv.it/deontica/bibliog/libert.htm .
Come lavori introduttivi è molto utile la voce Positive and Negative Liberty curata da Ian Carter presso la Stanford Encyclopedia of Philosophy, consultabile presso ,http://plato.stanford.edu/entries/liberty-positive-negative/ il libro di Tim Gray Freedom (Macmillan 1991), che è una dettagliata rassegna delle principali posizioni alternative (aggiornata al 1991), e il paper di Corrado del Bò, Il concetto di libertà nella filosofia politica contemporanea, consultabile presso http://www-3.unipv.it/deontica/scritti.htm#delbo.


I curatori
Ian Carter insegna Filosofia politica all'Università di Pavia. E' l'autore di A Measure of Freedom (Oxford University Press, 1999), La libertà eguale (Feltrinelli, 2005). E' il curatore di molti libri, tra cui: Freedom: a Philosophical Anthology (Blacwell, 2007) (con M.Kramer e H.Steiner), L'idea di eguaglianza (Feltrinelli, 2001), ed Eguale rispetto (con A.E. Galeotti e V.Ottonelli).
Mario Ricciardi insegna presso la Facoltà di Filosofia dell’Università “Vita-Salute”, San Raffaele di Milano, presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Statale di Milano e dell’Università “C. Cattaneo” di Castellanza. E' l'autore di Diiritto e natura. H.L.A. Hart e la filosofia di Oxford (ETS, Pisa 2008). Ha curato con Ian Carter anche Freedom, Power and Political Morality (Palgrave, 2001), e con Corrado del Bò, Pluralismo e libertà fondamentali (Giuffrè 2004). Ha contribuito al volume The One and the Many. Reading Isaiah Berlin, a cura di George Crowder e Henry Hardy (Prometheus Books, 2007). http://brideshead.ilcannocchiale.it è l'indirizzo del suo blog.

Peter

La voce del vento...


Per vivere con poesia
di Mario Quintana
Selezione e organizzazione di Márcio Vassallo
Prefazione di Luís Eloin Stein
Traduzione di Natale P. Fioretto
Perugia, Graphe.it edizioni (2010)
pp. 159

Non amo le raccolte di aforismi. Stampati, quasi ammucchiati, uno dopo l’altro sulle pagine di un libro, perdono parte del loro significato. Colpa del lettore, io in questo caso, che facilitato dalla brevità delle frasi, ingurgita un pensiero dopo l’altro senza soffermarsi troppo sul senso delle parole.

Incuriosita dall’introduzione di Márcio Vassallo, però, mi sono imposta una lettura più attenta e concentrata.
Mario Quintana è presentato come un poeta che “vede poesia nelle immagini, vede poesia in tutto”, approcciandosi alla realtà “con il cuore pieno di stupore e con gli occhi di un bambino o di un condannato”. La poesia è, per lui, uno stile di vita.

Sfogliando le pagine, si percepisce subito di avere di fronte un uomo che riesce realmente a soffermarsi su cose che, ai più, sembrano così normali da apparire quasi invisibili.

“Le cose che sembrano senza bellezza, non hanno avuto il beneficio di un secondo sguardo!”.

Ironico e leggero, interpreta con parole nuove i vari attimi della vita, aprendo finestre da cui guardare al mondo con occhio diverso. Il poeta suggerisce punti di vista con cui affrontare tematiche anche difficili come il passare del tempo, la visione di Dio, la morte.
Evidente la sua capacità di vivere con entusiasmo lasciandosi sfiorare solo in superficie dai pensieri e dalle preoccupazioni che affliggono la maggioranza delle persone. In alcuni passi sembra quasi prendersi gioco di sé e della stessa poesia.

“La morte è quando, finalmente, si può stare a letto con le scarpe”.

Ancorato con forza agli aspetti più palpabili della quotidianità, capace di sdrammatizzare e ridurre ai minimi termini anche problematiche complesse, a tratti però si lascia trasportare dal romanticismo e dal sentimentalismo, indossando per un istante i panni che la visione più classica assimila al poeta.

“Ci sono illusioni perdute ma così belle che le vediamo andar via come quei palloncini colorati che ci sfuggono di mano e spariscono nel cielo…”.

Pensieri, aforismi, poesie. Raccolti in una veste grafica semplice e senza fronzoli – a parte il “vezzo”, non casuale, di aggiungere il simbolo delle maschere quale parte integrante dell’edizione italiana - suddivisi e organizzati con logica interessante come fossero consigli per raggiungere un determinato risultato: chiarire un sentimento, nutrire la pigrizia, risvegliare la fantasia.

Stimolante e condivisibile la scelta di curare un’edizione bilingue, testo portoghese a fronte, che permette a chi legge di cimentarsi anche solo con il suono delle parole nella lingua madre del poeta.
Peccato, e questa è una piccola ma doverosa annotazione, per i numerosi errori di battitura.

“La voce del vento…nessuno sa cosa voglia dire il vento…chi mi scrive un testo per la voce del vento?”.

Silvia Surano

Il romanzo di formazione per Soldati


La confessione
di Mario Soldati
con prefazione di Cesare Garboli
Adelphi, Milano 1991
pp. 159
€ 7,23

Questo racconto lungo autobiografico (scritto già nel ’35 ma a lungo rimasto sepolto tra le carte di Soldati e pubblicato da Garzanti solo nel 1955) rappresenta un interessante caso di “romanzo di formazione” novecentesco. Vi si racconta la crescita difficile e, in particolare, i rapporti contraddittori con l’istruzione, nonché l’iniziazione erotico-sentimentale di Clemente Perrier, giovane della media-borghesia. Dopo un primo desiderio di ribellione alle regole scolastiche, il ragazzino scopre le prime pulsioni erotiche, sempre connotate da senso di colpa e timore di commettere peccato. Anzi, pare proprio che parte dell'attrazione scaturisca proprio dall'idea di infrangere le regole dell'educazione e della fede. Primo oggetto di desiderio è una sconosciuta adulta e prosperosa, intravista e sfiorata appena in ascensore: ricordo che turba il giovane Clemente, diviso tra tentazione e paura di compromettere definitivamente la sua “innocenza”. Infatti, cresciuto in una scuola religiosa e in una famiglia fortemente cattolica, Clemente dal suo punto di vista il sesso è fortemente implicato con il peccato, e pertanto il ragazzo si sente in dovere di confessarsi di continuo dopo le sue fantasie. Tuttavia, non dice mai la verità e, anzi, talvolta si compiace di turbare il padre confessore: la fede per Clemente non è altro che abitudine e ritualità.
Queste sono le coordinate generali della prima parte del romanzo (per inciso, le pagine scritte di getto da Soldati nel ’55): seguono altre due parti, dedicate all’infatuazione di Clemente per una amica di famiglia adulta, la provocante e libertina Jeannette, che sembra ora sedurre il ragazzino e ora trattarlo maternamente. Nello stesso tempo, il protagonista intuisce gli equilibri familiari stentati, a cominciare dal rapporto adultero della madre con il medico condotto, di cui intuisce la relazione in una castigata e simbolica "scena primaria". Il tema erotico si complica con uno svelato rimando alle pulsioni omosessuali del ragazzino, ancora incerto e confuso.

Come ha sottolineato Cesare Garboli nella sua bella introduzione, La confessione è «un racconto fatto di cinismo e di amore, nato dal piacere di sentire unite, di tenere unite in uno stesso sapore e in una stessa emozione due realtà così inconciliabili» (p. 14). Infatti, Clemente esibisce un’ingenuità solo presunta, in realtà risultato in parte di un’artificiosa recita: fingere di non sapere gli permette, infatti, di assistere indisturbato alle azioni degli adulti. E l’esito è un racconto lungo piacevole, frizzante a tratti, secco come Soldati ama fare, dai risvolti psicologici profondi.
Se Garboli segnala la distanza di Clemente dalle figure di altri giovani protagonisti del Novecento, come Agostino di Moravia (clicca qui per l'invito alla lettura) e il Törless di Musil, non mancano invece contributi che rilevano la loro vicinanza (1). In ogni caso, l’opera di Soldati si inserisce in una dinamica di rimandi e di possibile dialogo con altri grandi prove del genere della formazione, ma raccontato secondo un punto di vista originale, leggero, e di piacevole lettura di uno scrittore cosmopolita, secondo la definizione di Sanguineti.

GMG

1)Mi riferisco in particolare al saggio di Valentina Mascaretti, Agostino e i suoi fratelli. Una ricerca tematica sull’adolescenza nella narrativa del Novecento, «Poetiche», vol. 7, n. 2, 2005, pp. 221-255.

Non fatevi prendere dal panico (uno di cinque)

Guida galattica per gli autostoppisti
di Douglas Adams
Oscar Mondadori (1999)
pp. 212

Lontano, nei dimenticati spazi non segnati nelle carte geografiche dell’estremo limite della Spirale Ovest della Galassia, c’è un piccolo e insignificante sole giallo. A orbitare intorno a esso, alla distanza di centoquarantanove milioni di chilometri, c’è un piccolo, trascurabilissimo pianeta azzurro-verde, le cui forme di vita, discendenti dalle scimmie, sono così incredibilmente primitive che credono ancora che gli orologi da polso digitali siano un’ottima invenzione.

Aprire un pacchetto e trovarci dentro proprio il libro che volevi leggere fa spuntare un bel sorriso. Del resto, se la colonna sonora di questo periodo sono i Radiohead, non potevo non avvicinarmi al primo capitolo della “trilogia in cinque parti” di Adams, libro che, grazie a Gianfranco Franchi, ho scoperto aver ispirato parecchia della loro musica.

Per chi non lo sapesse, la Guida galattica è un libro di un milione di pagine in formato elettronico (non perdiamo di vista che Adams l’ha ideata alla fine degli anni ’70!) con stampate sulla copertina le parole “Non fatevi prendere dal panico”, strumento indispensabile per tutti quegli autostoppisti che vogliono vedere le meraviglie dell’universo con meno di 30 dollari altairiani al giorno!
I personaggi di questo lavoro di Douglas Noel Adams sono surreali, come surreali le loro avventure. Dopo la distruzione della Terra, Ford Prefect, ricercatore per la nuova edizione aggiornata della Guida galattica, e Arthur Dent, unico terrestre sopravvissuto, si ritrovano a bordo dall’astronave Cuore d’Oro. Alla guida del mezzo Zaphod Beeblebrox, Presidente della Galassia con la mente manomessa e Tricia McMillian, anche lei autostoppista. Con loro anche il mio preferito: Marvin, il tenerissimo robot depresso, prototipo non troppo riuscito della nuova tecnologia CPV, Carattere da Persona Vera, che con le sue battute paranoiche, ossessionanti e, allo stesso tempo, di una eccezionale intelligenza, è riuscito a farmi scoppiare a ridere spesso e volentieri (qualche assonanza con il Paranoid Android dei Radiohead?!).

- Sì, ho forse detto qualcosa che non va? - fece Marvin, continuando a trascinarsi con aria apatica. - Scusate se respiro troppo forte, in realtà io non respiro, come avrete notato, per cui non capisco perché ho detto scusate se… Dio, come sono depresso! Ecco qui un’altra di quelle porte così soddisfatte di sé! Ah, la vita! Non parlatemi della vita!

Il viaggio è movimentato dai Vogon che, secondo la Guida galattica, sono una delle razze più antipatiche della Galassia con una pessima propensione per la scrittura di poesie. La meta? La Risposta alla Domanda Fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto.

Dopo aver divorato il libro, non ci si stupisce di quanto successo abbia avuto. Ispirato ad una trasmissione radiofonica in onda alla BBC, l’ironia di Adams ha conquistato cinema e televisione. Sarei pronta a scommettere che anche Matt Groening si sia ispirato alla Guida Galattica per i suoi Futurama.
La forza dell’opera sta nel presentare una storia assurda e illogica con semplicità e verosimiglianza, quasi fosse reale. Adams inventa nomi, luoghi e situazioni con ironia e naturalezza disarmanti che stupiscono il lettore, piacevolmente sorpreso dalla genialità di certe trovate.

Ma [la Guida Galattica] non è soltanto un libro notevolissimo, è anche un libro di enorme successo, più popolare di Costruitevi la seconda casa in Cielo, più venduto di Altre 53 cose da fare a Gravità Zero, e più controverso della trilogia filosofico-sensazionale di Oolon Colluphid, Anche Dio può sbagliare, Altri grossi sbagli di Dio e Ma questo Dio, insomma, chi è?

Il linguaggio è essenziale. Adams non si perde in troppe delucidazioni e abbellimenti che avrebbero lo stesso effetto della spiegazione di una barzelletta! Da non sottovalutare, poi, che si tratta di una versione tradotta: l’originale è, naturalmente, in inglese. Pur non avendo letto la versione in lingua, posso dire che il racconto sembra non aver risentito della traduzione, appare completo e la comicità immediata e costante.

Come ogni lungo viaggio che si rispetti, è necessaria una sosta per rifocillarsi e riprendere le forze: 
Hei, terrestre, non hai fame? – disse la voce di Zaphod. – Ehm, bè, sì, ho abbastanza appetito – rispose Arthur. – E allora andiamo a mangiare un boccone – lo invitò Zaphod. – Il Ristorante al Termine dell’Universo è giusto da queste parti.
Qui, solo per il momento, lasciamo i nostri personaggi.
Non prima, però, di aver svelato La Risposta alla Domanda Fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto. Volete conoscerla?
La Risposta è Quarantadue!

Silvia Surano

La festa del grottesco con Ammaniti


Che la festa cominci
di Niccolò Ammaniti
Einaudi Stile libero Big, Torino 2009
pp. 328
€ 18,00

In questo romanzo, diventato straordinariamente presto bestseller, torna l’Ammaniti pungente e cinico, grottesco e dissacrante che non risparmia la società contemporanea tra una risata e una riflessione seria, tra battute in romanesco e quadri di spietata crudeltà. Le due storie che costituiscono il romanzo lo dimostrano, fin dalle prime pagine: una setta satanica di dubbia serietà e uno scrittore vanesio sulla cresta dell’onda. Cosa possono avere in comune? Nulla, direte; in realtà, dietro all’apparente distanza, la stessa profonda solitudine e la perenne ricerca dell’approvazione altrui: i membri della setta cercano la celebrità nell’universo esoterico solo per trovare un loro posto nel mondo; lo scrittore si elogia continuamente e si fomenta con deliranti dichiarazioni d’onnipotenza per nascondere la paura del rifiuto e della critica.
Ma non crediate che Ammaniti abbia scritto un romanzo di manifesta critica alla società di massa: tutt’altro! Questa nostra chiave di lettura è celata dietro a una prosa come sempre scattante, che privilegia dialoghi mossi e verosimili, descrizioni satiriche di personaggi spinti fino alla caricatura o al picaresco, con una penna tagliente e divertita. E si ride: questo è l’effetto finale; si ride senza misura, specialmente nelle prime due parti del romanzo (in totale quattro), grazie agli irrinunciabili stratagemmi che non passano mai di moda dell’iperbole e dell’equivoco. Dall’ambiguità di frasi e situazioni nascono infatti eventi paradossali, assurdi e godibilissimi, che sembrano denunciare la stupidità di certe reazioni e la doppiezza dei personaggi.

Con un’efficace architettura narrativa, Ammaniti monta i fatti mantenendo la suspense e, soprattutto, senza mai dare interpretazione degli eventi: è il lettore a scavare nei doppifondi del libro, trovandovi lo squallore di tanti rapporti umani e la vuotezza di senso di altrettanti gesti, ma anche il ruolo determinante del caso, vero regolatore della vita. Tutta la seconda metà del libro è infatti dominata da un precipitare degli eventi verso sciagure apocalittiche: non nascondo che, a mio parere, l’autore si sia lasciato un po’ prendere la mano dal gusto manga per la violenza gratuita e l’orroroso, in un trionfo di morti senza senso, ferite purulente e circhi di catastrofi. Tuttavia, anche questa scelta non è casuale: oltre a ribadire il peso del destino sulla vita dell’uomo, denuncia atti di egoismo e coraggio nei momenti di pericolo, filtrando solo parzialmente i pensieri dei personaggi.

Capovolgimenti e continui colpi di scena catturano anche il lettore più distratto, continuamente sollecitato a girare pagina per la storia tanto avvincente e piacevolissima. Da evitarsi invece per chi vi cerca un profondo risvolto letterario o per gli stomachi deboli e avversi al grottesco.

GMG

Un "poeta a tempo pieno" del Duemila: Armando Garbarini


Sarò poeta
di Armando Garbarini
con illustrazioni di Alessandra Colnaghi
Prospettiva editrice, Roma 2004
pp. 65
€ 8.00

Time
di Armando Garbarini
con la riproduzione dei quadri di Emanuela Lucaci
Prospettiva editrice, Roma 2009
pp. 106
€ 11.00


È difficile il cammino di “poeta a tempo pieno” nel Duemila: Armando Garbarini, giovane (nato negli anni Settanta) ma molto prolifico autore vigevanese, vi riesce. Pluri-premiato e avvezzo ai concorsi letterari (si veda l’ampia pagina bibliografica che correda i libri, ma disponibile anche sul suo sito), Armando Garbarini non si perde d’animo in questa società che sembra ridurre la poesia a una passione di nicchia. E non rinuncia a percorrere una strada di personale semplificazione lessicale, che si contrappone alla poetica criptica e profondamente ripiegata su sé di tanto Novecento. Anche per questo nei libri di Armando, a partire dal volume Sarò poeta del 2004, la scelta del verso libero è controbilanciata da una ripresa piuttosto frequente di rime facili, talvolta baciate, e di un lessico quantomeno quotidiano, per non dire a volte abusato. La semplicità stilistico-lessicale potrebbe rispondere all’universalità dei contenuti, da comunicare nel modo più immediato possibile. L’estasi dell’amore e della conoscenza, il sogno di diventare poeta (si veda anche l’Introduzione) e il desiderio di scoprire generano un fortissimo vitalismo: l’io lirico non teme il dolore, ma l’apatia (La forza del tuo cuore), e così la scomparsa della donna non getta il poeta nella disperazione, ma negli appelli resta un velo di speranza (Dove sei). La curiosità poetica (e prima di tutto umana) di Armando Garbarini emerge con forza dal testo La mia ignoranza, vera e propria professione di un mondo ignorato, ancora da scoprire.
Per quanto la raccolta Time sia profondamente cambiata e testimoni il percorso di crescita dell’autore, si ritrovano l’insistente presenza dell’io-lirico, spesso ribadito dall’iterazione dei possessivi e della prima persona, nonché da un alto tasso di agentività. Tornano anche le allitterazioni e le rime, che scandiscono la lingua d’uso e le iterazioni. Vera marca di Garbarini è in entrambe le raccolte la forte commistione di arti: le poesie sono sempre accompagnate da illustrazioni e quadri che ne offrono un’interpretazione (ricordiamo in Time la presenza insolita di una riproduzione delle bozze autografe). Inoltre, potremmo anche pensare a un “Garbarini-vate”: nelle raccolte, profondamente studiate nel loro divenire, non c’è pagina in cui il poeta non si esponga direttamente, intervallando talvolta le poesie con massime di gusto sentenzioso e filosofico.
Sperimentale, in Time, la scelta di offrire le poesie in italiano e in inglese: la traduzione offre spesso chiavi di lettura alternative che chiariscono o che affiancano al testo in italiano un secondo significato. È da segnalare anche il motivo poetico da cui sono nate queste poesie: gli esperimenti fisico-nucleari al CERN di Ginevra, a cui l’autore ha assistito con la pittrice Emanuela Lucaci. L’esperienza ha segnato profondamente le poesie, in cui Garbarini infatti propone il tema della fugacità del tempo, che gli eventi felici possono però fermare in momenti irripetibili, e nei ricordi. Come si legge in Mirrors of violent stream, il poeta prende anche coscienza del relativismo che regola il mondo, non interpretato in chiave negativa ma, al contrario, come possibilità di attingere da molteplici punti di osservazione altrettante visioni della vita. Ancora viene cantato l’amore (spesso rivolgendosi a un “tu” indefinito), di cui viene rilevata l’infinibilità e la potenza («un vero limite non c’è mai,/ non c’è mai quando si ama», da Timeline). Tuttavia, pare nuovo il punto di vista da cui l’io-lirico osserva: è come se si trattasse di un viaggio molecolare, o comunque particellare, all’interno della materia e, noi crediamo, dell’energia, che traspare di verso in verso.

GMG

L'epoca geniale

L'epoca geniale e altri racconti
di Bruno Schulz
Einaudi, 2009

“Quando le radici degli alberi vogliono parlare, quando sotto il tappeto erboso si accumulano molti e molti passati, vecchi racconti, antichissime storie, quando sotto la radice si ammucchia troppo brusio soffocato, troppo tessuto inarticolato, e quell’oscuro affanno che è prima di ogni parola, allora la corteccia degli alberi annerisce e si fa tutta rugosa, spaccandosi in grosse scaglie, in solchi profondi, il midollo si dilata in pori oscuri, come una pelliccia d’orso.”


Scendendo sul personale, potrei magnificamente riprendere questo breve periodo e riscriverlo a caratteri cubitali sulla parete di una grande stanza bianca ed entrare ogni mattina per iniziare la giornata facendo colazione con deliziosi biscotti di poesia. Questi sono brani che vivono di vita propria, sono rivelazioni che testimoniano quanto la fabulazione visiva possa essere in grado di cogliere il sublime nel quotidiano, la polpa creativa nel frutto ordinario della vita. Se da una parte il grande maestro polacco riesce a creare pittoreschi scenari servendosi dell’umilissimo mezzo della parola, dall’altra svela tutta la razionalità critica di giudizio di cui è straordinariamente capace. Per comprendere a fondo la vena elegiaca che vibra costantemente la prosa di Schulz, è necessario affidarsi alla lettura del saggio “La mitizzazione della realtà” dove espone la sua filosofia del vivere e del rapportarsi con il mondo fenomenico. Schulz mette in risalto l’assoluta importanza della parola come punto d’inizio, principio d’origine da cui tutto ebbe esordio, incanalando la sua riflessione nell'ambito di un piano mistico ed arcaico risalente alla nascita del mito. Egli ragiona per immagini servendosi di tagli fotografici che colgano l’essenza delle cose interpretate attraverso un'acutissima sensibilità. Il mito per Schulz è un modo per riorganizzare le immagini affastellate della mente, cercando di attribuirle una consequenzialità logica trasfigurata nel vorticoso lancio metafisico che compie la coscienza nel momento stesso della contemplazione. Sarebbe riduttivo definirlo solo uno scrittore geniale; fu anche un discreto pittore ma ciò si dimostra poco rilevante per penetrare e apprezzare in conclusione i prodotti del suo spirito. La genialità di Schulz non è da ritrovarsi nei contenuti ma nella travolgente capacità di inghiottire cose, odori, suoni, malattie, gioie e melanconiche velature di ricordi nell’unica grafia della parola in grado di emozionare. Ribalta la prosa tradizionale, la trama si perde nei lacci filamentosi dell’immaginazione e della sensazione, frammentate dalla mente pensante che prova un continuo ed eccitante stato di stupore. Il mito è la prima testimonianza di un linguaggio essenzialmente visivo, simbolico, che si muove nei cardini della percezione sensoriale per rivelarne poi, in un secondo processo interpretativo, la purezza originaria ed incontaminata della sostanza. L’immaginazione si fa poetica, la sensazione visiva diventa prosastica: se i suoi racconti conservano ancora l’illibatezza di una visione priva di deducibilità logica, lo stile con la quale Schulz ci narra sembra non essere sorretto da un ordine attendibile e cronologico. “La funzione più primordiale dello spirito è il favoleggiare, è la creazione di storie. […] La conoscenza altro non è che la costruzione di un mondo, giacché il mito è già insito negli elementi stessi, e al di là del mito non possiamo spingerci”. Non solo per Schulz tutto si riconduce al mito, ma anche l’uomo stesso è produttore di miti. Il mito è portatore di poesia, nonché liberazione della creatività stessa che sta alla base di ogni espressione artistica. Schulz non è uno scrittore, ma pittore, poeta, nomade spirito che traduce e pensa attraverso le immagini, è profeta, scenografo, incantatore di menti. Il grande utilizzo che egli fa della metafora, ci designa quanto Schulz voglia estirpare il linguaggio poetico ed elegiaco dalla sua natura tradizionale, proponendo una nuova forma di raccontare e di sentire. Arriverà a dire che le cortecce degli alberi diventano rugose perché le parole, le lacrime, le gioie, i sorrisi, si erano frammentate perdendosi nelle cadenze lignee delle loro “pellicce d’orso”. Arriverà a concepire la realtà come una grande raccolta di miti da cui succhiare la linfa poetica che le anima dal profondo in una vera e propria “mitizzazione del reale”. Schulz è riuscito a conservare il vagone infantile dell’immaginazione, a proteggerlo dai venti schivi delle bocche maturande, a coltivarlo nel gemito del suo dolore tramite una scrittura che si è dimostrata libera e svincolata dai canoni tradizionali del novecento. Parallelamente alla concezione del mito, Schulz elabora la poetica dell’epoca geniale, “un’epoca non localizzata in alcun anno del calendario, sospesa al di sopra della cronologia, un’epoca nella quale tutte le cose respiravano nel bagliore di colori divini, che si sorbiva tutto il cielo in un respiro come un sorso di puro oltremare”. L’epoca geniale è la realtà interiorizzata, è la realtà poetica che si fa beffe del tempo costruendo un personalissimo mondo che interpreti quella natura già vissuta e ripetuta dagli uomini visti come massa d’insieme, come “folla”. Possiamo ingenuamente considerarla come una sorta di fuga da quel mondo fatto di violenze antisemite, di guerre e di discriminazioni. Ma immaginazione e realtà in Schulz non sono entità separate: convivono amabilmente nello stesso identico piano lavorando in modo autonomo e sostenendosi reciprocamente. Nei racconti di Schulz si respira armonia, ci s’incammina verso un melodico percorso che ci prende per mano, indicandoci la via per il buon sentire, per la buona musica, per il buon modo di saper vedere. Dunque potremmo identificare nei suoi scritti anche una sorta di involontaria educazione all’ascolto sincero e passionale delle cose minute per dare senso e vita a ciò che di per se stesso è racchiuso nell’abbozzo di un astruso significato. Ma ciò che rende ancor più straordinario il suo modo di fare poesia in prosa, è come egli concepisce la parola. La eleva, la glorifica, la rende preziosa ed importante come la tessera di un mosaico, essenziale per costituire un’opera che splenda di luce.


“La vita della parola consiste nel fatto che essa si tende, si espande in migliaia di combinazioni, come il corpo squartato del serpente della leggenda, i cui pezzetti si cercano reciprocamente nell’oscurità. Questo organismo della parola, sbriciolato in migliaia di frammenti ma integro, è stato lacerato in espressioni singole, in suoni, nel linguaggio corrente. […] Quando la parola, liberata da questa costrizione, è lasciata in balia di se stessa e restituita alle proprie leggi, allora in essa ha luogo una regressione, una corrente a ritroso, la parola anela allora agli antichi vincoli, a completarsi nel senso e questo anelito della parola verso il suo nucleo ancestrale, la sua nostalgia di ritorno, nostalgia per l’antepatria verbale, è da noi chiamato poesia”.


Nel pieno atto di una rivoluzione intellettuale, Schulz dichiara l’indipendenza della parola, la redime dalla vecchia catena di un linguaggio prosastico che occulta il procedere libero ed irrazionale della poesia che soffonde la complessità del reale. E’ come se Schulz si prendesse coraggio e colorasse tutto ciò che ha scritto di una leggera velatura lirica, che emozioni anima e corpo, pensiero e sensazione. Per questo egli si spinge e riesce ad andare oltre; perché nei suoi racconti si può sentire (e non vedere), la brillantezza dei colori, l’andamento di una carezza, il tappeto del silenzio della notte che accheta i tumulti umani. Schulz restituisce il valore d’origine alla parola, la scarnifica da fraseggi barocchi rendendola autonoma e padrona di se stessa. Questo è il più alto e supremo compito della letteratura in quanto si assiste alla sublimazione dell’Arte stessa, divenuta per l'osservatore non più effimera contemplazione che appaga attimi fuggevoli, ma educazione alla vita, a quel difficile processo interiore che ci conduce a dimenticare di vedere cominciando a sentire.

S. Rondelli

Come le mosche d'autunno: il mondo letterario di Irène Nèmirovsky

Come le mosche d’autunno
di Irène Némirovsky
Adelphi, 2007 (I ed. 1931)


Irène Némirovsky può essere a ragione considerata una delle migliori scrittrici del secolo scorso. Nata nel 1903 a Kiev da una famiglia ebrea, trascorse l’infanzia in Russia e, allo scoccare della Rivoluzione bolscevica, fuggì con la famiglia in Francia dove visse gli anni più felici della sua vita sino alla Seconda Guerra Mondiale, soprattutto grazie alla passione per la scrittura, alla quale aveva iniziato a dedicarsi, già adolescente, in Russia. Morì ad Auschwitz nel 1942.
La scoperta dei suoi racconti e dei suoi romanzi mi ha consentito di gustare pagine che hanno la bellezza dei classici e che sono, per motivi differenti, molto vicine alle grandi letterature russa e francese che l’autrice ha amato e dalle quali, si nota chiaramente, è stata fortemente condizionata.
L’impronta dei primi racconti è di tipo introspettivo. Emerge da subito la spiccata tendenza all’analisi dei rapporti e delle dinamiche familiari, sorrette quasi da una volontà catartica di rielaborare, mediante la scrittura, il rapporto di risentimento e rancore che ha con la madre, donna incapace di donarle una qualsiasi forma di amore, interamente presa da sé stessa e dalla propria vanità. Questa tacita rivalità, il bruciante desiderio di vendetta si condensano nelle pagine di Il Ballo (1930), che sprigionano, con una forza dirompente, tutto il dolore di un sentimento filiale respinto e di una cieca ambizione materna.
La lente è ancora puntata sull’universo familiare in La moglie di Don Giovanni (1938), altro piccolo gioiello letterario, in cui, attraverso le lettere di un’anziana domestica, viene svelata la verità di una difficile storia familiare percorsa da vendetta e tradimenti.
Ma l’opera che ho trovato ancora più incisiva e completa, nelle sue sole cento pagine, è il breve romanzo Come le mosche d’autunno, pubblicato in Francia nel 1931.
Vi è racchiuso l’intero senso della scrittura della Némirovsky ed è percorsa da tutti i temi portanti della sua produzione: la memoria, i legami familiari, l’impetuosa aggressione dei tragici eventi storici che devastano e cancellano tutto, eccetto il ricordo di un passato felice: quello di una nobile famiglia russa travolta dalla rivoluzione e dalla guerra.
Perno del romanzo dal punto di vista strutturale ed emotivo è il personaggio di Tat’ jana Ivanovna, anziana nutrice che ha trascorso tutta la sua vita nella grande tenuta dei Karin e che commuove il lettore con il suo carico di sconfinata devozione nei confronti dei padroni. Ha visto nascere e crescere molti membri della famiglia Karin, ha assistito ogni anno all’arrivo puntuale dei rigidi inverni russi e delle successive stagioni, dedicando tutta se stessa alla cura di quel microcosmo di storie e di affetti, per cinquantuno anni. La scena con cui si apre il romanzo vede proprio Tat’ jana salutare in una notte di Natale i giovani Jurij e Kirill, in procinto di lasciare la famiglia e la casa dell’infanzia. È arrivata la guerra e lei sa che nulla sarà più lo stesso.
L’intreccio procede in maniera molto lineare,per quadri, singole scene a carattere quasi “teatrale”. La Némirovsky racconta la fuga della famiglia dalla Russia e il lungo viaggio che li porterà in Francia, con un’esplicita rievocazione della propria infanzia e un rimando a quella che è stata la propria fuga dal paese natale. L’anziana nutrice li ha serviti e amati per generazioni e adesso soffre terribilmente nel vederli girare a vuoto come le mosche d’autunno: « Camminavano avanti e indietro da una parete all’altra, in silenzio, come le mosche d’autunno, allorchè passati il caldo, la luce dell’estate, svolazzano a fatica, esauste e irritate, sbattendo contro i vetri e trascinando le ali senza vita ».
Tutti i personaggi, ma soprattutto quello dell’anziana donna e del padre Nikolaj Aleksandrovič, vivono il presente nel ricordo di ciò che è stato, degli anni trascorsi nella tenuta che ormai non potranno più tornare. Vicini ai personaggi di Cechov, sono caratterizzati da una cupa rassegnazione e da una dolente nota di malinconia, ma hanno la forza di cambiare, di adattarsi a un mondo nuovo fatto di automobili, cafè parigini, luci di lampioni e lunghi autunni che non passano mai, con il cuore colmo di una “malinconica serenità”. Ma Tat’jana, che continuerà a prendersi cura di loro, vivrà fino al suo ultimo giorno conservando nel luogo più profondo dell’animo l’immagine degli amati inverni russi, « Karinovka… La grande casa con le finestre immense da cui l’aria e la luce entravano a fiotti, le terrazze, i salotti, le gallerie che nelle sere di festa potevano ospitare comodamente cinquanta orchestrali ».
Ho ritrovato nel romanzo la dimensione realistico – introspettiva dei grandi maestri russi che porta la scrittrice a concentrarsi più sulle situazioni interiori dei personaggi che sugli sviluppi esteriori della vicenda; il tutto è unito a una scrittura essenziale, attraverso la quale la Némirosvky tratteggia i caratteri, in maniera formidabile, sin dall’inizio. Spiccata, inoltre, la vena lirica di alcune pagine.
Trovo che sia una scrittrice capace di esprimersi al meglio nella dimensione del racconto o del romanzo breve, attraverso la quale è stata in grado di creare delle strutture che definirei “perfette”, compiute, vicine, ripeto, alla grandezza dei classici. Ciò, anche e soprattutto, grazie alla capacità di analizzare i grandi temi universali della letteratura e della storia umana con una scrittura di forte potenza e capacità di penetrazione.

Claudia Consoli

L'ultima scelta dell'acrobata

L'ultima scelta dell'acrobata
di Yuri Rutigliano

Montedit, 2009

“Ogni amore è preoccupazione/ è notte insonne a pregare”. Propongo questo distico a incipit dell’analisi della prima raccolta di Yuri Rutigliano per l’amarezza e l’inquietudine di cui sono intrisi e che reputo indicativi del percorso del metaforico equilibrista, l’amante appunto, “costretto nuovamente al rischio del baratro”.
Il verso libero comunica la variazione del ritmo, l’incalzare del pensiero e dell’emozione, con un’oscillazione tra sezioni traboccanti di sentimento, straripanti come fiumi in piena, e sezioni epigrafiche, quasi iscrizioni lapidarie sulle panchine di un parco.
Tanti e vari i campi semantici utilizzati per tradurre in parole l’ineffabilità, la difficoltà del sentimento e, particolarmente suggestiva, la resa in chiave musicale dei “sussurri rediesisminore e sibemolle/ […] Tutti discorsi musicati in accordi minori”, a sottolineare i toni sommessi di un dialogo malinconico che prosegue, nonostante il trascorrere logorante del tempo, in un’epistola in versi.
Le “poesie del malamore”, come le definisce l’autore, trovano il loro emblema nell’immagine di “quei due splendidi salici piangenti/ che si amano da sempre/ senza essersi mai potuti abbracciare”, e che ha il suo riscontro più onirico in un brano di grande visionarietà che arriva ad antropomorfizzare il vegetale e deumanizzare il poeta in uno sfalsamento temporale che, come nella prosa contemporanea, mesce i paini cronologici della narrazione: “E racconterai la storia fantasiosa e incredibile/ del salice piangente che fu marinaio/ che morì mille volte senza morire mai/ parlerai al pubblico addormentato/ del passato del presente e del futuro/ e riuscirai ad essere precisa/ solo su quello che dovrà ancora venire/ perché il passato e il presente quasi mai/ mantengono le promesse del futuro.”
Il “tu” onnipresente dell’interlocutrice resta nel più spettrale anonimato quasi fosse davvero un fantasma della mente dell’io lirico. Nessuno pseudonimo, nessun parallelismo con figure della mitologia per riferirsi a questa donna-ombra, non siamo di fronte a un “tu” montaliano. La donna, descritta in pochi tratti, non si concretizza con forza icastica in un oggetto reale al contrario dell’ autore, il quale si rispecchia nell’uragano, nel mare in burrasca, nel salice, nell’albatro, forse, in quest’ ultimo caso, con qualche reminiscenza dell’idea bohemien di un artista incapace di vivere sulla terraferma, sospeso invece in aria, sul vuoto, proprio come un’acrobata. Ma, nonostante questa presenza impalpabile, la donna riveste un ruolo da coprotagonista perché: “la tua assenza/ non mi toglierebbe niente di te/ perché mi farebbe mancare me stesso/ mi ridurrebbe ad una frase sospesa/ ad un’espressione del viso senza emozione/ ad un teorema senza soluzione/ ad un’equazione nella quale l’incognita/ lo rimarrebbe per sempre”. L’uso di termini tratti dal campo delle scienze esatte testimonia la grande apertura della poesia contemporanea verso i linguaggi settoriali e dimostra la possibilità, come direbbero in campo musicologico Dalhaus ed Eggebrecht, di emozionalizzare ciò che è mathesis matematizzando quel che concerne la sfera del pathos. E, a chiusura della raccolta, l’ansia dell’io lirico scaturisce in una dimensione universale ricollegando il dolore del poeta a una “furiosa tristezza primordiale”, qualcosa di ancestrale e quasi geneticamente trasmesso: “Solo sui treni trovo per qualche minuto la pace/ forse perché il loro ballare sui binari/ riporta la mia inquietudine ad antichi retaggi”... e credo che lo stesso lettore sia portato a condividere la sorte dell' io lirico, lasciato “in sospeso” a cercare un equilibrio precario sul filo di una domanda che cerca di intuire se, alla fine, nel determinare il corso di un amore, conti maggiormente “il destino/ l’errore che l’acrobata ha messo in conto” o, come sostiene l’autore, un' "ultima scelta”.

E. M. Esposto Ultimo

Essere l'altro


LA FORZA DELL'EMPATIA
Una storia dei diritti dell'uomo
di Lynn Hunt
Editori Laterza 2007



L’uso dell’espressione diritto naturale è tanto comune che non esiste un uomo che non sia convinto dentro di sé di conoscere con chiarezza il concetto. Questo sentimento interiore è comune al filosofo e all’ignorante.

Così Diderot si esprimeva riguardo a le droit naturel. In questo saggio stravagante la Hunt cerca di seguire il processo che ha proiettato il diritto naturale nella dimensione di una coscienza universale e che ha reso concepibili le due pietre miliari della storia dei diritti, le Dichirazioni del 1776 e del 1789. La sua teoria si basa sul legame tra ciò che avviene all’interno del sé e i fenomeni sociali che cambiano la Storia, analisi che parte dal presupposto che questi ultimi siano il prodotto dell’elaborazione e della maturazione di una certa visione del mondo. L’interiorizzazione della visione del mondo che portò a dichiarare i diritti di ogni uomo subì una decisiva accelerazione nel XVIII secolo grazie a nuovi strumenti di diffusione del pensiero e a nuovi tipi di esperienze che rafforzarono le pratiche culturali dell’integrità fisica e dell’individualità empatica. La storia dei diritti umani infatti sembra erigersi su quella del concetto di autonomia, principio fondante della stessa corrente illuminista, un’autonomia morale ed etica (etsi deus non daretur), un’autonomia politica ( lo stesso Jefferson che pure riconosceva una paternità divina ai diritti affermava che è poi l’uomo a doverli conservare attraverso l’istituzione di governi).

Il saggio però si concentra su una forma di autonomia meno trattata, quella del corpo, quale consapevolezza sempre più profonda della sua separatezza e inviolabilità . Quanto più è forte questa consapevolezza tanto più possiamo riconoscere nell’altro un nostro simile e quindi fare esperienza della forza dell’empatia. È come se all’inizio di questo percorso si scatenasse un impulso egoistico e solo un attimo dopo si giustificassero tali pretese con un linguaggio universale che ammette l’io e gli altri, in quanto simili, a godere dello stesso diritto. La stessa immedesimazione dunque che porterà all’abolizione della tortura è la conseguenza di una maggiore spinta individualistica intesa come coscienza del sé. Kant ci spiega l’Illuminismo scrivendo che è “ l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità che è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro”. In questa frase non a caso compaiono i termini se stesso e altro come termini di una relazione necessaria certo, ma che deve essere fondata sulla reciproca autonomia che significa anche riconoscimento. Pensando ad esempio a quanto è difficile definire il concetto di giustizia, mi viene in mente una delle massime che ritroviamo in tutte le religioni “non fare agli altri quello che non vorresti gli altri facessero a te”, cos’è questa se non empatia? Capacità di uscire fuori da se stessi e porsi nell’altro. Il celebre costituzionalista Zagrebelsky scrive “è più semplice dire cosa non è giusto che cosa è giusto”. Nel XVIII secolo ad esempio la tortura inizia a far inorridire, questo perché cambia la visione del dolore e del corpo che non appartiene più alla comunità e non è più veicolo di espiazione di colpe collettive ma è dell’individuo.

Una delle pratiche culturali che maggiormente influirono sull’accelerazione dello sviluppo di un’ empatia sociale, che oltrepassasse i confini del proprio nucleo familiare e delle persone vicine (non vera empatia ma familismo amorale come direbbe Banfield), è stata sicuramente la lettura di romanzi e quotidiani che hanno delineato la figura di una comunità immaginaria e valorizzato una moralità laica attraverso la vita ordinaria dei protagonisti. La Hunt si sofferma sull’analisi di alcuni romanzi “Giulia o la nuova Eloisa” di Rousseau, “Pamela” e “Clarissa” di Richardson tutti pubblicati nella seconda metà del XVIII secolo in Europa e “Robinson Crusoe” pubblicato nelle colonie americane nel 1774. Leitmotiv di questi romanzi, non a caso epistolari, tecnica narrativa che agevola l’immedesimazione e allo stesso tempo contiene una presenza più imponente dell’io, è il desiderio di autonomia: dalle proprie passioni, dall’autorità del proprio datore di lavoro, dall’autorità dei genitori e delle convenzioni, fino ad arrivare alla storia di un naufragio che insegnerà all’uomo come provvedere a se stesso; metafora visionaria della successiva dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America dalla madre patria? A ben rifletterci i diritti che si sono affermati con la rivoluzione francese, una rivoluzione borghese, riguardano tutti libertà da, e bisogna attendere il XX secolo per la conquista di quei diritti che sono libertà di.
Molti sono gli altri segni superficiali di questa profonda trasformazione culturale che avrà conseguenze politiche e giuridiche: il consolidamento stesso della persona riservata, di un maggiore pudore riguardo l’espletamento delle funzioni corporali ,come non fare bisogni in pubblico, non usare indumenti per ripulirsi, non gettare escrementi dalla finestra (pratica perpetrata fino alla metà del XX secolo in molti luoghi dell’entroterra), ascoltare la musica o guardare gli spettacoli in silenzio per favorire la riflessione, la distribuzione dello spazio nelle case cercava di rispettare la riservatezza personale, il dominio della ritrattistica tra le arti visive è un’altra forma raffinata del bisogno individuale di manifestarsi. Chiaro che questi cambiamenti dello stile di vita valgono per le classi nobili. Anche quando parliamo di diritti di ogni uomo non bisogna dimenticare le limitazioni nell’ estensione a donne, schiavi, uomini al di sotto di un certo censo, minoranze religiose e questo proprio perché erano considerati privi di una capacità morale autonoma e di discernimento.

Il saggio si apre con una considerazione che torna alla fine come una domanda alla quale non si è in grado di rispondere: se questi diritti sono di per sé evidenti come dicono le stesse Dichiarazioni perché c’è bisogno di affermarli? Ma soprattutto possono considerarsi universali se non sono applicati in tutti i Paesi del mondo? Se sono continuamente violati?Come promuoverne la diffusione? La Hunt conclude scrivendo che “la storia dei diritti umani dimostra che alla fine il miglior modo per difendere i diritti è affidarsi ai sentimenti, alle convinzioni e alle azioni di un gran numero di individui che chiedono risposte che si accordino con il loro senso dell’indignazione”.

Virginia Woolf fra i suoi contemporanei


Virginia Woolf fra i suoi contemporanei
a cura di Liliana Rampello
Alinea Editrice, 2002


La scelta di riproporre ai lettori di Critica Letteraria una recensione su Virginia Woolf non deriva soltanto dal fatto che io sia a stretto contatto con questa scrittrice per motivi di studio, ma anche e soprattutto dal tipo di volume che ho scelto di recensire. Non si tratta di un libro di Virginia Woolf, ma su Virginia Woolf. Apparentemente questa non sembrerebbe una novità, ma non si tratta di un normale studio di carattere critico: in realtà è un libro che serve a ridisegnare il profilo di un’autrice di cui si è formata nel corso del tempo un’immagine a tinte scure, risultata banalizzante per una figura molto complessa, ricca di sfumature che non tutti gli studi hanno saputo mettere pienamente in luce.
Liliana Rampello compie, in questo modo, il tentativo di ridare voce alla Woolf mediante le voci di coloro che l’hanno conosciuta come scrittrice e come donna. Tredici donne e quattordici uomini ne offrono un ritratto sotto il profilo personale-biografico e intellettuale e l’averli accostati permette ai lettori di costruire, anche compiendo delle proprie scelte di lettura fra esse, un’immagine tutta nuova della scrittrice.
L’opera di Virginia Woolf è stata sovente valutata solo alla luce degli eventi traumatici e luttuosi che hanno caratterizzato la sua esistenza portando alla nascita di studi, come quelli femministi in chiave psicoanalitica degli ultimi trent’anni, che non hanno reso giustizia a una figura di donna e di autrice in realtà molto più articolata. Le interpretazioni continuamente focalizzate sulla sofferenza e sul senso di fallimento hanno rischiato di mettere in ombra il suo coraggio e il suo intenso amore per la vita.
Dalle lettere, dai diari e dalle testimonianze di chi ha vissuto accanto a lei emerge il suo pibisogno intimo, profondo di vivere l’esistenza in tutti i suoi aspetti vari, catturandoli e doppiandoli sulla pagina attraverso l’atto dello scrivere, che si configurava come tentativo di catturare la vita stessa. La malinconia e le ombre di una personalità che a tratti viveva con dolore la propria esperienza nel mondo non devono tradursi nell’immagine di una donna che non amasse o sapesse vivere. Da quella dell’amica e amata Vita Sackville West, a Clive Bell, Angelica Garnett fino a letterati del calibro di Thomas Stearns Eliot, Edward Morgan Forster e Cristopher Isherwood o alla cuoca Louie Mayer, tutte le testimonianze raccolte dalla Rampello avvicinano la scrittrice al lettore mostrandone, oltre alle indubbie capacità scrittorie e compositive, e all’innato dono di “raccogliere la vita”, il lato più umano e quotidiano. Ne raccontano l’atteggiamento durante le occasioni ufficiali, le crisi che la allontanavano per lunghi periodi dal caos londinese (senza il quale non poteva vivere e scrivere), l’inesausta ricerca di verità, la sete di aneddoti e lo straordinario senso dell’umorismo. La sua intelligenza, la curiosità per gli esseri umani e l’acuta sensibilità sono fra le doti maggiormente decantate, ma non manca chi ne critichi il carattere pungente, l’atteggiamento fiero, secondo alcuni snob.
Il filo rosso che collega tutte le loro parole è l’affetto, o comunque l’ammirazione per l’eccezionalità della sua figura. Ma il libro è anche una miniera di preziose informazioni riguardanti la società londinese dell’epoca e il fermento culturale che vi trovava posto in anni di rivoluzioni come quelli primo novecenteschi, di radicale messa in discussione di valori estetici, formali, artistici. La sua appartenenza al Bloomsbury Group, i contatti con il mondo editoriale e gli intellettuali più influenti del periodo ne determinavano una posizione centrale che farà dire a Eliot: « con la sua morte è venuto meno un intero schema culturale » ed è difficile che le generazioni future comprendano a fondo l’effettiva posizione e l’importanza del ruolo che ha rivestito.
Non sempre nell’accostarsi agli scrittori si ha la possibilità di entrare in contatto con il loro mondo privato, i loro atteggiamenti giornalieri, le loro abitudini. Spesso quello che si sa del loro profilo biografico viene semplicemente analizzato in funzione della loro produzione o viceversa, in una sorta di legame vita-opera che alla lunga può svilupparsi come un circolo vizioso che le appiattisce l’una sull’altra.
Il lettore troverà nel volume molti particolari gustosi, ricordi commossi e appassionati, velati di tristezza o percorsi di strenua militanza. Un approccio così “intimo”, come quello che questo libro propone, permette di valutare diversamente vita e opera, soprattutto nel caso di una scrittrice sulla quale sono state scritte montagne di studi, analisi, critiche. Ma penso si tratti di uno dei testi migliori che si possano leggere nel caso si fosse interessati a lei e alle sue opere, perché fornisce notizie che altrimenti si ignorerebbero del tutto e stimola ad “ ascoltare ” con diversa intenzione. Virginia Woolf, con la sua immensa mole di lavoro e la sua passione per la vita resta un “ monumento della letteratura novecentesca ”, oltre che la prima scrittrice a rivendicare la libertà di essere una donna e una scrittrice, dopo secoli di dominio patriarcale che avevano rovesciato questo binomio in un disvalore.

Cos’altro dire di lei? I critici la includeranno tra le quattro grandi scrittrici inglesi. Gli amici ne ricorderanno la bellezza, l’unicità, il fascino. Sono molto orgoglioso di averla conosciuta. È stata la principessa incantata o la ragazzina cattiva al tè ‒ o entrambe, o nessuna? Non saprei. In ogni caso era, come dicono gli spagnoli, “molto rara” e questo mondo non era il luogo per lei. Sono felice di pensare che ne è libera, prima che tutto ciò che amava fosse definitivamente distrutto. Se dovessi pensare a un epitaffio per lei, preso dai suoi scritti stessi, sceglierei questo:
« era fatto, finito. Sì, pensò, mettendo giù il pennello spossata ho avuto la mia visione ». (Cristopher Isherwood)



Claudia Consoli

IL SOLE SI SPEGNE


"Il sole si spegne"
di Osamu Dazai
edizioni Feltrinelli



Una confessione triste e coraggiosa è il testamento di Naoji e insieme il lungo addio della classe aristocratica giapponese che negli anni del dopoguerra sarà definita “gente del sol calante”, ridotta in miseria da guerra e inflazione. Quell’aristocrazia genererà figli che proveranno a sopravvivere a questo cambiamento divorati però da un’ansiosa nostalgia per la purezza delle loro origini. Sarà fatale per Naoji lo scontro tra il suo orgoglio, sentimento invincibile dell’appartenenza aristocratica e l’invasione di valori prima sconosciuti e di nuove ostilità. “Il sole si spegne” è un vivo ritratto di quell’epoca e insieme un sentiero sul quale Osamu Dazai lascia tracce autobiografiche che rendono il romanzo un doloroso incontro con l’autore. Si crea una spaventosa intimità che a tratti è faticoso sostenere e può risolversi nella decisione sofferta di chiudere il libro senza sapere se mai si riprenderà la lettura.

Il libro esce nel 1947 e pochi mesi dopo la pubblicazione Dazai muore suicida nel lago Tamagawa, dopo una serie di tentativi precedenti di darsi la morte. La sua vita come quella del protagonista Naoji fu uno scandalo, consumata da alcol e droga, indebolita dagli effetti della decadenza che rese lui e la sua classe “vittime di un periodo di transizione della moralità”. La società appare spietata verso chi sta perdendo l’identità, travolta dagli ingranaggi della modernità: questo giovane aristocratico prova ad essere amico del popolo, a ribellarsi al sangue del padre e alla gentilezza di sua madre, a diventare rude bevendo e usando un linguaggio volgare ma per il popolo rimane solo un grande presuntuoso e per quelli della sua classe ormai uno sciagurato. Una figura che sfugge dunque ad una collocazione sociale è una figura che fa paura, paradossalmente nonostante sia impossibile ogni forma di controllo su di lui Naoji si sente debole, si uccide perché scrive “ci deve essere da qualche parte una grave manchevolezza”. Debole e schiacciata dal nuovo corso della storia è anche la sorella Kazuko, alla quale egli lascerà la lettera, che però coglierà in parte la sfida della corruzione dei costumi e della povertà che le riserva il dopoguerra. Se la storia di Naoji termina con la morte, quella della sorella genererà vita. Prima di essere un’aristocratica che inizia a lavorare la terra per necessità Kazuko è una donna e come tale non tradirà la propria natura: sarà madre. Il bambino che porta in grembo però è la conseguenza stessa della decadenza, un bastardo, nato fuori da ogni matrimonio, lo scandalo vissuto dai fratelli che si fa carne. Simbolo della vittoria di una rivoluzione morale che dilaga e si manifesta nella vita che continua. Tre generazioni a confronto: i fratelli Naoji e Kazuko vivono all’ombra della madre ormai anziana, ultima signora del Giappone, la amano, se ne prendono cura ma allo stesso tempo si sentono oppressi da questa presenza, non ammettono il desiderio di liberazione ma lo invocano. La madre incarna l’aristocrazia stessa; origini dalle quali è doloroso staccarsi ma quasi naturale, naturale per come sta andando il mondo, teatro di personaggi ibridi, come il bimbo che nascerà, che la nonna non conoscerà mai. Sono due mondi che non possono incontrarsi se non in questa sfortunata generazione di passaggio, quella di Naoji e Kazuko.

Nel romanzo vi sono continui riferimenti alla cultura europea, testimonianza del rapporto che lega ancor oggi il Giappone alla cultura occidentale. Rispettando la tradizione della letteratura giapponese Dazai rende con le parole la potenza e i colori delle immagini che descrive come metafore di sentimenti, sensazioni, presentimenti. I dialoghi brevi che sembrano a volte lasciati in sospeso prenderanno corpo in lettere e diari, segni di una scrittura intimista. Questo è un romanzo onesto che non pretende una lettura compassionevole perché i suoi protagonisti hanno provato ad essere liberi.