IV - Pino Roveredo - raccontato da Gloria M. Ghioni



Pino Roveredo è stato a Pavia,
nell'Aula Scarpa dell'Ateneo, alle h. 17.30 di lunedì 22 febbraio.

Ha presentato l'incontro: Giuseppe Polimeni, docente di Storia della Lingua Italiana presso l'Università degli Studi di Pavia.
Si ringrazia Costantino Leanti che ha organizzato quest'incontro della sua affermata rassegna "Quattro chiacchiere con...".


Pino Roveredo è un uomo che ha tanto da raccontare, e non si risparmia. Stretto nella sua cravatta, parla di un suo passato senza cravatte, figlio gemello di due genitori sordomuti, che gli hanno insegnato a crescere manifestando le proprie emozioni senza parlare, ma con l'immediatezza dell'abbraccio e la sincerità di uno sguardo. Con la voce rotta, lo scrittore risponde alle domande di Giuseppe Polimeni, che con grande sensibilità pone quesiti dalla difficile risposta: e così torna la sua adolescenza difficile in istituto, plasmato da una educazione coercitiva (che, dice Pino, mi farà senza dubbio incontrare i miei compagni in qualche istituto psichiatrico, o in carcere). Senza scudi difensivi, viene anche raccontata la difficile battaglia contro l'alcolismo, vinta non dalla forza di volontà, ma perché "un giorno capisci che hai un prezzo da pagare, e paghi". In queste esperienze poliedriche, la scrittura è sempre stata compagna, anche se qualche operaio, collega di lavoro di Pino, è scoppiato a ridere alla sua rivelazione: "Ho scritto un libro". Neanche la vittoria del Premio Campiello nel 2005 con l'acclamato Mandami a dire (Milano, Bompiani) cambia il carattere umile di Pino Roveredo, che con grande ironia riesce a tenere la platea col fiato sospeso per un'ora e mezza, e non senza commozione.

Pino risponde con gioia alle domande poste sempre con grande discrezione: ripercorre insieme ai presenti le tappe fondamentali della sua produzione, discute - anzi, chiacchiera - dei suoi libri e non tradisce mai le aspettative dei presenti. E' un autore, e prima ancora una persona, che non si nasconde dietro alle parole, ma che sente la bellissima urgenza di comunicare, evitando l'autoreferenzialità e mirando a lasciare una sensazione forte negli spettatori.
E di sensazioni ce ne sono tante: ammirazione per quelle storie che sono state sempre prima esperienze vissute, commozione per il difficile cammino che Pino sta percorrendo giorno dopo giorno, plauso per un "salvato dalla scrittura" (da qui il titolo dell'incontro), curiosità per le sue opere non ancora lette,...

Un incontro intenso, denso, gustato dal primo all'ultimo minuto. Abbiamo comprato quasi tutti una copia del nuovo libro, Attenti alle rose, sempre edito per Bompiani nel 2009. Ora non resta che leggerlo, e ogni tanto tornare a guardare quella dedica che incide la prima pagina: "A Gloria. Con gioia, Pino Roveredo".

L'aspettativa è alta.
A lettura conclusa, vi racconterò cosa ne penso.
Per ora, non ho ancora smesso di applaudire.

GMG

La Nigeria italiana


Alberto Mossino

Quell'africana che non parla neanche bene l'italiano

Edizioni Terrelibere.org
2008
240 pp. ca

prezzo 10€


Romanzo Finalista al Premio Calvino 2009




Una cosa è certa: al premio intitolato al grandissimo scrittore italiano scomparso nel 1985 la sanno lunga, tanto da riconoscere il giusto merito e valore ad un libro del genere, fuori da ogni convenzione e ordine precostituito. "Take care, baby",questo il titolo originale con cui ha partecipato al Calvino, è una splendida narrazione in prima persona nel ricco sottofondo afro dell'Italia, sorretta dal filo conduttore della relazione con una giovane e bellissima prostituta nigeriana a cui si inanellano come le perle di una collana svariate mini e macrovicende, simili per intensità alle tante appassionanti missioni di un gioco di ruolo, alla Dungeons&Dragons per intenderci. Lo stile è prettamente informale, una scrittura spontanea, rapida ed immediata, politicamente scorretta, trascrizione precipua di pensieri e linguaggio parlato, arricchita da numerosi e brevi excursus in inglese (traslitterati in italiano oppure con l'ortografia corretta), termini africani e slang. Largo uso si fa dell'indiretto libero, al punto da omettere anche i segni distintivi del discorso diretto (trattini, virgolette, ecc...) ad eccezione di un leggero rientro di pagina. Il protagonista, Franco, è il classico impiegato scontento del proprio lavoro, che, al contrario di depressi e deprimenti antecedenti fantozziani, si riscatta conducendo una vita fuor d'ufficio al margine della legalità e del senso comune, demolendo pagina dopo pagina stereotipi, luoghi comuni e pregiudizi, che si trovi in qualche centro sociale, african bar o pub. Il libro si pone come un abbondante fonte di informazioni sul mondo parallelo in cui vivono gli immigrati (africani la maggioranza, ma sono citati anche zingari e slavi), della stessa precisione di un documentario di Piero Angela, ma senza la sua eccessiva pedanteria, con uno sguardo interno alla problematica: la Nigeria italiana non è un caso di studio da maneggiare con i guanti, ma una realtà tangibile di cui ci si accorge e ci si rende consapevoli difficilmente. Dalle ampie vedute, privo di marcati sentimentalismi e approntato ad un relativismo morale di fondo, Mossino si rivela un bravo narratore, capace di far affezionare ogni lettore al suo personaggio con la sua opera cruda e sanguigna, ma proprio per questo estremamente piacevole, a spasso tra prostitute, droga, madam ed afro-gang. Un'opera di studio antropologico in cui soggetto ed oggetto arrivano fin quasi a coincidere, da leggere con prescrizione medica per menti ristrette. Un unico interrogativo, dato il finale elusivo: ci sarà poi un seguito e la classica happy end con matrimonio e tutti vissero felici e contenti?
Adriano Morea

Le "strane creature" di Tracy Chevalier

Strane creature
di Tracy Chevalier
Neri Pozza Editore, 2009

“Noi cacciatori di fossili trascorriamo ore e ore, giorno dopo giorno, davanti al mare, con ogni tempo. Abbiamo le facce scottate dal sole, i capelli arruffati dal vento, gli occhi perennemente strizzati, le dita screpolate. Le nostre scarpe sono bordate di melma e scolorite dall’acqua salmastra. La sera rincasiamo con le vesti sudice e spesso senza aver trovato nulla. Ma siamo pazienti e volenterosi e non ci lasciamo scoraggiare se ci capita di tornare a mani vuote. Ognuno di noi ha le sue manie […] ma siamo attenti a ogni dono che le scogliere hanno da offrirci. C’è chi vende ciò che trova e chi lo custodisce gelosamente. Prendiamo sempre nota del luogo e del momento in cui abbiamo scovato i nostri tesori e li mostriamo con orgoglio. Li studiamo, confrontiamo con diversi esemplari, formuliamo teorie sulla loro origine. Gli uomini le scrivono e le pubblicano sulle riviste scientifiche, noi dobbiamo limitarci a leggerle, purtroppo.”

Strane creature di Tracy Chevalier è uno di quei romanzi che ti avvolgono con la loro “aura”. Ambientato a Lyme Regis, nel Sussex, racconta la storia di Mary Anning che all’età di soli dodici anni dette un eccezionale contributo alla paleontologia trovando il primo esemplare completo di ittiosauro al mondo. L’autrice stessa ha dichiarato di voler rendere omaggio a una figura messa in ombra dalle ricerche ufficiali dei primi studiosi di scienze naturali che allora si interrogarono per cercare di capire di che esemplare si trattasse. Questa storia viene raccontata mediante un’amicizia femminile, quella con Elizabeth Philpot trasferitasi a Lyme da Londra assieme alle sue sorelle. La profondità di questo legame, colta nel suo progredire all’interno del romanzo, porta il lettore a una consonanza interiore con le due eroine cercatrici di fossili, e a una vicinanza che raramente si sviluppa con tale forza. A permetterlo la capacità di rendere “tangibili” e reali queste figure, scolpendo a tutto tondo le relazioni circostanti e un mondo in cui qualcosa pian piano cambiava. In molte pagine si trovano degli omaggi ai romanzi di Jane Austen (una delle sorelle Philpot è una profonda ammiratrice delle sue opere) ma l’autrice opera una sorta di capovolgimento laddove ci presenta delle donne che nel cuore dell’800 non hanno bisogno di un uomo per vivere, che dedicano la loro stessa vita a passioni come la botanica e i fossili e che, per una spinta e un bisogno tutti interiori, cercano di formare una propria cultura leggendo i libri di Georges Cuvier. La loro autonomia e indipendenza di giudizio le pongono in vistoso risalto rispetto a una società di gretti riti quotidiani nella quale solo gli uomini si considerano depositari di ogni conoscenza e le donne devono faticare per rivendicare le proprie scoperte. Come ne “La ragazza con l’orecchino di perla” mi è apparsa incontestabile la capacità di Tracy Chevalier di “dipingere” le atmosfere e i paesaggi che, romanticamente (in senso squisitamente letterario), contornano lo sviluppo interiore dei caratteri. E inoltre ritengo che il riferimento a vicende storiche costituisca un forte motivo di interesse del romanzo perché l’autrice illumina un periodo del quale tradizionalmente si pensa di conoscere gli avvenimenti, in realtà legati esclusivamente a poche, isolate personalità come Darwin: gli albori della teoria dell'evoluzione che ancora faceva i conti con la posizione di matrice religiosa dei creazionisti, i quali ritenevano il mondo fosse uguale a come lo avesse creato Dio 6000 anni prima.
La prosa dall’andamento piano e scorrevole ben si presta a far gustare ogni pagina di un romanzo che è allo stesso tempo “tradizionalmente ottocentesco” nel senso completo del termine, ma perfettamente adatto ai gusti di un lettore moderno che sia pronto a evadere immergendosi nell’atmosfera di un piccolo villaggio inglese a strapiombo sulla Manica e delle “strane creature” che popolano la sua scogliera.

Claudia Consoli

"Il Salotto": intervista a Maurizio Gramegna


Ciao Maurizio,
grazie davvero per aver accettato il nostro invito ed essere qui nel nostro “Salotto”. Finalmente possiamo farti qualche domanda sul tuo Caduti in volo (clicca qui per la recensione) e sulla tua carriera. Cominciamo…



Caduti in volo è un romanzo che si basa su fatti realmente accaduti: la lotta di compaesani che sono anzitutto uomini, e solo in un secondo tempo partigiani e camicie nere. Quali sono state le tue fonti? Hai raccolto testimonianze nei paesi dell’Oltrepò?
Prima di rispondere voglio ringraziare Gloria e gli amici di Critica Letteraria per l’invito, e per la passione, l’impegno e la non comune competenza che mettono nelle gestione del blog. [n.d.r. grazie!]
Ora passo a rispondere alla domanda. In realtà il racconto è sviluppato intorno ad un unico fatto realmente accaduto, una vicenda familiare che mio padre mi aveva accennato quando ero ragazzo, e mai aveva voluto approfondire, lasciando un velo di mistero nella mia memoria. Si tratta del tradimento di un fascista, Franco, nei confronti di Tino, partigiano, con le conseguenze che riguarderanno Agnese nella sua doppia veste di fidanzata di Franco e sorella di Tino (rimango nel vago per non svelare troppo del racconto). Tutto il resto è imbastito sulla conoscenza del periodo storico, sulla lettura dei testi scritti da chi ha vissuto in prima persona quei fatti, per citarne alcuni quelli di Ugo Scagni e Clemente Ferrario e, su tutti, sulla preziosissima opera “L’altra guerra” del professor Giulio Guderzo. Il periodo storico è ben inquadrato, ma i fatti narrati, così come le imboscate e le azioni partigiane, sono solo frutto della mia fantasia. L’idea di far conoscere la vicenda viene pertanto da lontano, ma si è concretizzata solo quando in me hanno trovato risposta alcune fondamentali domande. Come reagì la gente comune agli eventi della seconda guerra mondiale, della resistenza, del fascismo? Tutto ciò mi ha portato a posizionare l’obiettivo sui sentimenti più che sulle vicende, sulla “paesanità” più che sullo scontro politico.

Qual è il compito dello scrittore che si occupa di fatti storici, al giorno d’oggi? Esiste ancora a tuo parere una funzione morale, se non moralizzatrice?
Mi sono chiesto molte volte che senso avesse scrivere ancora di vicende legate alla Resistenza dopo più di 60 anni dai fatti. La risposta che mi sono data è che forse c’è uno spazio che riguarda la gente comune, coloro che non sono partiti da un’ideologia, ma hanno subìto tutto, il prima e il dopo, coloro che hanno dovuto decidere loro malgrado, e sono i più, se adeguarsi per sopravvivere o rimanere uomini nonostante tutto. Non sono sicuro esista una funzione morale o moralizzatrice, esiste però una sorta di redenzione per ciò che di vero c’è nell’uomo, per i valori dell’amicizia, dell’onestà intellettuale, della parola data. Retorica? Forse, ma ci credo.

Grandi personaggi, i tuoi, nella loro coraggiosa sopravvivenza al dolore. A tuo parere oggi questa forza d’animo esiste ancora?
È indubbiamente cambiata la società, sono diversi i problemi, diverso il modo di affrontarli. Oggi viene prima l’individuo, il vantaggio personale, sia esso economico o di potere. Un tempo, mi pare, veniva prima il dovere, il lavoro, gli affetti. C’è confusione, siamo strattonati dai reality, dalla scandalistica imperante in ogni settore, dalla politica all’economia, giù giù fino alle povere vicende di piazza del piccolo comune; non vedo più verità. Forse è andato perso il concetto di dignità come valore. Certo, per cercare un parallelo con i personaggi, quale padre di famiglia oggi troverebbe la forza di fermarsi ed agire per un bene comune? Siamo troppo abituati a delegare, a chiedere, tutto ci è dovuto. Quella era gente che sapeva di non potersi aspettare nulla, sapeva che il dolore che loro toccava in sorte non avrebbe avuto sostegno alcuno, se non appunto dagli affetti, e riusciva a trovare, lo ripeto, dignità comunque.

Tutti personaggi, e non semplici comparse in Caduti in volo: chi ammiri in particolare?
Non c’è un personaggio che preferisco. Se mi si consente una forzatura: ho grande rispetto per ciascuno di loro. In realtà sono quasi tutti personaggi positivi, se escludiamo Franco, il traditore. E comunque quello che non troverete nel romanzo è un giudizio su di essi. Alessandra Paganardi, in una recensione al libro, mi ha definito “autore equidistante”; credo sia corretto, sia il senso del mio scrivere. Caratterizzare e non giudicare. Ho cercato di mettere in rilievo qualcosa in ciascuno di loro, quasi associandoli a concetti astratti. Così potrei dire che Carlo è l’amicizia, Pietro l’emotività, il comandante partigiano la giustizia, Angelo l’onestà intellettuale, Marta la famiglia, Agnese l’amore, Tino l’uomo. Franco, ovviamente, la viltà. Vi sono poi personaggi all’apparenza minori. Giuseppe e Rina, ad esempio, che incarnano la gente comune, volutamente separati per genere, in quanto gli uomini e le donne hanno avuto durante la resistenza compiti ben precisi. Fossi costretto a fare una scelta, non sul personaggio, ma sulla sua storia, allora credo che sceglierei Agnese. La sua vicenda, il suo “farsi carico”, il suo “immolarsi” all’amore nel senso più alto del termine è esemplare, e va al di là dello spazio e del tempo. Avrei potuto ambientare un racconto su Agnese nel Settecento o nell’Afghanistan dei giorni nostri senza perdere una virgola della sua forza.

Biologo, narratore e poeta: cosa per te è un lavoro e cosa una passione? Come si coniugano?
Ho la fortuna di appassionarmi alle cose, e la testardaggine di approfondirle. Sono un curioso. La biologia è stata una delle mie prime passioni fin da giovanissimo. Fin dalle elementari alla classica domanda “Cosa vuoi fare da grande” rispondevo “Il biologo o il benzinaio”. La sorte ha voluto che seguissi la prima strada, anche se non so se sia stata quella giusta. Questo per dire che quello che faccio di solito ha un suo percorso, una maturazione, non amo l’improvvisazione. Come detto la mia formazione è scientifica, non umanistica, e ciò mi ha sempre posto un dubbio di inadeguatezza nei confronti dello scrivere. L’evidenza sta nel fatto che le prime pubblicazioni, prima di poesia e poi di narrativa, a parte due libri di storia locale su Portalbera, mio paese d’origine, arrivano verso i quarant’anni. Mi chiedi poi come si coniughino i due aspetti. Mi pare siano distinti l’uno dall’altro. L’unico aspetto che unisce biologia, poesia e narrativa sono il rigore, la serietà ed il rispetto con cui affronto ciascuno di essi.

Nella tua giornata qual è il tempo prediletto per la poesia, e quale per la narrazione (ammesso che si possano considerare abitudini)?
Non ho molto tempo libero purtroppo, ma trovo sempre un momento per una lettura, sia essa poesia o narrativa. Di norma è la sera inoltrata o la notte il tempo dedicato alla lettura, anche perché prima ho da fare con i miei due bimbi. Devo però dire che proprio grazie a loro ho un altro momento di lettura; quasi un rito. Ogni sera, accompagnandoli a letto, leggo loro favole e racconti che scegliamo insieme di volta in volta. Adoro farlo, e ritengo sia un ottimo modo per avvicinarli alla letteratura, … e poi me lo chiedono!

Pensiamo ora alla tua collaborazione con la rivista letteraria «La Mosca di Milano»: come consideri quest’esperienza?
È un’opportunità meravigliosa. E non tanto perché si entra in contatto con gli “addetti al settore”, quanto perché ho incontrato persone che affrontano la letteratura con grande competenza e serietà, con l’amore per il pensiero e la curiosità per l’altro. Mi apre la mente confrontarmi con loro. Non c’è “mestiere”, solo schiettezza, apertura ed umiltà.

Possiamo fare gli sfacciati e chiederti se hai qualche nuovo progetto? Ci regali un’anticipazione?
Sto lavorando ad una raccolta di poesie. È ancora presto per dire quando, ma credo che una pubblicazione sia prossima. Sarà un passo importante per me, per i temi che tratto nei testi e per la struttura che ho in mente per l’opera. Spero di poterne parlare meglio in futuro.

Grazie mille per la tua gentilezza e per la disponibilità, ma anche per l’amicizia che ci dimostri. A presto!
Intervista a cura di Gloria M. Ghioni

Anche il cuore deve imparare a Sentire

Il Sindacato dei Sensibili
di Annalisa Margarino

62 pag.ca

Edizioni La Riflessione, Cagliari 2010

Il racconto di Annalisa Margarino, “Il Sindacato dei Sensibili”, è un tentativo di trasmettere al lettore un nobile messaggio, ovvero quello di seguire sempre i propri sogni e prestare più attenzione ai propri sentimenti e a quelli di coloro che ci circondano.

Caterina, che sogna sin da bambina di avere un suo sindacato per difendere gli altri, si pone, da studentessa universitaria, la domanda: “Chi voglio difendere?”, trova la sua risposta nelle persone sensibili, ovvero quelle capaci di sentire il mondo ed entrare in risonanza con i caratteri degli altri. Apre così il suo sindacato a tutti coloro che ne hanno bisogno accogliendo nel suo piccolo garage le persone più disparate e aiutandole a risolvere i loro problemi.

Degne di nota, anche se non proprio originali, le metafore con cui Caterina cerca di aiutare i suoi “pazienti” a “sentire” se stessi e gli altri. Gli occhiali per vedere meglio i problemi e il vero carattere di una persona, gli apparecchi acustici per ascoltare adeguatamente le voci di chi ha bisogno di essere ascoltato, e il cruciale pianoforte che ognuno deve suonare per esprimere la musica del suo cuore. Il pianoforte è anche un rito di passaggio per Caterina stessa che, pur avendolo fatto suonare a tutti i suoi pazienti, non lo ha mai suonato. Sarà con l'intervento di Agnese, che coincide poi anche con la voce narrante del racconto, che Caterina farà vibrare le corde del centrale strumento, e la musica che ne verrà fuori, farà capire che a Caterina manca l'amore, per se stessa e per un uomo.

Altro punto cruciale del racconto è la lettera del sindacalista Vittorio, che farà capire a Caterina che dividere il mondo in Sensibili e Insensibili è una cosa crudele e sbagliata, poiché “Solo per il fatto che viviamo sentiamo”.

Grazie ad Agnese, Vittorio e l'insegnante Elena (prima nemica di Caterina e poi sua anima affine) la ragazza capirà che anche lei deve imparare ad ascoltare se stessa e che continuare a vivere nel suo universo fantasioso e ovattato non l'avrebbe mai portata a nulla di concreto.

La Margarino però affronta questi temi pesanti con una semplicità a tratti fastidiosa, accompagnata da una prosa non troppo scorrevole ed un lessico che purtroppo non vanta troppa varietà.

I dialoghi sono molto artificiosi, e, pur contenendo un nobile messaggio, non lo trasmettono nel migliore dei modi, i personaggi sono descritti in maniera molto basilare, sia nei tratti fisici che in quelli psicologici, e a dire il vero Caterina, la proprietaria del garage che ospita il Sindacato dei Sensibili, è descritta in maniera incostante, i suoi problemi emergono dal nulla senza un retroscena psicologico adeguato a spiegarli, insomma si ha la sensazione che tutto avvenga in maniera forzata e poco naturale.

Non migliorano il bilancio le storie di vita vissuta raccontate dai vari personaggi o da Caterina stessa, che, pur essendo verosimili e mirando ad insegnare qualcosa ad Agnese, e di conseguenza al lettore, purtroppo non hanno molto spessore.

Come già detto il racconto contiene un valido messaggio e fa trasparire una certa sensibilità della neo-scrittrice, ma, i personaggi piatti e stereotipati che non si staccano dalla pagina sono un ostacolo troppo grosso per il lettore, così come la sintassi eccessivamente semplice accompagnata da un lessico elementare sfortunatamente impediscono all'opera di prendere il volo, pur avendo i presupposti tematici per farlo. Sarebbe bastato un po' più di profondità narrativa e descrittiva per rendere il lavoro della Margarino una piccola bomboniera. Non dimentichiamo che comunque ci troviamo davanti al primo tentativo narrativo della scrittrice, che di sicuro avrà il tempo di maturare e migliorare ancora.

La poesia in divenire di Antonella Sanna

Utopia
di Antonella Sanna

0111 Edizioni
2008

Pare di guardare attraverso un vetro l'anima di Antonella Sanna, leggendone le poesie raccolte nella silloge Utopia. Un'anima in evoluzione e maturazione: i versi infatti abbracciano lo spazio temporale di otto anni, da quando l'autrice era un'adolescente ad oggi. E ci si trova tutto ciò che può accendere emozione in una giovane donna che cresce: la delicatezza dei primi amori, l'intensità della vera amicizia, le prese di posizione ideologiche, la malinconia tipica dell'età, e lo struggimento che ad essa si accompagna. Ma anche sentimenti forti che spiazzano come la bellissima e gotica "Ti odio" o "Su questa pietra" triste come una ballata antica, che si innalzano secche e dure tra poesie che sono invece soprattutto delicate e lievi.
Tra le righe si legge una grande passione per il Giappone come del resto lei ammette nelle note biografiche; in alcune sue poesie tale predilezione si riflette nel modo particolare di descrivere la natura, che ricorda spesso i versi di autori dell'Estremo Oriente, ma anche nel contrasto di delicatezza e violenza, di gentilezza e forza racchiuso nei suoi versi, caratteristica che si ritrova in anime e manga.
Un piccolo libro da gustare a poco a poco.


La Saga di Eymerich

Nicolas Eymerich, inquisitore
di Valerio Evangelisti

Edizioni Piccola Biblioteca Oscar Mondadori, 2004
274 pag.ca
€ 8,80


Pubblicato nel 1994, “Nicolas Eymerich, Inquisitore” è il primo romanzo di Valerio Evangelisti, storico di fama internazionale, che ha ottenuto ancor più notorietà grazie alla saga di Eymerich che lo ha reso uno degli autori italiani più tradotti all'estero.
Il romanzo è una commistione saggiamente strutturata di generi letterari e, proprio per questo, è riuscito a catturare l'attenzione non solo degli appassionati di fantascienza, ma anche di storia ed esoterismo.
Infatti nel romanzo il lettore seguirà tre storie parallele ad ognuna delle quali è dedicato un capitolo, ed è infatti con gran sorpresa del lettore che inizieremo la nostra lettura seguendo le vicende di Marcus Frullifer, un giovane ricercatore di fisica che ai giorni nostri cerca di far riconoscere all'università del Texas una sua teoria sui viaggi spaziali, passando poi al secondo capitolo che comincia ad illustrarci la “Deposizione anonima, come prescrivono le leggi internazionali, resa davanti alla Commissione Interspaziale di Cartagena il 14 novembre 2194, nella sessione dedicata all'inchiesta sul viaggio dell'astronave psitronica MALPERTUIS”, nella quale seguiremo le vicende di un astronauta a bordo della prima astronave psitronica progettata secondo la teoria di Marcus Frullifer. E finalmente nel terzo capitolo entra in scena l'inquisitore del titolo del romanzo, Nicolas Eymerich, Inquisitore di Saragozza, nel regno d'Aragona, realmente esistito nel XIV secolo d.C. Impegnato nella lotta ad uno strano culto pagano, attorno al quale si verificano strani eventi.
Da qui in poi lo schema dei capitoli sarà quasi sempre lo stesso, comunque seguiremo a capitoli alterni le tre storie differenti, che, inutile dirlo, il lettore scoprirà presto essere collegate anche se si svolgono su piani temporali diversi (presente, futuro, passato), rendendo l'intreccio del romanzo estremamente avvincente, poiché scoprendo cosa accade nel futuro o nel presente capiremo meglio cosa si trova a fronteggiare Eymerich nel passato.

Romanzo ricco d'azione, mistero, fantascienza e una storia d'amore, il tutto orchestrato nel migliore dei modi, alternando una narrazione incalzante nelle parti del viaggio spaziale, ad una narrazione ricca di descrizioni di luoghi, usi e costumi dell'Europa del 1300 vista attraverso gli occhi di un freddo e scrupoloso Eymerich che rende omaggio alla passione e al lavoro di storico di Valerio Evangelisti.
Forse è questo ciò che colpisce di più nel romanzo, il realismo con cui i luoghi e le azioni dell'inquisitore vengono descritte, la precisione con cui vengono illustrati i riti cattolici e pagani, l'etichetta di corte, l'abbigliamento dell'epoca, e la semplice chiarezza narrativa con cui vengono spiegati l'uso o il significato di un oggetto particolare. Insomma una perfetta ricostruzione storica, capace di incantare e incatenare il lettore al libro, soprattutto quando avvengono quei fatti strani, quegli avvenimenti misteriosi che Eymerich cerca di capire.

La saga dell'inquisitore ha raccolto così tanti consensi che nel 2007 è stato sviluppato anche un gioco di ruolo da tavola con l'ambientazione della saga di Eymerich, chiamato “Il mondo di Eymerich” basato sul d20 System, lo stesso di Dungeons & Dragons, in cui il giocatore si troverà a fronteggiare gli stessi misteri che stanno alla base dei vari romanzi.

In conclusione si tratta di una lettura leggera, poco impegnata, capace però di regalarci qualche ora di svago avendo tra le mani un prodotto valido dal punto di vista letterario e che può anche arricchire le nostre conoscenze storiche senza troppi sforzi.
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Lo schivo Salinger e l'Holden "commerciale"



Jerome David Salinger
Il giovane Holden

1951

240 pag. ca

Einaudi



Vorrei rendere omaggio, con questa recensione, alla memoria di J.D.Salinger, spentosi il 27 gennaio scorso. "Il giovane Holden" (traduzione di "The catcher in the rye", intraducibile in Italiano in quanto complesso gioco di parole) appare nel 1951 e subito riscuote un grandissimo successo, dovuto principalemente al suo incedere non convenzionale e al suo approccio intimistico e personale alla realtà, capace di ammaliare anche i palati più rigidi e severi con le sue riflessioni di un'attualità disarmante. Tutto questo al punto da farlo diventare un classico del romanzo che rasenta i limiti del commerciale. La troppa popolarità che ne è derivata ha sicuramente inficiato sulle possibili letture del romanzo, riducendole a semplice as it is priva di qualsiasi spunto critico che vada oltre l'innovativa schiettezza formale. Di riflesso Salinger si è letterariamente chiuso in sé stesso, infastidito dalla folla e dalle sue interpretazioni superficiali e fin troppo assenzienti della propria opera. In realtà "Il giovane Holden" è un libro pieno di spunti critici, nascosti forse dallo stile irriverente e cogitativo della narrazione. Non si pone come un'autobiografia fittizia (già all'inizio lo stesso Holden lo specifica), ma piuttosto come una raccolta di avvenimenti e soprattutto pensieri legati fra di loro per lo più con flashback più o meno estesi concentrati in pochi giorni di vagabondaggio a New York. Il ritmo della narrazione viene così scandito dall'uso frequentissimo di colloquialismi, assurti quasi ad espressioni formulari nella dizione omerica, con la differenza che essi avvicinano il lettore al protagonista, persona loquens e persona agens allo stesso tempo con delle piccole sfasature. Non è un romanzo di formazione nel senso stretto del termine, l'io narrante di Holden non ha subito un'evoluzione, una crescita che lo porti a vedere il suo passato con un determinato spirito critico. La sua pare una semplice voglia di raccontare un paio di giorni e senza alcun intento autobiografico. Ed è proprio nello stile innovativo e nel linguaggio irriverente e quotidiano che ha decretato da un lato il successo commerciale dell'opera di Salinger e dall'altro la sua sempre più superficiale lettura, volta a cogliere le interessanti dissonanze con la facciata del mondo di tutti i giorni, ma non le risoluzioni. Da ciò si intenda bene la ritrosia di Salinger, che trova come suo contraltare nel libro l'approdo ad Hollywood di un non meglio identificato scrittore, D.B. . Il vero spunto critico, la vera vis contenutistica di questo volumetto risiede tutta nella sua lotta all'ipocrisia combattuta dallo stesso Holden. "Tanto per cominciare, detesto gli attori. Non sono mai naturali. Credono soltanto di esserlo" dichiara il ragazzino sedicenne in un passo emblematico del libro. E' lui stesso un attore all'interno del romanzo, che calpesta l'ipocrisia del mondo esterno con una propria personalissima ipocrisia, capace di mantenersi, a differenza degli altri, genuina e con risvolti assolutamente naturali. Quando Holden mente o finge è perfettamente consapevole di farlo, in questo consiste la sua genuinità ed il fascino del suo racconto. Al contrario gli altri personaggi secondari che gli gravitano intorno si comportano secondo uno schema fisso, secondo quello che credono sia naturale fare e non secondo ciò che loro vogliano fare, a dispetto della genuinità o meno. Un mondo ricoperto di cartapesta e sintetico, in cui si tende ad essere ipocriti (dal greco hypokrités, attore) per un proprio vantaggio personale, plagiando natura e volontà ai fini del successo personale. Ad esso Holden contrappone il proprio cappello da cacciatore (che rimanda in un certo senso al titolo originale) e il guantone di suo fratello defunto, oggetti rifiutati entrambi dall'esterno che vengono ostentati come simboli di autonomia ed indipendenza. Ma non si cada nel rischio opposto e complementare di considerare troppo moralmente un libro del genere e catalogarlo strettamente sotto l'una o l'altra voce. "Il giovane Holden" rimane un caso letterario a parte, a seconda delle letture che se ne vogliano fare, che si presta sì a far da levatrice a numerosi spunti critici (gli excursus dei pensieri in stream of consciousness ne sono un ottimo esempio) ma non a generalizzazioni di qualsiasi genere; un libro che giace lì in ogni libreria che pretenda formalmente rispetto a prender polvere, in attesa di essere letto e compreso.
Adriano Morea

Riflessioni immortali

Intervista col Vampiro
di Anne Rice

Edizioni Teadue
361 pagine
€ 8,60

Intervista col Vampiro è un romanzo dalla difficile catalogazione, racchiude in sé almeno tre generi diversi. Si potrebbe dire che è un romanzo horror; gli ingredienti ci sono tutti, c’è il mostro, ci sono le sue vittime, c’è il sangue, la paura, una maledizione che è impossibile sconfiggere.
Contemporaneamente è un romanzo gotico; l’atmosfera è cupa, accadono avvenimenti inspiegabili, c’è sempre il forte sospetto che qualcosa di innaturale e sovrumano stia per accadere, c’è l’amore proibito, ci sono i vampiri del teatro, c’è la follia di Lestat e il dolore di Louis, l’amore tragico di Claudia e l’attrazione crudele di Armand.
E’ possibile affermare che è anche un romanzo storico-filosofico; l’azione si svolge in un contesto storico-culturale ben definito e che rispecchia perfettamente i fatti della vita reale, la precisione con cui Louis racconta la sua storia è realistica fin dalle prime parole che la introducono: “Avevo venticinque anni quando diventai un vampiro, era il 1791…”. Romanzo filosofico perché Louis è un esteta, ama l’arte, la musica e la letteratura, riflette tantissimo sul senso della sua vita e sulla sua immortalità, si pone problemi di morale e religione.
Chiariti questi tre punti principali mi sembra doverosa un’analisi dei personaggi principali del libro, perché attraverso essi possiamo risalire alle problematiche essenziali del XX secolo.
Il personaggio che più le incarna è senza dubbio il protagonista Louis ce ne rendiamo definitivamente conto dalle parole del vampiro Armand:
“No. Io devo entrare in contatto con quest’epoca” insistette con tono calmo, “E posso farlo grazie a te… non per imparare da te delle cose che posso vedere in una galleria d’arte o leggere nei libri più densi… tu sei lo spirito, tu sei il cuore”. “No, no”. Levai di scatto le mani. Ero sul punto di scoppiare in una risata amara, isterica. “Non capisci? Io non sono lo spirito di nessuna epoca. Sono in lotta contro tutto e lo sono sempre stato. Non ho mai avuto legami con nessun posto, con nessuno, in nessun momento!” Era troppo penoso, troppo vero.

Ma per tutta reazione il suo viso s’illuminò d’un sorriso irresistibile. Sembrava che stesse per ridermi in faccia, poi le sue spalle si scossero di questa risata. “Ma Louis” disse piano. E’ proprio questo lo spirito del tuo tempo. Non capisci? Tutti provano quello che provi tu. La tua caduta dalla grazia e dalla fede è la caduta di un secolo.
Credo che questo sia il nucleo del romanzo, il passaggio chiave per capire la costernazione di Louis, lui è diverso dagli altri vampiri del teatro che, come afferma sempre Armand, “Riflettono l’epoca in un cinismo che non può comprendere la morte delle possibilità; un fatuo, sofisticato indulgere alla parodia del miracolosa; una decadenza il cui estremo rifugio è la presa in giro di se stessi; una manierata disperazione.”
Louis riflette invece il cuore spezzato del XX secolo, l’infelicità dell’uomo che si vede impotente di fronte al mondo, la solitudine del singolo di fronte alla massa. La tragedia di chi ha ancora dei valori e non vuole rassegnarsi a perderli anche se nessuno li condivide.
Il vampirismo è solo una metafora, Louis avrebbe potuto benissimo essere anche un soldato che in guerra si rifiuta di uccidere il suo nemico, un artista che vede la sua arte incompresa dalla massa ignorante. L’essere vampiro di Louis è il pretesto narrativo per il quale lui analizzi a fondo se stesso, analizzi il valore della vita, lui che ormai è escluso dalla vita stessa, che dovrebbe guardarla con occhi distaccati, e invece è un vampiro con l’animo di un uomo. E’ questo che lo rende particolare e diverso dagli altri.
Claudia, la vampira bambina, la bambola di porcellana, la bambina eterna, incarna invece il senso di immobilità e di trappola che trasmette il nostro secolo. Claudia, vampirizzata all’età di cinque anni, cresce normalmente a livello intellettuale, ma le sue sembianze rimangono sempre quelle in cui la morte le ha fissate, generando in lei le più profonde crisi. Innamoratasi di Louis, si rende conto che il suo corpo non cambierà mai, che mai avrà le forme che suscitano attrazione e interesse in un uomo, che mai potrà appagare i desideri sessuali di Louis. Si sente in trappola in un corpo che non dovrebbe essere così piccolo, una mente adulta in un corpo da bambola di porcellana. Fuor di metafora, una mente intellettuale in un secolo di negligenza.
Lestat, ovvero lo stereotipo del tiranno, colui che vampirizza Louis e Claudia. E’ totalmente dominato dal desiderio stesso di dominare gli altri, di vivere nel lusso e nella ricchezza. Ricorda un po’ la classe borghese di inizio ‘900, e i politici dei giorni nostri… che sia un caso che alla fine del romanzo Lestat venga sconfitto da tutti i punti di vista da Louis? Si potrebbe leggere il tutto come un ideale trionfo dell’arte sul denaro.
Senza dubbio “Intervista col Vampiro” è un capolavoro della letteratura contemporanea, un romanzo che ha segnato l’esordio di Anne Rice nel 1976, un romanzo diventato best seller e trasformato in seguito in cult dall’omonimo film di Neil Jordan. La trama è avvincente, ricca di introspezione psicologica e analisi filosofica, etica e religiosa. La prosa per la maggior parte della narrazione è scorrevole, si ha davvero l’impressione di ascoltare Louis mentre ci racconta la sua vita, a volte però cade in periodi troppo complessi dovuti ad un abuso di subordinate che costringono il lettore a fermarsi più a lungo sulla pagina per comprenderne il significato.
Un libro che va letto e capito, che contrariamente alle apparenze racchiude molto di più di una semplice storia di vampiri, racchiude in sé l’essenza di un secolo.

Il cantastorie della "postmetropoli"

Lo sfasciacarrozze
di Riccardo Raimondo
A&B, Bonanno Editore (collana Euterpe), 2009

L’intimità del poeta come cassa di risonanza dell’universo. Il fascino del suono colto nella frenesia della “postmetropoli” che impregna i pori; una nota musicale; un colore vivace impresso sul fondo della retina. Ecco uno dei poli dell’ispirazione di Riccardo Raimondo, giovane poeta siracusano alla sua prima prova con “Lo sfasciacarrozze”. L’attrazione irresistibile per il gioco musicale delle sillabe, la dilatazione dei suoni in un tempo straniato: tutti elementi che si realizzano anche graficamente, sulla pagina bianca. Le poesie di Riccardo sono vere e proprie liriche “Free jazz”:

Gorgogliano i ricordi che dipingo,
come radio free jazz dentro la moca:
sapore di caffè cacao carioca
in schizzi di passato che non stinge.

Da leggere con gli occhi ma anche – soprattutto – ad alta voce: perché il virtuosismo grafico-timbrico del verso non è un divertissement fine a se stesso, ma concorre a dare un senso, un corpo, alla poesia. Quando la caccia alla parola viva – la parola che uccide – si risolve in musica, il percorso del poeta può dirsi completo: e questo si può dire, di certo, per alcune liriche in cui la disinvoltura del poeta è tale da suggerire una lunga, fruttifera auscultazione della propria sensibilità, ma anche la padronanza di mezzi tecnici maneggiati con grazia sorridente e, al contempo, dolente serietà.
L’attività del poeta è un’inesausta indagine su se stesso e sul mondo. Una ricerca che ha il sapore di una continua lotta contro il vuoto, mentre “la condensa è panna, il respiro è affanno”. L’anima si scompone nelle forze opposte che la rendono umana, divisa tra debolezza e forza, tra la consapevolezza del limite e un anelito di grandezza da gridare in maiuscolo:

Facciamola tremare questa vita.
FACCIAMOLA TREMARE!

E ancora indagare l’altrove. “Metafisica” è la tensione verso questo altrove – altrove poetico, amoroso, angelico, divino: attraverso la poesia, volo verso un primigenio stato di purezza, “p u r s e m p r e a s t e n t o!” perché il limite umano è dolorosamente presente.
Un limite innato, ma anche prodotto dalla storia. Il poeta, figlio della crisi e del triste vuoto del Potere, è l’unico cantastorie possibile “sulle macerie del consumo” ove i suoi simili fagocitano senza distinzione vita, ricchezza e lamiera arrugginita. Tale la realtà dello “sfasciacarrozze”, metafora non troppo celata del mondo che definiamo postmoderno.
Mi piace leggere in questi versi, nella mescolanza tra sperimentalismo e riferimenti alla tradizione mitologica, filosofica e poetica occidentale, un futurismo che si nutre di passato, invece di cercare di cancellarlo. Una poesia che gioca con se stessa ma non uccide il chiaro di luna, ma, anzi, vi affida il proprio destino.
Se l’universo è “friabile” (e non è un caso che questo aggettivo ricorra in diversi contesti), tale non è l’io lirico, che sorge tra le macerie vivo e capace di pensare un salto, di iniziare una danza, di intraprendere un viaggio. L’abbiamo detto all’inizio: l’interiorità del poeta è la cassa di risonanza dell’universo. Riccardo Raimondo raccoglie i pezzi di questo mondo di carcasse e ne fa un canto iridescente, a volte cinico ma più spesso intessuto di forza vitale, "m a g n i f i c o a m o r e p e r i s o g n i", dove il languore trasmuta in nostos:

E i tuoi versi sono briciole
di luce da seguire
fino al luogo dove spero d’arrivare,
fino a casa, sempre a casa,
dove io non sono più io,
dove sono nato eppur non ero io
dove l’anima è fiorita:
niente rabbia, immenso cielo: pura vita.


Laura Ingallinella

Il potere e la società


Power and Society
Harold Dwight Lasswell
Tr.it a cura di Mario Stoppino, Etas Kompass 1969.



Che cos'è il potere? Vi è una sola forma di potere o vi sono molte forme di potere? Il potere economico è una vera e propria forma di potere? In che modo esso influisce sul potere politico?

In Power and Society, l'opera che il grande scienziato politico americano Harold Laswell scrisse con il filosofo della scienza Abraham Kaplan nel 1945 (ma che pubblicò solo nel 1950), la ricerca di Lasswell attorno al concetto di potere, come concetto fondativo, ma non esclusivo, della Scienza politica, raggiunge la sua espressione più matura, compiuta, e analiticamente raffinata.

“Lo studio della politica è lo studio dell'influenza e degli influenti”, così Lasswell delimitava l'ambito della Scienza politica in Politics: Who Gets What, When, How, e in tutte le opere della prima fase della sua carriera, nelle quali il concetto di potere era pensato come sostanzialmente sinonimo di quello di influenza, ed inglobava così la quasi totalità dei fenomeni sociali. In Power and Society, invece, l'analisi si fa più fine e i due concetti sono tenuti distinti: l'ambito del potere è qui un sottoinsieme di quello dell'influenza, le relazioni di potere sono forme di esercizio di influenza coercitiva. L'individuo A esercita potere se partecipa alla presa di decisioni, cioè a mutamenti nella linea della condotta altrui collegati a sanzioni gravi (concepite come forti privazioni/vantaggi). In questo modo Lasswell poteva concepire la politica non in senso “convenzionale”, cioè, come si è soliti pensare, in senso giuridico-istituzionale, come l'ambito del governo, ma in senso “funzionale”(cioè in virtù della funzione che svolge nella società), cioè come l'ambito delle relazioni in cui è presente potere. Così, in Lasswell sono politiche le azioni di influenza di grandi industrie, banche, sindacati, gruppi di pressione, sull'azione del governo. Lasswell nega cioè la visione tradizionale della sua epoca secondo cui la Scienza politica, fondandosi sul concetto di stato, debba occuparsi solo dei rapporti tra governo e società, e fonda, invece, la Scienza politica, sul concetto di potere, che però non è l'unico ambito di cui essa si debba occupare, quanto più, come scrive Mario Stoppino, dell' “intero processo sociale in quanto venga influenzato dal potere”.

Valori e potere
In Power and Society Lasswell distingue otto valori, cioè otto gruppi di fini che gli uomini si pongono e che desiderano raggiungere (quattro di benessere e quattro di deferenza): salute, ricchezza, abilità, sapere, potere, rispetto, rettitudine, affetto. I valori, però, non sono solo concepiti come fini, ma anche come risorse che gli uomini impiegano per ottenere i valori concepiti come fini. Ogni forma di potere può basarsi su ciascuno dei valori indicati (valori di base), ed esercitare potere su ciascuno di essi (valori di sfera): in questo modo Lasswell, combinando i valori, ora come valori di base, ora come valori di sfera, concepisce una mappa di ben 64 forme possibili di potere.

Le èlites
Gli individui che hanno una posizione alta nella distribuzione di ciascun valore, sono le èlites (si consideri, che, generalmente, chi ha una posizione alta per un valore, ha una posizione alta anche in altri valori, cioè che i ricchi sono anche sani, popolari, istruiti, rispettati). Le èlites conservanoo la propria posizione di valore esercitando la violenza, controllando i beni materiali, e manipolando i simboli. In Politics: Who Gets, Lasswell sosteneva che la distribuzione dei valori nella società sia rappresentabile con modelli a forma di piramide, per cui pochi dispongono di grandi quantità di valori, le élites, e i molti, la massa, non ne dispongono. É esplicita ed evidente, perciò, la grande influenza che in Lasswell abbia avuto, oltre all'analisi marxista, alla filosofia analitica, al pragmatismo americano, e alla psicanalisi, l'innovativa corrente di pensiero dell'elitismo italiano, raprresentata dalle diverse teorie di Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels.

Come scrisse Peter Bachrach “l'effetto generale dell'analisi di Lasswell è di sottolineare una debolezza fondamentale della teoria democratica contemporanea. Attirando l'attenzione sul concetto funzionale di élite politica, egli mette in particolare evidenza l'inadeguatezza del nostro concetto di responsabilità”. Infatti, se ammettiamo che anche le decisioni di grandi industrie, Chiese, sindacati, sono decisioni politiche, perché non dovremmo ritenere in qualche misura anche esse responsabili di fronte ai cittadini, perché in qualche modo non dovremmo allargare l'ambito del metodo democratico a tutti gli ambiti in cui vi è potere?

Guerra e denaro: le grandi potenze secondo Paul Kennedy

Ascesa e declino delle grandi potenze
di Paul Kennedy
Garzanti, 2001 (I ed. 1987)

Quando lo storico inglese (ma americano d'adozione) Paul Kennedy pubblicò l’ampio studio intitolato The Rise and Fall of the Great Powers, esplose un caso politico che investì persino la campagna presidenziale dalla quale sarebbe poi uscito vincitore George Bush senior (1989-1993). Sorge spontanea la domanda: come poteva un libro, che in circa 800 pagine racconta più di cinquecento anni di storia, rivelarsi tanto provocatorio per l’America degli ultimi anni Ottanta?
Rispondere a questo quesito, in effetti, significa spiegare la profonda attualità del lavoro di Kennedy, e per farlo occorre partire da molto lontano. Tanta storiografia, dall’età classica a quella contemporanea, è infatti attraversata da una linea “organicistica”, che vede lo Stato come un organismo biologico, sottoposto a tutti gli eventi caratterizzanti le creature viventi. In poche parole: Rise and Fall, ascesa e declino.
A questa nozione occorre aggiungere un pizzico di relativismo: perché, Kennedy non smette di ricordarcelo, i concetti di “potenza” e di “ricchezza” sono quanto mai relativi. La grandezza di uno Stato si misura rispetto a quella dei propri antagonisti. Così, può capitare che un colosso come l’impero asburgico, dalle grandiose premesse dinastiche del Cinquecento, sia destinato a fallire per l’intervento congiunto di alleanze d’opposizione. Ma può capitare anche che un “porto franco” dell’Europa occidentale, la piccolissima repubblica olandese, riesca a tenere in pugno l’Europa per più di un secolo.
Perché sorgono alcune potenze? E perché, nonostante la loro forza, finiscono col fallire? Paul Kennedy sostiene una tesi tanto semplice quanto innovativa, che mette in relazione la sua passione per la strategia militare con ciò che muove il mondo e, per dirla con Vespasiano, non olet: il denaro.
La verità, secondo Kennedy, è che la vulgata secondo cui la guerra, e quindi l’investimento da parte delle grandi potenze nell’industria bellica e nelle conquiste, rappresenta una fase di sviluppo per quello stato, è falsa. Proteggere un territorio troppo esteso, coinvolgersi in guerre logoranti e dispendiose, far pendere l’ago della bilancia verso l’impegno militare: questa, in molti casi, è stata la causa del declino di una grande potenza. “Espresso in questi termini, suona aridamente mercantilistico, ma la ricchezza è in genere necessaria per sostenere la potenza militare, così come la potenza militare è di solito necessaria per conquistare e proteggere la ricchezza.”
Una relazione strettissima, quella tra ricchezza e potenza militare (dove ricchezza vuol dire “capacità di produrre e arricchire le casse dello stato”), un equilibrio precario e facile da spezzarsi.
Basta scorrere le pagine del saggio per rendersene conto: impero spagnolo, Francia assolutistica prima e napoleonica poi… Stati Uniti d’America. Mentre paesi come la Cina avanzano prodigiosamente nell’aumento delle proprie capacità produttive (spendendo assai meno nel campo militare), l’occidente si interroga sul suo stato di salute. Siamo nell’era della globalizzazione, e molto è cambiato dal momento in cui sorsero i primi “imperi della polvere da sparo”, ma le parole denaro, crisi, bancarotta e guerra hanno ancora lo stesso significato: e il libro di Kennedy offre un intelligente e completo quadro d’insieme, grazie al quale non potremo di certo tornare a guardare la storia con gli stessi occhi.

Laura Ingallinella

Una piccola bomboniera russa


Lev Nikolaevic Tolstoj



La morte di Ivan Il'ič

1886

92 pagg. ca


"Se la morte parlasse questa sarebbe la sua voce" disse Carlo Bo di questo agile volumetto, una piccola bomboniera se paragonato ai propri fratelli maggiori, frutto del lavoro alacre del grande romanziere russo. La trama è alquanto semplice, principiando ossimoricamente dal funerale di Ivan, il protagonista, si rivive in flashback la sua vita, piacevole e leggera nel primo tratto, prima della malattia che lo porterà alla morte, chiudendo l'anello di una riuscita ed evidente ringkomposition. Fosse tutto così semplice ed ingenuo non s'avrebbe molto da discutere, al solito la morte come entità ignota, limite entro il quale non si può tornare indietro, bla bla bla. Cos'è allora che interessa a Tolstoj? Scrivere un racconto lungo su materiale trito e ritrito dagli albori della letteratura? No, non è questo. L'autore penetra, con una particolare acutezza, nei meandri delle ampie volute della vita del suo personaggio, evanescente ed impalpabile come del fumo di sigaretta; ed è come se ad un certo punto svanissero ed evaporassero tutte le soddisfazioni della carriera, le gioie familiari, le amicizie e le partite a carte: tutto questo di fronte alla prospettiva della morte si dissolve colpito al cuore della propria ipocrisia. Sotto la luce funerea della sua fine imminente Ivan si rende conto di aver vissuto in maniera sbagliata, arriva ad una consapevolezza delirante delle menzogne della propria esistenza, tale da fargli accettare la morte così com'è, una cessazione delle proprie sofferenze e, nel suo caso, anche di quelle degli altri. Appena all'inizio del libro si discute, a tal proposito, dell'assegnazione del posto libero di magistrato lasciato dal defunto. Nella fugace ed incerta consistenza della vita terrena, di cui l'unica certezza è che prima o poi finisca, spuntano solitari piccoli bagliori a cui aggrappare gli occhi: questo nella sincera e genuina bontà del servo Gerasim, unica persona non malvolentieri vicina al moribondo. In ultima analisi Tolstoj, con le labbra di Ivan Il'ic, propone sottovoce non un'eventuale soluzione ad una morte ineluttabile, ma la possibilità concreta di avviarsi, ultima necessitate cogente (Seneca, De Brevitate vitae) ,ad una fine più dolce, appoggiandosi l'uno alla spalla dell'altro piuttosto che alle fragili sovrastrutture della società umana.

Adriano Morea

E se ti perdi, il danno è...


Se ti perdi tuo danno
di Renzo Brollo
Cicorivolta Edizioni, 2007

225 pp.
€ 12,50

“E Dio se ne sta appollaiato su di un trespolo, chi mangia alla sua destra, chi mangia alla sua sinistra. Comunque tutti mangiano.”

Renzo Brollo, con “Se ti perdi tuo danno”, scrive quella che principalmente è un’opera deistica, dedicata a Dio, su Dio e per Dio. Non è una provocazione, di quelle lapidarie e assai poco costruttive che oggi vanno tanto - troppo? - di moda, e che inequivocabilmente pongono Dio come capro espiatorio di processi ambigui, velleitari e ormai tristemente crepuscolari.
La presenza di Dio è centellinata dal Brollo in maniera intelligente; e il processo di livellazione della struttura deistica a quella romanzesca è frutto di congetture autoriali, da parte di chi “Se ti perdi tuo danno” l’ha scritto, intelligenti e soprattutto volte a rendere l’opera stessa fruibile per tutti.

Se ti perdi, tuo danno. Dove possiamo perderci? Dove si perdono i protagonisti dell’opera? La perdizione dei protagonisti nei meandri della loro psiche, nell’accartocciarsi delle loro certezze, nell’ingigantirsi delle loro legittime paure. Il romanzo è glaciale, imperturbabile e ghiacciato come le montagne e il fiume Salzach sapientemente descritti; una continua sinestesia che prova ad addentrarsi nelle pelli dei protagonisti, superficialmente avvezzi a vivere delle esistenze che loro malgrado ribalteranno del tutto quelli che erano dei punti saldi nel proprio vivere, dalle scelte sessuali alla fiducia nelle persone ritenute care. E la morte non sta soltanto nel grottesco (ma inevitabilmente necessario) mestiere svolto dai due protagonisti del libro, ma nei pensieri che vivacemente e drammaticamente corrono veloci e ineffabili dentro le menti di tutti gli altri personaggi, consapevoli di essere vittime di un destino (divino, e vaffanbrodo al laicismo disperato e sbandierato di chiunque) che si prende assolutamente gioco di ogni essere umano, al quale non è riservata né dignità nel dolore, né termine di sofferenza. I parallelismi tra le diverse storie (tutte legate da un medesimo fil rouge, s’intende...) permettono al bravo Brollo di dipingere una tela di dolori, frustrazioni e sentimenti che aumenta la sua intensità pagina dopo pagina, respirando sul collo di Hans, dei due protagonisti, di Luigi e della sua sventurata e pragmatica signora. Di una donna morta in maniera silenziosa, in punta di piedi, per non disturbare il marito.Di un prete che ammette le sue lacune davanti a Dio e ai suoi fedeli, di due scavezzacollo crucchi pronti perfino a svitare i cardini di una tomba per ottenere del danaro. Se ci perdiamo, è danno di tutti. Possiamo forse essere sicuri di trovare rimedio a tutto questo male che è nocivo per noi? Forse. La speranza non è di certo l’ultima a morire, può aiutarci molto prima. Il pietismo, la buona volontà, non sono soltanto robetta per prelati.

Se ti perdi tuo danno è un romanzo forte, che si fa desiderare per circa trenta pagine prima di gettarsi dentro le cornee dei suoi lettori, per poi non abbandonarti più, e che tenta in tutti i modi (e nel mio caso vi è riuscito) di provocarti, di stimolarti e di entrare nella storia per cercare di modificare e salvare tutto ciò che di negativo intravedi. Non riesci a riparare guasti nocivi ai protagonisti, ma il finale, colmo di bontà umana, e freddo come solo una terra vergine e poco disposta ad accogliere l’uomo come quella al confine tra Austria e Germania, è - se non conciliante - disposto a far credere a sé stesso e a noi lettori che sì, forse davanti al dolore aiutarsi è possibile. Certo, bisogna però tener presente quella scritta che, imponente e temeraria, campeggia sulla nostra t-shirt sbiadita. Se ti perdi tuo danno.

Giuseppe Paternò di Raddusa

La bottega dell' orefice

La bottega dell'orefice
di Karol Wojityła

Libreria Editrice Vaticana, 1992

“L’ amore non è un’ avventura. (…) Ha il suo peso specifico. E’ il peso di tutto il tuo destino. Non può durare un solo momento. L’ eternità dell’ uomo passa attraverso l’ amore. (…) L’ uomo si tuffa nel tempo. Dimenticare, dimenticare. Esistere solo un attimo, solo adesso - e recidersi dall’ eternità. Prendere tutto in un momento e tutto subito perdere. Ah, maledizione dell’ attimo che arriva dopo e di tutti gli attimi che lo seguono, nei quali cercherai sempre la strada per ritornare a quello già trascorso, per averlo di nuovo e, attraverso quell’ attimo, tutto.”


La bottega dell’ orefice, breve testo scritto da Karol Wojtila negli anni della giovinezza, affronta il tema dell’ amore coniugale, o meglio, del fatto che “al di là di tutti questi amori che ci riempiono la vita c’è l’ Amore”.
La scrittura è simile a quella di un testo teatrale con dialoghi e monologhi in prosa e versi e i frammenti di lettere che i protagonisti si scambiano. Le storie dei personaggi si intrecciano secondo le modalità del racconto in parallelo per ricomporsi al termine della vicenda. I richiami intertestuali (tra l’ altro abbastanza espliciti) si riferiscono alla parabola delle sette vergini sagge e stolte che tanta fortuna ebbe nell’ arte figurativa medievale e in cui le quattordici fanciulle divenivano allegoria rispettivamente delle virtù e dei vizi capitali (basti pensare agli affreschi di S. Agata dei Goti di cui parla Chiara Frugoni). Ma qui il focus si sposta dalla teologia ad argomenti di dibattito più vicini nell’ ambito di una fervente attualità. Tra i temi curati il lettore trova il fidanzamento, l’ abbandono, il divorzio, la vedovanza, il matrimonio come sacramento e come “pane quotidiano” della vita di coppia. Una specie di archetipo si potrebbe dire, con un accostamento volutamente azzardato, degli odierni “Manuale d’ amore”, “Love actually” e di tutti quei cult che ripropongono uno spaccato sociale più o meno realistico, più o meno edulcorato o intriso di sentimenti “buonisti”, che provano a realizzare una “collazione” di casi, emozioni e reazioni all’ interno del grande mosaico delle interazioni umane.
In cosa differisce allora questo libro rispetto ai prodotti per il grande schermo oltre al fatto di avere un afflato più drammatico e teatrale che propriamente cinematografico?
E’ indubbiamente possibile interpretare il testo secondo una chiave di lettura cristologica soffermandosi sul ruolo dell’orefice. E’ da questi che promana un’aura solenne, sacrale ma al tempo stesso premurosa e paterna.
E la figura di Adamo, che si inserisce a metà racconto, non è quella di un personaggio qualsiasi ma la proiezione del primo uomo alla ricerca di una compagna. Così nel corso dei tre capitoli, “I richiami”, “Lo sposo”, “I figli”, questa ricerca diventa anche formulazione di un interrogativo che il libro lascia volutamente aperto perché ogni lettore possa dare la sua risposta: “Certe volte la vita umana sembra essere troppo corta per l’ amore. Certe volte invece no - l’ amore umano sembra essere troppo corto per una lunga vita. O forse troppo superficiale. In ogni modo l’ uomo ha a disposizione un’ esistenza e un amore – come farne un insieme che abbia senso?”.

Esposto Ultimo Eva Maria

Il "Salotto": intervista a Gianfranco Franchi

Siamo felicissimi di ospitare Gianfranco Franchi, giovane autore e consulente editoriale che si è conquistato una folta schiera di fans gettando luce su quanto si cela dietro all’intera discografia dei Radiohead: un mondo fatto di tanta musica, letteratura ed esperienze di vita! Cerchiamo di scoprire quanto altro si nasconde dietro a questo bellissimo lavoro! (Leggi la nostra recensione: clicca qui)

Innanzi tutto, ti ringrazio moltissimo per la disponibilità che hai dimostrato senza esitazione.
Grazie a te, figurati. Hai scritto un bellissimo articolo, mi sembra il minimo. A proposito, grazie ancora.

Sul nostro blog abbiamo appunto recensito il tuo libro Radiohead. A Kid. Testi commentati. Sei un amante dei Radiohead. Questo è chiaro. Quindi subito qualche domandina musicale: la loro canzone che hai amato di più, quella che ascolti più spesso attualmente, quella che non tolleri proprio, quella che ti piaceva da morire e ora non ne puoi più di sentirla!
I Radiohead sono uno dei due miei grandi amori. L'altro sono i Joy Division. La canzone dei Radiohead che ho amato di più è sicuramente Paranoid Android. Non a caso, quello doveva essere il titolo del libro. È un pezzo fondamentale nel contesto del canzoniere di Thom Yorke, e non meno importante – scivoliamo sul personale - nella mia estetica. Quella che ascolto più spesso attualmente è Karma Police, perché ho imparato a capire cosa significava e adesso mi dà enormi soddisfazioni. Quella che proprio non tollero è A Punchup At A Wedding, sinceramente sgraziata, sbagliata, stupida, autoreferenziale. Quella che mi piaceva da morire e che non riesco più a sentire è Street Spirit. Probabilmente perché la associo troppo a certi momenti dell'adolescenza, lontani quindici anni; sono successe troppe cose nel frattempo, io non sono più io.

Quando non ascolti i Radiohead, che altro ascolti?
Finchè esistevano i negozi di dischi, ero la loro gioia. Avevo – ho – una discoteca da oltre duemila cd. Finché esisteva una certa cultura musicale, ero uno dei migliori amici dei musicisti: ero l'unico che conosceva certe band (che so, dagli Slint ai Vampire Rodents, dai primi Mogwai ai primissimi Mansun) e non aveva nessuna voglia di “fare” musica. Come ascoltatore avevo questo di raro: non ero e non sono mai stato un musicista mancato, e nemmeno un cantante mancato, niente. Ero semplicemente un grande innamorato della musica – in primis, alternative e indie rock, post rock, prog, trip hop, ma senza escludere la buona tradizione cantautoriale angloamericana e italiana e un po' di classica. Ma la tua domanda impone qualche nome. Ti nomino le mie dieci band preferite: Radiohead, Joy Division, Pink Floyd, Cure, Depeche Mode, Nirvana, Police, Verve (fino a “Urban Hymns”), Metallica (fino al “Black Album”), Sigur Ros. In panchina, Massive Attack e Led Zeppelin. Italiani, vediamo un po'. Qualche nome. Francesco De Gregori, Max Gazzè, Scisma (che gruppo stupendo che erano gli Scisma). Adesso mi sto appassionando ai The Mantra Above The Spotless Moon.


Grazie per i suggerimenti! Avremo un sacco di musica da cercare nel weekend!
A Kid è un concentrato di nozioni, rimandi, collegamenti con altre letture, canzoni, interviste, dichiarazioni, film… Sembra ci sia stato dietro un lavoro incredibile. Hai sempre saputo che prima o poi avresti scritto questo libro o arrivato ad un certo punto ti sei accorto di saperne così tante sui Radiohead da poterlo realmente fare?

Ho sempre sognato di poterlo fare e ho sempre pensato che c'era qualcosa, nel mio destino, di curiosamente e misteriosamente legato alla band. Nel libro accenno a un incontro fortuito, unico e speciale con mister J. Butcher, tanti anni fa. In Monteverde do qualche dettaglio in più. Quell'incontro, assieme a una serie di vicende personali un po' particolari, mi ha convinto che prima o poi avrei avuto a che fare con la band, e non solo con uno dei loro migliori amici. Questo libro era scritto nel destino. Scriverlo mi ha un po' svuotato, ma ho ricevuto così tante lettere dai fan della band che credo sia stato giusto dare tutto quello che avevo per la buona riuscita dell'opera.

Il tuo modo di scrivere mi ha incuriosito. Così a breve inizierò a leggere il tuo lavoro “Monteverde” per poi recensirlo. Che cosa pensi debba sapere prima di addentrarmi nella lettura?
Ti ringrazio. Ti do qualche indizio. Il vero titolo di Monteverde era New Order, aperto omaggio alla vecchia band di Ian Curtis. Il mio primo libro di narrativa si chiamava Disorder, aperto omaggio al primo album dei Joy Division di Ian Curtis. Monteverde - proprio come Disorder, uscito quattro-cinque anni fa - è una raccolta di racconti compatta come un romanzo. Sono 47: 47 sta per “morto che parla”. Protagonista è un certo Guido Orsini, che potrebbe vagamente somigliarmi. È il mio avatar, dai. Il libro è uscito ad aprile 2009, ha avuto un buon successo di critica e un onesto riscontro di pubblico. Non corrispondente a quello della critica, purtroppo. Sono piaciuto più alla stampa che ai lettori, in questo caso. Non ho capito perché – ma credo ci sia ragione di meditarci sopra.

Parlaci di te: che autore sei?
Sono un letterato puro, di formazione classica (Liceo Classico + Lettere Moderne) e grande e insaziabile amore per la lettura e per la comunicazione letteraria (e dello spettacolo) e per la storia e per il futuro della nostra grande letteratura italiana. Ho pubblicato poesia (L'inadempienza, 2008) ma ho smesso di scriverne da qualche anno, concentrandomi di più sulla narrativa e sulla saggistica. Sono uscito per Castelvecchi, Arcana e Il Foglio Letterario, come autore. Come critico – come lettore editoriale – ho tre grandi modelli: Bobi Bazlen, Giuseppe Pontiggia e Jorge Luis Borges. Pontiggia e Borges mi hanno insegnato a schedare romanzi e saggi, e a condividerli col pubblico. Collaboro con qualche radio e qualche quotidiano, a parte Lankelot, proprio per avvicinare i lettori alle opere che sto scoprendo man mano.

Che cos’è Lankelot?
È un portale indipendente di comunicazione e critica letteraria e dello spettacolo, dedicato e consacrato idealmente agli autori laterali, emergenti, rimossi, mai emersi, censurati, e alle pubblicazioni della piccola e media editoria di qualità e di progetto. Contiene, ad oggi, circa 4100 articoli (selezionati negli anni) e 55mila commenti. È strutturato in quattro sezioni: letteratura, cinema, musica e scienze. Lankelot era il mio pseudonimo. Quando ho fondato il sito, nel 2003, ci lavoravamo io e un grafico. Man mano, si sono unite centinaia di persone; professionisti dell'editoria e del cinema, semplici lettori forti e studenti universitari, autori già recensiti e miei vecchi compagni dell'Università, e via dicendo. Lankelot è un grande sogno di libertà, dialettica e democrazia. Estraneo ai partiti, alle chiese, ai movimenti extraparlamentari, aperto a tutti – iscriversi è facile e gratuito – è nato per quei lettori che s'erano stancati di comprare soltanto i libri che trovavano in libreria, e per quelli che non si ritenevano particolarmente soddisfatti delle recensioni politicizzate e mai direttamente commentabili che apparivano nei siti letterari on line. Soprattutto, è nato per quei lettori che vogliono fare i conti col critico presuntuoso e saccentello di turno. Adesso si può. È piacevole. È edificante. È stimolante.

Ti ringrazio personalmente e a nome di Critica Letteraria per essere stato con noi. Solo un’ultima richiesta: dedicaci una canzone e spiegaci il perché.
Vi dedico una canzone che racconta molto dello spirito di chi si dedica alla Critica Letteraria. Si chiama Leave, l'hanno incisa i REM tanti anni fa. “A temper madness to believe in this dream”, canta a un tratto Michael Stipe. Nel 1997 pubblicammo quella frase sulla prima rivista letteraria che coordinai, Ouverture, negli anni stupendi di Lettere a Roma III. Mi ha portato fortuna, dopo tanti sacrifici e tanta sofferenza posso dirlo. Fortuna. Spero possa portarla anche a voi. Ve lo meritate.

Silvia Surano

Un Locus amoenus senza idillio: la Zara di Tiziano Scarpa


Tiziano Scarpa
Discorso di una guida turistica di fronte al tramonto.
Govorancija turističkog vodiča pred zalaskom sunca.


Traduzione di Snježana Husić
Venezia Mestre, Amos Edizioni, 2008

pp. 107
€ 13.00

Poesie dedicate al paesaggio? Ne abbiamo ormai a bizzeffe. Ma, se a raccontare in poesia c’è la voce di un autore come Tiziano Scarpa, che sceglie di assumere il punto di vista di una guida turistica nella bellissima Zara, allora le aspettative salgono, così come la curiosità.
Contrariamente a quanto si possa credere, lo sguardo della guida turistica non è estatico, ma spesso cinico e disincantato: cerca di prendere le distanze dalla bellezza del panorama, per prestare attenzione alla cieca e omologata attenzione dei turisti, o ai dettagli che nessuno nota, perché occupati a guardare altrove. Le stesse attrazioni turistiche non incantano più la guida, abituata a guardare oltre la mera apparenza, e annoiata dalla ressa entusiasta e vociante dei suoi clienti: «Non c’è nessuno. Siamo noi che siamo/ venuti in troppi. E tutti quanti vogliono/ collaudare l’avamposto romantico. // Ma la panchina è piccola. // Mettetevi in fila e non fate chiasso,/ che chi siede ha diritto/ al suo sgomento solitudinario/ di fronte all’infinito/ per almeno un minuto. // Prima finiamo, prima andiamo a cena» (da La panchina, p. 43).
Alla bellezza contemplativa, viene preferita dalla guida una bellezza che inneschi qualcosa nell’animo umano, secondo il principio che «La bellezza fa fare. Fa reagire» (da L’organo marino, p. 59).
Così dietro all’idillio del lungomare, c’è una realtà industriale decadente e vuota; e ancora, un museo cerca di conservare i cocci di una civiltà in progressiva dispersione. Con una costante attenzione toponomastica e quasi “topografica”, la guida continua il giro turistico, portando con sé il principio che «qualunque assioma, tesi,/ sillogismo, trattato,/ verranno sottoposti a dura critica./ Dovranno dimostrarsi/ all’altezza di questo panorama» (da La facoltà di filosofia, 1, p. 53). Una sfida alta, dunque, far sì che il ragionamento si appai al lungomare di Zara e, soprattutto, non sembri contraddirlo.

La sperimentazione scelta da Tiziano Scarpa per questa raccolta di poesie non è interessante solo per i contenuti, ma anche per un’insolita scelta linguistica: ogni poesia si presenta in una doppia veste, italiana e in lingua locale, grazie alla traduzione di Snježana Husić. E diventa difficile, se non impossibile, scegliere quale sia la traduzione e quale l’originale: sembra piuttosto che le due lingue siano profondamente intrecciate. Così il croato sembra aver generato le poesie, e l’italiano averle comunicate.

Qui e là, più che poesie potremmo pensare ad appunti di una verità che appare dietro alla semplice realtà sensibile. Se non fosse per la versificazione, l’andamento narrativo e a tratti ragionativo ci permetterebbe di pensare a riflessioni di viaggio. Ritmo e attenzione fonica non sono tra le primissime priorità di Scarpa: in Quasi italiano, ad esempio, viene di gran lunga preferita l’attenzione linguistica, l’accostamento di parole italiane simili ad altre in croato.

Ci allontana dall’ipotesi degli appunti di viaggio la frequente (quasi costante) scelta allocutoria: in veste di guida turistica, l’io lirico chiama più volte in causa i turisti, con un “voi” generico, a tratti quasi violento. Ma non tutto il “discorso” sembra rivolto agli sconosciuti stranieri: piuttosto, molti versi sembrano degli efficaci ‘a sé’ teatrali, monologanti. Ben si sposa questa scelta con l’obiettivo più profondo del viaggio, affidato agli ultimi testi, tra cui: «Leggendo un libro che parla del mondo,/ inaspettatamente/ ho imparato qualcosa su di me.// Chissà che un’altra volta/ non mi capiti invece/ che studiando il mio caso/ riesca a capire qualcosa del mondo» (da Un fatto personale, p. 99).

GMG

Marlowe ti amo. Una storia in sette giorni

Marlowe ti amo. Una storia in sette giorni
di Frank Spada
Roma, Robin Edizioni, 2010

All'inizio non ci si fa caso: si comincia a leggere Marlowe ti amo tutto d'un fiato, come è giusto che avvenga per un buon giallo, che cattura, avvince, spinge a divorare le pagine per raggiungere il finale. Ma via via che i capitoli scorrono, diviene chiaro che non si tratta di un semplice romanzo giallo. Anzi forse il genere è solo un pretesto per dire altro.
Così, una volta arrivati all'ultima pagina, lo si riprende in mano e non ci si fa più incantare dall'atmosfera americana anni '50, dal detective sgualcito in conflitto costante col suo doppio, impegnato in un indagine che pare roba da niente e invece è la punta di un iceberg, affettuosamente sollecito con ma' e rispettoso ascoltatore dei consigli che pa' gli impartisce dall'aldilà. E mentre ti lasci incantare da una scrittura elegante e senza sbavature che gioca col lettore attraverso pirotecniche metafore, capisci che l'essenza di questo libro è tutta nel titolo. perché Marlowe ti amo si presenta come un giallo ma in realtà è una dichiarazione d'amore: alla letteratura, a Raymond Chandler, a Joseph Conrad, al jazz e alla vita, bella o brutta che sia.
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La signora del caviale

La signora del caviale
di Michele Marziani


Firenze, Cult Editore, 2009

Nello ha 12 anni, corre veloce sulla bici come un gregario di Bartali e va a pesca con l'amico Nicola. Attraverso i suoi occhi scorrono le vicende de La signora del caviale, terzo romanzo di Michele Marziani. Inizialmente sono gli occhi ingenui e influenzati dalla propaganda fascista di un ragazzino degli anni '40 che vive nel ferrarese vicino all'argine del Po e divide le sue giornate tra la scuola, la stazione in cui abita con la madre e lo zio ferroviere, e la golena. Ha solo un cruccio, il padre "rivoluzionario" morto in Spagna che non gli ha lasciato nemmeno il cognome. E un mistero da svelare: chi è veramente il Turco, pescatore, padre di Nicola, che pare nascondere un passato ben più interessante della sua vita attuale? La guerra in cui è coinvolta l'Italia appare una faccenda che non li riguarda, da leggere sui giornali. Poi la guerra avanza con la sua dirompente violenza e Nello cresce misurandosi col liceo a Ferrara e le leggi razziali, l'innamoramento per Bechi e l'invasione tedesca, gli espedienti della piccola comunità per sopravvivere alla miseria e i bombardamenti alleati. Un romanzo che racconta la grande Storia intrecciata alla quotidianità, fatta di piccoli eroismi e vigliaccherie, opportunismi e intraprendenza: la coerenza del Turco con le proprie scelte e la tenacia dello zio ferroviere che non abbandona mai il suo posto di lavoro, l'ambiguo casellante Remo e le capacità imprenditoriali della mamma di Nello, pronta a trasformare le donne di golena in provette pescatrici di storioni e a risollevare l'economia del paese. E ancora il parroco che suona l'armonium su una barca in mezzo al Po per rendere più proficua la pesca, Bechi che si difende dall'orrore della guerra smettendo di parlare, Nicola che spera di sognare il cavallo bianco perché significa che pescherà lo storione della sua vita. Su tutti aleggia il ricordo della signora del caviale, elegante figura del passato felice di Nello: prima che la guerra travolgesse ogni cosa, con le uova di storione produceva l'ottimo caviale del Po e dava di che vivere alla comunità di pescatori.
La scrittura di Michele Marziani, intensa e delicata allo stesso tempo, ci accompagna lungo questa storia che conquista e coinvolge, tra un sorriso e un groppo in gola..
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