Una nuova rassegna a Pavia!!!


Di ¾, con uno sguardo non frontale, ma, appunto, portato di traverso, da una posizione non convenzionale, ma forse per questo più appassionante e nuova: così si presenta la rassegna pavese di lettrici e scrittori, che la Biblioteca Bonetta in collaborazione con la libreria CLU propone alla città.

Gli autori sono invitati in uno spazio non convenzionale, quello del Caffè dell’Università di Pavia, a un orario insolito, le 18. Lì si presentano con la loro opera allo sguardo “di traverso” di cinque giovani lettrici, che dialogano sul libro e sulla scrittura, su tutto ciò che l’osservazione di quelle pagine e l’incontro con l’autore hanno suggerito loro. Gli studi letterari, la passione per il teatro, per la lingua suggeriranno percorsi e prospettive meno evidenti e senz’altro personali.

Non sarà semplice intervista, ma dialogo intorno a temi e scelte stilistiche, invito per entrambe le voci a un confronto su problemi e racconti, con la possibilità di scoprire l’interprete in ciascun autore e di ritrovare l’autore in ciascun lettore.

Di ¾ è un tempo, quello non pieno di una quasi-ora, del movimento delle lancette che non arrivano a chiudere l’unità, ma si fermano a un tratto del cammino: così è anche la lettura che la rassegna propone, non conclusa, volutamente aperta, con lo spazio e il tempo per le domande, per il silenzio e per la lettura di ciascuno.

VI ASPETTIAMO OGNI GIOVEDI' FINO AL 4 MARZO!
(Clicca qui per ingrandire la locandina!)


Amore&co.

David Herbert Lawrence

L'amante di Lady Chatterley


1928

380 p. ca.


Siamo all'inizio del Novecento, in una Inghilterra vittoriana e fortemente impostata, legata all'etichetta. L'argomento sesso è ancora un tabù imprescindibile e con esso qualsiasi effrazione del bon ton, a maggior ragione in mezzo ad una borghesia desiderosa di ascendere la scala della popolarità ed accarezzare la dea cagna del successo (definizione dell'autore). Una società descritta, contemporanea a Lawrence, che ha perso il suo più genuino istinto vitalistico per prostituirsi alla fama ed al denaro, rimanendo chiusa nell'ambito delle proprie vedute. Una intera Inghilterra, ed aggreghiamoci anche l'Europa, incapace di apprezzare ed accettare così com'è la profonda critica di Lawrence e del suo "Lady Chatterley's lover" al punto da proibirlo più o meno fino agli anni '60. In realtà, all'ombra del XXI sec., c'è ben poco da gridare allo scandalo nelle descrizioni dettagliate dei rapporti sessuali tra Connie, ovvero Lady Chatterley, ed il suo amante, il guardiacaccia Oliver Mellors. Tanto più che in essi non c'è niente di volgare, ma anzi riescono ad tratteggiare con una certa completezza ciò che è più di una mera funzione biologica, con una perfetta consapevolezza dello spirito di ciò che fa il corpo. In alcune note, pubblicate nelle migliori edizioni insieme al testo, intitolate "Apropos of Lady Chatterley's lover" Lawrence si scaglia contro due generazioni di uomini, ognuna convinta delle proprie ideologie, ossia la sua, quella nata a cavallo tra '800 e '900, e quella nuova degli anni '30 amante del jazz e della spregiudicatezza immotivata. La prima è figlia di secoli di una vita sessuale perseguita in maniera meccanica e meccanicistica, senza che lo spirito fosse realmente consapevole delle dinamiche del corpo in cui albergava. E da ciò ne deriva uno status di noioso dovere relegato all'atto sessuale privo di ogni comprensione e nella maggior parte dei casi deludente. E' il corpo, ricorda Lawrence, che prova sensazioni e le trasmette alla mente, essa non fa che riconoscerle. L'uomo contemporaneo è come se, in un gioco di specchi, dalla cintola in giù riflettesse ciò che ha dalla vita in su, cercando di surrogare i suoi istinti a lui incomprensibili con una razionalità triste e mortifera. Allora qualsiasi emozione, qualsiasi sentimento sarà semplicemente contraffatto e sintetizzato dalla mente, mutilati come si è del proprio ventre e della sua radicata fisicità. "E cadere su un ventre che si dà da fare, e pancia a pancia incollare cosce a cosce" disse il lirico giambico Archiloco (VII sec. a.C.) in un frammento, non disdegnando in altri una concezione considerata più elevata e meno volgare dai critici contemporanei. Ma non sono altro che due facce della stessa medaglia, in cui l'amore carnale non può prescindere dalla "corrispondenza d'amorosi sensi". E' da bigotti, ribadisce lo scrittore inglese, associare il sesso al peccato ed alle infedeltà, facendo finta che esso sia semplicemente assente dall'ambito del matrimonio. Da qui la genuina mentalità popolare ha coniato il detto "il matrimonio è la tomba dell'amore" e qualche anno fa' Caparezza ha scritto la canzone "Felici ma trimoni" (ndr: "trimone" è un termine dialettale dell'hinterland barese che indica sia una persona non particolarmente intelligente che l'atto della masturbazione). Attenzione che, seppure con sensibili differenze, tutto questo accade ancora nella società contemporanea. Nella realtà letteraria, questa prima categoria di dolce stil bigotto è simboleggiata da Sir Clifford Chatterley, paraplegico e cosiddetto cornuto ai fini della narrazione. La seconda generazione a cui Lawrence allude, portata letteralmente alla ribalta da Bertha Coutts, prima moglie di Oliver Mellors, è turbinosa ed impulsiva e pensa il sesso in termini di biancheria intima e di piacere fine a se stesso, dal nome autoreferenziale, incapace di sintetizzare con la mente ciò che sente con il ventre. Da qui nasce una ricerca esagerata dell'altro sesso, che paradossalmente mette in risalto l'asessualità dell'individuo indotto a spogliarsi (Lawrence parla in un'epoca in cui gli abiti corti erano malvisti) perché inabile ad esprimere una propria sessualità che esuli dalla nudità del corpo. E qui siamo già molto più vicini alla spregiudicatezza della generazione del 2000. Il risultato? Un guazzabuglio di emozioni vere e contraffatte che impediscono la naturale armonia tra corpo e spirito, con la prevalenza di uno o dell'altro. Nel mezzo però di queste due concezioni ed anche della narrazione l'autore ricama la relazione adulterina tra Connie ed Oliver, enumerandone le dolcezze, senza banalità e volgarità di alcun tipo, avvicinando le parole alla vera sostanza delle cose. Il testo quindi si presenta abbastanza monotono e statico per le prime cento pagine, per poi ravvivarsi e chiudersi vorticosamente non con un lieto fine (a Lawrence interessa il dibattito, non una sua improbabile conclusione), ma con la speranza di esso e la rivelazione del vero amore al mondo esterno. Tutto ciò impreziosito da frequenti excursus di carattere etico e morale, messi in bocca ai personaggi quando non espressi direttamente dall'autore. Stupende, infine, le parole dell'ultima lettera di Mellors, che fa uso a distanza, dei nomignoli della loro intimità: "John Thomas augura buonanotte a Lady Jane, un po' a capo chino ma col cuore pieno di speranze".

Adriano Morea

Il Salotto: intervista a Fabrizio Altieri


Ciao Fabrizio,
benvenuto qui nel nostro “Salotto”. È un piacere avere la tua simpatia spontanea e la tua arguzia a insaporire le risposte. Per chi non avesse letto la nostra recensione a Rossana, il sogno e il ragno Calatrava, ecco il link: clicca qui.


Vediamo dalla tua biografia che sei in primis un ingegnere. Quando è nata la tua passione per la scrittura? È stata una scoperta improvvisa o conviveva già con i numeri?
Conviveva. Ho iniziato a scrivere verso i diciassette anni. Erano poesie. Lo feci perché un giorno mio padre, che era ingegnere, ma di quelli seri, mi svelò un segreto terribile: non solo scriveva di nascosto poesie, ma poiché si vergognava ne aveva mandate alcune a un concorso a mio nome! Mi toccò andare a prendere una medaglia che vinse con i suoi poemi e allora cominciai a scriverne anch’io, così avrei partecipato a mio nome. Poi un giorno mi svelò che aveva scritto un racconto… Il giorno dopo scrissi il mio primo racconto e da allora vidi che mi dava più gusto scrivere in prosa, e continuai.

Cosa si prova a essere insegnante e scrittore? Pensi che possa essere una fonte di ispirazione?
Sì. Nel mio ultimo romanzo ‘Rossana, il sogno e il ragno Calatrava’ la scuola compare sia come sfondo alla storia che come fucina di personaggi che quasi sempre sono ispirati a persone che ho conosciuto nella realtà, colleghi, ma soprattutto ragazzi.


Cosa pensano dei tuoi libri i tuoi ragazzi? C’è stato qualche commento memorabile?
Ne ricordo uno di una ragazza: “A me piace più Moccia”. L’ho bocciata. Da allora i miei ragazzi ne pensano tutto il bene possibile.

Il libro spassoso che abbiamo recensito molto volentieri è stato preceduto da altre prove: come le consideri? Affetto, superamento? Dicci tutto.
Il primo romanzo ‘Il caso Cicciapetarda” lo scrissi nel 1999 ma fu pubblicato solo nel 2006 grazie al mio editore la Società Editrice Fiorentina, che ci credette da subito. Fa ridere, ma veramente tanto, ed è più spensierato dell’ultimo che ho scritto vari anni dopo. Non lo rinnego, ma non scrivo più così. Si cambia e si cresce in tutto, anche nello scrivere. Tra i due c’è la raccolta di racconti ‘Maremma Safari e altri sogni’ del 2007. È particolare perché c’è il primo racconto che ho scritto, da cui trae il titolo, e anche uno degli ultimi. Tra i due corrono più di vent’anni.

Rossana, il sogno e il ragno Calatrava ha tra i personaggi principali un supplente-aspirante scrittore, Maurizio, ironico e genuino, ancora idealista. Basta parlare con te dieci minuti per rischiare di confonderti con Maurizio: in cosa ti ritrovi? Sappiamo bene che è difficile e non molto politically correct svelare un po’ di elementi autobiografici, ma ti torturiamo un po’…
Son qui apposta! Maurizio mi somiglia molto per carattere ed esperienze di vita, anche se nel romanzo non è ingegnere e, come primo incarico, insegna una materia indefinibile che neanche lui ha mai sentito nominare. Però alcune differenze ci sono: è più coraggioso di me e molto più ingenuo. Vorrei essere come lui e lo invidio un po’, per questo nel romanzo gliene faccio passare di tutti i colori.

Ormai sei un habitué di fiere letterarie, mostre di piccoli editori, presentazioni e chiacchiere in pubblico. C’è ancora l’emozione? In questi anni è successo qualcosa di divertente?
L’emozione c’è sempre, è la paura che è nettamente diminuita. Dopo tanti incontri e presentazioni so che posso controllare la situazione e che nessuno mi lancerà ortaggi o improperi. All’inizio invece, quattro anni fa, ero un concentrato di fifa. Ne sono successe molte e alcune le ho inserite nel romanzo. Una delle più belle fu alla fiera di Roma dove una signora volle che le facessi una dedica su un libro… del Leopardi! Mi firmai Fabrizio Giacomo Altieri perché Giacomo è il mio secondo nome per davvero e lei se ne andò tutta contenta. Il mio libro però non lo comprò.

Sei recentemente stato segnalato al Premio nazionale letterario di Pisa: che cosa hai provato?
È la prima volta che ricevo un riconoscimento ad un Premio letterario, da quel giorno che partecipai con le poesie di mio padre, intendo. Ho provato gioia per tutto il lavoro che io e il mio editore abbiamo fatto in questi anni. Senza ipocrisia, quando l’abbiamo saputo ci siamo detti: “Ce lo meritiamo!”.

Abbiamo letto della tua recentissima pubblicazione (sempre per la Società Editrice Fiorentina) di Melerè, la musica bambina: di cosa si tratta?
Si tratta del primo Libro-audio-gioco mai realizzato. È composto da un libro con una favola per bambini dai quattro anni in su, scritta da me e illustrata da Alessandra Vitelli, un cd con la mia voce che legge la favola e una musica scritta per l’occasione da Marco Simoni e un gioco da tavolo realizzato da CreativaMente, un’azienda specializzata in giochi educativi per ragazzi, ispirato ai personaggi della fiaba ed alle avventure che essi vivono. Il tutto racchiuso in una scatola. Ne sono molto fiero perché è stato un lavoro di squadra non facile da organizzare e il risultato è molto riuscito.

Grazie mille per la tua disponibilità e speriamo di rivederci presto e di poter parlare ancora dei tuoi libri!
Grazie a te e a chi ci legge.

Volete seguire Fabrizio Altieri? Allora clicca qui per andare al suo blog!

Sparire....


INVISIBILE
Autore Paul Auster
Edizioni Einaudi, 2009

Traduzione di Massimo Bocchiola
€ 17,50


Recensire un libro di Paul Auster non è un’impresa da poco: non si può dire una sola parola sulla storia! Ebbene sì, la storia in Auster e in particolar modo in Invisibile rimane un segreto per il lettore fino alla fine, qualcosa che si costruisce piano e dunque non si può anticipare nulla. Si può solo mettere il futuro lettore sulle tracce di un percorso. L’originalità sta nel modo di raccontare la storia: c’è la narrazione e poi c’è qualcosa che va oltre la narrazione e si trasforma a sua volta in storia, un incessante e frenetico passaggio dai ricordi al presente, da una vita all’altra, dall’immaginazione alla realtà.

Adam Walker decide di scrivere una sorta di autobiografia e chiede consiglio ad un suo amico scrittore che diventa così l’alter ego del lettore stesso. Infatti attraverso le lettere che egli invia allo scrittore noi conosciamo la storia, quella di un ventenne nel pieno degli anni Sessanta. Il tormento che caratterizza quegli anni è lo stesso che brucia nella giovinezza di Adam e che lo spingerà a trasgredire le regole di quel mondo borghese dal quale proviene, a fare del sesso la sua salvezza quotidiana e a rifiutare il denaro come valore. Inutile dire che Auster è un maestro nella descrizione di quelle sensazioni remote che noi stessi spesso proviamo ma non sappiamo raccontare non avendo le parole giuste per trasmettere la bellezza di due corpi nudi, la violenza dell’umanità, l’ipocrisia di una società, lo sdegno e il ribrezzo inconfessabile che siamo soliti provare verso noi stessi, la vertigine di un dolore. L’intero romanzo è segnato da una profonda inquietudine che si riflette nei diversi stili usati durante la narrazione e nel cambiamento continuo del punto di vista: per scrivere la sua storia Adam ha bisogno di separarsi da se stesso, di reprimersi fino a diventare invisibile così inizia con la prima persona ma poi passa alla seconda fino a servirsi di una terza persona che dovrebbe essere onnisciente e in realtà è molto telegrafica. Parlare della sua vita sembra aiutare il giovane ormai adulto a capire qualcosa che rimane inafferrabile fino alla fine, una sorta di sua inadeguatezza al mondo che genera forme di chiusura pericolose come quelle fantasie che nutre sulla sorella, una relazione incestuosa di cui non conosceremo mai la verità fino in fondo. Un senso di morte sfiora ogni personaggio e a tratti si manifesta nella volontà di sparire, in donne fragili che rifiutano legami, in maschi schivi che soffocano la vita. I personaggi femminili sono incredibilmente differenti tra di loro e ciascuna da se stessa nel susseguirsi delle stagioni della loro esistenza. Già ne La stanza chiusa in Trilogia di New York, Auster crea un personaggio che fa della morte la sua vita, riesce a scomparire fingendosi morto nell'illusione di poter dire addio al suo conflitto con il mondo. Qui invece il desiderio di rendersi invisibile si realizza in una dimensione tutta letteraria. La tensione viva durante la narrazione è però smorzata verso la fine, quando sembra che la storia rotoli su stessa attraverso un succedersi di eventi che possono deludere. La verità è che Auster è inattaccabile nel suo intreccio di vite umane e sa coinvolgere il lettore fino a farlo sentire autorizzato ad inventare un proprio finale. Che ci piaccia o no è lui a decidere! Sebbene egli stesso sia quasi invisibile davanti alla naturalezza della storia che sembra svolgersi da sola come una pellicola proiettata sulle strade di New York, Parigi e infine Caraibi.

Poeti in ascolto: III - Patrizia Valduga


Patrizia Valduga è stata a Pavia,
aula goldoniana del Collegio Ghislieri,
12 gennaio 2010, h. 21.00


Ha presentato la serata: Maria Antonietta Grignani, docente di Letteratura italiana contemporanea e Storia della Lingua Italiana presso l'Ateneo pavese, acclamata critica letteraria e attenta curatrice di opere novecentesche.

Per qualche informazione su Patrizia Valduga, clicca qui.


È una donna affascinante, Patrizia Valduga, e tutti sappiamo quanto ancora contribuisca l’aura d’artista maledetto ad ammantare di carisma un poeta. È anche un personaggio senza remore, e così non c’è da meravigliarsi quando si prende la briga di non rispondere a una domanda, o di sbuffare e ribellarsi alla canonica forma di presentazione libraria. L'evento diventa così anche spettacolo, e l’attesa di una domanda fuori posto e di una risposta sbottata: Patrizia Valduga tiene i presenti con il fiato sospeso.
Tra giochi e alterchi verbali, la poetessa non ha lesinato letture di autori noti, come Pascoli, l’amato Raboni e (soprendentemente!) Giovanni Prati. Il tutto, ovviamente, avvolto da riflessioni sulla sua poesia, che ricordiamo essere tra le liriche erotiche contemporanee più apprezzate. Senza mezze misure, la poesia della Valduga, e senza mezze misure anche la sua presenza pavese, nella sala goldoniana del bel Collegio Ghislieri, su un palco e dietro a un tavolo, proprio come è accaduto per tanti relatori in altri anni. Ma portare la poesia della Valduga in quella sala, e a quel tavolo dove tanti conferenzieri e studiosi si sono seduti, ha significato sdoganare tanti pregiudizi sulla Pavia accademica e polverosa. La serata è stata, infatti, tutt’altro che prevedibile, e gli sguardi divertiti (e anche un po’ ansiosi) dei presenti sono stati ben ripagati dall’exploit di Patrizia e dalla presentazione giocosa, amichevole e così brillante della professoressa Maria Antonietta Grignani, che ha dato prova della sua acutezza di grande critica in più interventi, stemperare la tensione, ma anche porre domande che non hanno innervosito la poetessa.

La scommessa è dunque stata vinta nel migliore dei modi: la provocazione e le bizzarrie di una vera artista, accanto a una sapiente e disinibita presentatrice, per una serata senza dubbio stimolante.

GMG

I volti della pubblicità

Parola di testimonial. Il testimonial nel panorama pubblicitario tra anima commerciale e non profit
di Alessandro Aquilio
Milano, Lupetti Editore, 2008


Pubblicità: un mondo sospeso tra la strategia di mercato e la bellezza della forma d’arte, le cui potenzialità si esprimono nello stretto confine di pochi minuti, o un cartellone da guardare di sfuggita. Lo scopo di tutte le operazioni pubblicitarie è convincere lo spettatore-consumatore ad acquistare un prodotto, usufruire di un servizio, adottare un nuovo comportamento; un obiettivo che si persegue attraverso vari strumenti – uno slogan intuitivo e martellante, un motivo musicale. Oppure, da sempre, un volto che diventi simbolo di quel prodotto, la cui presenza risulti o diventi familiare allo spettatore: il testimonial.
Alessandro Aquilio, in un saggio completo e piacevole alla lettura, aggiornatissimo nei riferimenti bibliografici, mette al centro della propria indagine proprio questa entità dai contorni mutevoli. Parola di testimonial risponde a queste domande: chi è il testimonial? qual è il suo ruolo nella comunicazione pubblicitaria? a chi si rivolge? Il risultato è una ricerca circostanziata e dinamica che ricostruisce gli elementi-chiave e la storia del testimonial, dai suoi esordi (Gabriele d’Annunzio, Benito Mussolini), al brillante ma codificato mondo del Carosello (in cui appaiono i primi “testimonial di fantasia” tutt’ora conosciuti al grande pubblico, come Calimero o Carmencita), fino alla creazione dello spot e a un’analisi delle ultime campagne pubblicitarie. Un esempio? Le campagne Omnitel-Vodafone: dalla successo, nel ’99, della bellissima Megan Gale (la “tempesta-Megan”) come “volto-brandizzato”, fino alla riuscita introduzione di personaggi del mondo del calcio (Gattuso, Totti e la moglie Ilary Blasi) …dopo qualche tentativo fallito.
Parola di testimonial non si ferma alla pubblicità commerciale: getta anche un ampio sguardo alla cosiddetta “non profit”, la pubblicità senza scopo di lucro, che contiene, come sempre, una precisa analisi tipologica e il raffronto con diversi casi realizzati in Italia.
Conclude il saggio una serie di interviste a esperti e uomini di spettacolo entrati a contatto con questo settore: Massimiliano Pani, figlio di Mina e suo collaboratore, parla del lungo rapporto della madre con il mondo della pubblicità; il noto e poliedrico Claudio Bisio (la cui intervista è disponibile sul suo sito); la prof.ssa Patrizia Musso (Università Cattolica di Milano), esperta di brand&company comunication, con un contributo sulle nuove frontiere della comunicazione pubblicitaria; la prof.ssa Paola Papakristo (Università degli studi di Macerata), con un excursus sul ruolo della marca e del testimonial.
Un viaggio interessante e poliedrico, dunque, dentro un mondo dorato da scoprire nei suoi segreti, nelle sue dinamiche creative, nella sua storia.

L. Ingallinella

L'epistolario di un grande uomo tra grandi uomini: Valentino Bompiani


Caro Bompiani. Lettere con l’editore.
a cura di Gabriella D’Ina e Giuseppe Zaccaria
Milano, Bompiani, 1988

Oltre 600 lettere sono ospitate in questa raccolta epistolare, efficacemente divisa in due sezioni: nella prima, ci si occupa della nascita delle principali collane editoriali, e di progetti sconosciuti perché rimasti alla loro fase d'ideazione; nella seconda, i curatori hanno raccolto le lettere tra l'editore e moltissimi dei suoi autori. Non è possibile tacere i loro nomi: Alvaro, Bigiaretti, Bontempelli, Brancati, Cardarelli, Eco, Flaiano, Gadda, La Capria, Landi, Malaparte, Malerba, Marotta, Moravia, Ortese, Ottieri, Piovene, Pratolini, Savinio, Tecchi, Vittorini, Zavattini. E, in minore misura, Bilenchi, Cecchi, Montale, Pavese, Sbarbaro...
Grandi nomi per un grandissimo Valentino Bompiani, che si scopre appassionato editore, tanto attento ai giovani quanto alle necessità dei suoi autori, in modo particolare durante la Guerra. Dimostra generosità economica, proprio come un vero mecenate di cultura, e non mette fretta ai suoi scrittori per la consegna degli scritti. Niente a che fare, insomma, con il mondo editoriale contemporaneo, avvinto da vincoli di mercato, fino a trascurare che lo scrittore è come una pianta da far crescere, con dedizione e pazienza, non con continue pressioni (metafora usata da Ernesto Ferrero qualche settimana fa).

E, se già così il confronto appare spiazzante, il rimpianto per il grande Bompiani aumenta quando nelle sue lettere troviamo lo sguardo di un lettore attentissimo, primo acuto critico delle opere, fino a farsi correttore di bozze, sollecito ai consigli, ma sempre con estremo rispetto. E poi Bompiani si fa amico dei suoi scrittori, abbandonando forme di cortesia distanzianti e preferendo una sana confidenzialità.

Inoltre, dalle lettere è possibile ricostruire il momento storico, le difficoltà con la censura ma anche la reciproca collaborazione tra gli autori, in un'epoca in cui agli editori bastavano un paio di firme e una stretta di mano.
Ad accompagnare il lettore in questo cammino, lungo e complesso, un apparato di note fitto alla fine dell'opera. Non sempre è immediatamente leggibile, ma risulta completo e curato come lo stesso Valentino avrebbe apprezzato.

GMG

"Caduti in volo" di Maurizio Gramegna



Caduti in volo
di Maurizio Gramegna
Novi Ligure, Puntoacapo Editrice, 2009

€ 15,00
pp. 154

La Grande Storia è stata creata da tante piccole costole di storie minori, che sarebbero state dimenticate, se i protagonisti o i testimoni non le avessero consegnate alla memoria di amici, concittadini, parenti… O alla memoria di pagine oneste, che non s’approfittano della storia per costruire una fictio letteraria piena di orpelli. E sono pagine oneste, queste che Maurizio Gramegna, ben noto poeta, offre ai lettori in veste di narratore: nessuno stile gonfio, ma una scrittura secca ed essenziale, mai arida, proprio come richiede paesaggio collinare dell’Oltrepò, tanto amato dai suoi abitanti, trasformato all’improvviso in rifugio per i partigiani. Tra questi, due amici inseparabili fin dalla nascita, Tino e Carlo, che hanno scelto di sfuggire a una guerra in cui non credevano. E il partigianato li ha accolti sulle colline attorno a Stradella, Broni e Portalbera, in quella Lombardia quasi-Piemonte che non può non incantare per la tranquillità e il morbido silenzio delle sue vigne.
Alle loro spalle, in un abbraccio che supera qualunque distanza fisica, i famigliari: l’impulsività di Pietro, padre di Carlo; l’intelligenza pratica di Angelo e la commossa determinazione di Marta, genitori di Tino, e poi la dolce presenza della sorella Agnese,…

Tanti i personaggi, ma non al punto da consegnare a Caduti in volo l’etichetta di romanzo corale: piuttosto, mi piace pensarlo un romanzo famigliare, in cui la solidarietà e l’amicizia muovono qualunque azione, e uniscono i compaesani in una fraternità senza precedenti. E questi sentimenti dirigono anche le azioni di Tino e Carlo, ancora innocenti, quasi increduli davanti alla verità spietata di una guerra civile che si delinea davanti ai loro occhi gradualmente, giorno dopo giorno, inesorabile.
«Diciannove e venti anni. | Chi avrebbe loro restituito la spensieratezza? Chi la libertà?» (p. 22): questo si chiede il narratore (esterno e onnisciente), contrariato da quella guerra «ingiusta» che avrebbe «segnato le loro vite» senza chiedere permesso. E così avviene, tra atti di coraggio e di grande umanità. Ma i protagonisti non saranno ricompensati con la stessa pietas; al contrario, la loro fiducia sarà tradita, e ai famigliari non resterà che piangere i loro “caduti in volo”, e convivere con il loro strazio, sempre dignitoso e gelosamente nascosto.

Oltre un terzo del libro è proprio occupato dal dolore, come spesso nei libri di guerra non è stato fatto: con estrema delicatezza, l’autore ritrae il mondo degli affetti ormai devastato dalla sofferenza, testimoniando la forza d’animo di quei famigliari a cui non resta che stringersi, senza mai cadere nel patetico. Sono, anzi, tutte scene che turbano il lettore per l’amore del ricordo e la compostezza di tanta angoscia, ma anche per la bontà e l’onore nascosti dietro a compaesani nemici, perché in camicia nera. La solidarietà paesana supera le divisioni imposte dall’esterno, sembra suggerire più volte l’autore, in un messaggio sociale che supera le più banali (e usurate) interpretazioni ideologiche: non è raro, infatti, trovare in entrambi gli schieramenti gesti di rispetto della vita e del dolore altrui, ma anche momenti di sostegno concreto e morale. Ed è proprio la generosità dalle retrovie che rende questo romanzo un omaggio e un documento (per quanto romanzato) di tante storie realmente accadute nella nostra Lombardia degli anni Quaranta, e ricorda come le divise non riescano sempre a oscurare l’umanità di chi le veste.

GMG

Presto l'intervista a Maurizio Gramegna!!! Se avete qualcosa da chiedere, scrivete tra i commenti le vostre domande!

Tango argentino. Il ballo e la sua struttura


Luis Castro e Claudia Mendoza
TANGO ARGENTINO, Il ballo e la sua struttura

Edito dagli autori: per maggiori informazioni consultate il sito di Luis Castro e Claudia Mendoza o inviate una e-mail

€. 20,00

Il metodo Castro-Mendoza rappresenta uno dei possibili approcci didattici al tango e alla cultura che gravita intorno a quello che Enrique Santos Discepolo definì “un pensamiento triste que hasta se puede bailar”.
I due ballerini, che insegnano in Europa, Giappone e Stati Uniti, oltre che in Argentina, hanno redatto un manuale pratico e curioso per chiunque voglia accostarsi a una disciplina che sta vivendo una fase di espansione, direi quasi un “boom”, grazie alle numerose associazioni coinvolte nell’ organizzazione di festival internazionali, (l’ ultimo approntato dal Tango Norte si è tenuto a Stoccolma a Capodanno), e alla preparazione di workshops e attività promotrici di gemellaggi e scambi interculturali (basti citare il festival catanese organizzato dall’ associazione Caminito Tango o allo spettacolo presentato qualche anno fa al teatro Massimo Bellini “Tango, vals tango”) .
Il libro, (che per levità, chiarezza e concisione si “divora” in poche ore), introduce le origini del ballo con un excursus sulla vita di gringos, compadritos e di quel popolo di “outcast” che si esprimeva in lunfardo e cercava consolazione nelle sale affollate e in penombra delle case d’ appuntamento… sì, perché il tango nasce in strada e nel bordello, e viene clandestinamente introdotto nelle famiglie dell’ aristocrazia dai giovani dabbene che quelle case frequentavano per diventare “uomini” e che si lasciavano sedurre dall’ idea della trasgressione espressa sottoforma di un corte ( pausa coreografica) o di una quebrada ( il caschè che simula il cedimento della donna all’ impulso libidinoso), le figure riprese dai balli afro- americani e spregiativamente definite “cosas de negros”. Un tango giudicato dunque osceno, appannaggio di bulli e prostitute, ma che nonostante tutto, agli inizi del ‘900, compì il suo primo viaggio transatlantico venendo esportato a Parigi, capitale bohemièn per antonomasia, e, reimportato a Buenos Aires, catturò l’ interesse delle classi abbienti e perbeniste che ripulirono lo stile acrobatico e sensazionale detto “orillero” ( nato sulle sponde del Rìo de la Plata) o “canyengue”, ( termine che in una lingua afro- americana allude a una condizione di stanchezza e abulia e, in questo caso, ad un ritmo blando e malinconico), creando un “tango liso” o “derecho viejo”.
Gli stili che si alternano nel tempo o a seconda delle occasioni, ( il modo di ballare in milonga, cioè durante le serate aperte sia a professionisti che ad amatori, non è lo stesso di quello usato per andare in scena o durante una performance a scopi competitivi), vanno dal “tango salòn e “social” a quello “fantasìa” e al “tango show” più mirabolante. Ma il ballo si avvale anche della musica e dei suoi tempi o “compas”, (battute), a seconda dei quali si differenzia in milonga ( ballata in 2/4 con un andamento veloce e saltellante), vals criollo in ¾ e infine il vero e proprio tango in 4/4.
L’orchestra, tipicamente composta da due violini, un contrabbasso, un pianoforte e due bandonèon, traduce in suoni i testi malinconici di Gardèl, Corsini e Magaldi che i ballerini, a loro volta, tradurranno in movimento. Ma dalla musica della “Guardia Vieja” oggi la moda porta sulla cresta dell’ onda Piazzolla e il tango contemporaneo con le sue combinazioni di volèos frizados, volkadas passionali e un abbraccio “aperto” contrapposto a quello più stretto, “cerrado”, del tango salòn.
La bellezza di questo ballo e della sua struttura (una camminata destinata a esser danzata o una danza che procede camminando), è anche la sua maggiore sfida: l’ improvvisazione. L’ uomo guida la donna costruendo figure su base ritmica o su melodica, contenendo la “mujer” nell’ abbraccio, quasi corteggiandola, comunicando il movimento col linguaggio del corpo come codice autonomo e silenzioso… ogni passo dell’ uomo è come una domanda cui la donna risponde secondo un sistema di ballo parallelo, a specchio, o incrociato: come per ogni fenomeno fisico a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria così i caratteri di simmetria e imprevedibilità si fondono in una sintesi armonica su un soundtrack di note struggenti.

Invito alla lettura: Aimée


Aimée
di Jacques Rivière
a cura di Niccolò Gallo
Milano, ES editore, 2007

Con una postfazione di Niccolò Gallo
pp. 123

«So che il racconto è intriso di ingenuità, che vi ho trafuso la mia anima infantile […]. Ma tutti i tentativi che ho fatto per inserirvi la mia esperienza successiva non sono serviti a nulla. La fiamma di allora, seppure c’era, non si lascia più ritrovare».
Così il 2 febbraio 1921 Jacques Rivière scriveva all’amico Marcel Proust: il libro che ha composto nel 1915 (durante il suo periodo di detenzione in un campo di prigionia tedesco) si ribella a una qualsiasi riscrittura e uscirà nel 1922 con una revisione solo della prima parte. Porterà con sé l’ingenuità e l’innocenza con cui è stato abbozzato da un trentenne di grandi doti scrittorie.*
I desideri sentimentali dell’io-narrante, François, prendono forma con una purezza interessante, in una continua lotta tra volere e potere. François anela a un amore assoluto, che lo stravolga, perché «il sentimento era il mio pane quotidiano; e più era imprevisto, immotivato, tanto più piacere mi procurava. Soprattutto prestavo attenzione alle irregolarità del mio cuore; provavo per qualunque moto lo sfiorasse il più profondo rispetto e la più cieca ammirazione» (p. 17). Egli è un contemplatore delle proprie emozioni, ma anche un sognatore estasiato delle nuove scoperte, proprio come un Werther profondamente ripiegato su di sé. Ma rispetto all’eroe romantico ha un’indole avventuriera celata sotto l’aspetto quieto: «Non ho difese, io, nella vita; non so restare a lungo al sicuro. Per quanto maldestro sia, devo farmi avanti, compromettermi. Non sopporto che qualcosa accada senza avervi rischiato nulla, foss’anche il ridicolo» (p. 60).

Così tutta la vita di François è un’attesa speranzosa dell’amore come sentimento assoluto: si illude di trovarlo nella moglie Marthe, splendido esempio di donna dolcissima (ma non stucchevole) e di grande intuito. È invece la moglie dell’amico George, l’impenetrabile e indipendentissima Aimée, a conquistare improvvisamente François. Aimée non ha niente a che fare con la Lotte di Werther o la Teresa dell’Ortis: è una donna moderna, liberale, dedita solo al soddisfacimento dei propri piaceri, anche per via di un passato difficile. Questo non basta a dissuadere François dal desiderio di riporre la sua felicità nelle mani di Aimée: al contrario, coraggiosamente il protagonista assiste alla crescita di un sentimento dirompente, che si compiace di descrivere con un lessico armonioso, classico, intimistico.

Questi due elementi – la ricerca del rischio di François e l’egoismo algido di Aimée – permeano la trama esilissima di una profonda modernità, che allontana il romanzo da quel classicismo di maniera che era ancora frequentato all’epoca. A questo si aggiunge un piacevole «incanto della parola» (come scrive il curatore Niccolò Gallo nella postfazione): le frasi ariose, aggettivate fanno da contraltare all’amore che non si riesce completamente a esplicare. Per quanto, infatti, il narratore si impegni a ricostruire, a posteriori, il suo amore per Aimée, i veri sentimenti sono ineffabili. Riuscirà a parlarne più distesamente solo dopo una necessaria presa di distanza: «Per spiegare il mio amore, bisogna che prima lo combatta e, dopo averlo catturato, lo metta in catene nel mio cuore.|| Avrò questo coraggio; già lo sento venire. Io non comparirò affatto: lei, lei soltanto, nient’altro che la sua grande immagine temuta, adorata; io sarò presente solo a tratti, negli improvvisi slanci di gratitudine che mi assaliranno nel contemplarla» (p. 46).

Aimée è infatti vera coprotagonista, non solo nel romanzo, ma anche nella vita di François, portato ad annullare sé stesso (il titolo centralizza, d’altra parte, la sola donna). Se il tradimento non è la soluzione – troppo il rispetto e la tenerezza per Marthe -, così non la è neanche la sola contemplazione. L’amore si fa agonia, fino alla possibilità del suicidio per liberare François dalle «catene». Forse, chissà, scrivere di Aimée è l’unico modo per esorcizzare la sua prigione e per mettere a parte il lettore di un’esperienza assoluta, non retorica, profondamente interiorizzata.

GMG

*Ricordiamo che Jacques era già dal 1909 segretario della stimata e innovativa rivista letteraria Nouvelle Revue Française (NRF).

L'Etica e i doveri verso gli animali

Etica pratica
di Peter Singer
1989, 236 pagg.

Liguori
23 €

Vi propongo un libro di filosofia, ma non di storia della filosofia (nelle nostre Università e nelle scuole superiori domina un approccio storicistico alla materia) ma un libro che si promette di fare della filosofia (analitica), se (una parte importante di essa) è la fase argomentativa, se prendiamo sul serio l'idea che il rigore del pensiero debba avere un ruolo nelle sfide divise che informano il dibattito pubblico.

In Etica pratica, di Peter Singer, troveremo discorsi di etica applicata, che è quella branca dell'etica che nasce negli anni settanta del ventesimo secolo per cercare risposte a domande che l'affinamento del progresso scientifico e tecnologico, e gli Eventi della Storia contemporanea, hanno portato alla luce: le questioni sono quelle dell'aborto, dell'eutanasia, dei diritti degli animali, della disobbedienza civile, dei doveri di assistenza verso i popoli svantaggiati. È possibile tentare una risposta a queste questioni che vada più a fondo delle nostre mere intuizioni in merito, e che tenga conto dei dati che il progresso scientifico fornisce? D'altronde il ruolo della filosofia può essere pensato proprio come quel tentativo di andare oltre la raccolta di intuizioni primordiali e grezze, e di ordinarle, limarle ed analizzarle alla luce della razionalità. L'etica applicata muove proprio su questi stretti sentieri.

Peter Singer è noto al grande pubblico per aver scritto Animal liberation, del 1977. In quel libro, diventato un “libretto rosso” per il movimento animalista di tutto il mondo, Singer fondava su basi utilitariste la sua etica antispecista. Il suo argomento, che in Etica pratica Singer rielabora, è di questo tipo: se ciò che ha valore assoluto nel mondo è il piacere, e ciò che ha valore negativo è il dolore, l'azione morale è quella che massimizza il piacere, o, almeno, se spesso aumentare la felicità è impossibile, minimizza la sofferenza (utilitarismo negativo). Perciò, poiché anche gli animali, come gli uomini, hanno la capacità di esperire il dolore e il piacere, l'etica deve ammettere che anch'essi debbano essere trattati da pazienti morali, cioè che gli uomini abbiano una serie di doveri nei loro confronti. L'idea che una parte dell'etica consista nei doveri verso gli animali ha una lunga tradizione alle spalle che risale sino all'esplicita formulazione utilitarista di tipo edonista di Jeremy Bentham, il fondatore dell'utilitarismo moderno. Si pensi invece alla difficoltà di impostazioni di tipo kantiano di rendere conto dell'esistenza di doveri nei confronti di enti non razionali, dunque non agenti morali: Kant stesso dice esplicitamente che non abbiamo doveri nei confronti degli animali!

Perché la specie dovrebbe essere rilevante per le questioni di trattamento morale? Discriminare per specie non è forse come discriminare per razze o per genere? Su quali basi ha senso la discriminazione per specie? Singer mostra analiticamente come sia difficile argomentare che sia giustificata in qualche senso una discriminazione per specie.

Ma il ragionamento di Singer pone a questo punto altre domande. Se l'etica prescrive la massimizzazione del piacere e la diminuzione delle sofferenze, è moralmente giustificato dare in pasto un uomo a dieci leoni affamati che soffrono molto, se il loro piacere nel nutrirsi supera il dolore di un solo uomo nell'essere sbranato? Ogni azione che massimizza il piacere è legittima? Davvero non c'è nulla di diverso tra animali e uomini? Davvero gli uomini non posseggono una qualche caratteristica che li distingue dagli animali? Essa non è certo il linguaggio, o la capacità di servirsi di strumenti, poiché altri animali posseggono queste capacità, si pensi agli scimpanzè. È forse la razionalità? Singer sostiene che gli uomini sono differenti dagli animali in quanto hanno desideri, ciò che i filosofi analitici e gli economisti chiamano preferenze. Per Singer la razionalità che si esplica nella capacità di elaborare preferenze, è la base per un trattamento differenziale tra animali e uomini, per sostenere che sia illegittimo sacrificare un uomo, che ha preferenze, e precisamente la preferenza di continuare a vivere, per aumentare il piacere di altri individui, siano essi uomini o animali. Questo non significa ammettere che uccidere sia sempre moralmente inammissibile.

Se però il discrimine tra uomini e animali è la razionalità, è pur vero che gli uomini sono razionali in diverso grado (Singer qui sostiene un'idea personale dell'eguaglianza), e che vi sono individui che generalmente ascriviamo alla specie homo sapiens che però non posseggono la razionalità: si pensi ai bambini e agli individui mentalmente ritardati. Bambini e cerebrolesi perciò non sarebbero inclusi nell'insieme di individui degni di un trattamento differenziale rispetto a quello degli animali: l'utilitarista conseguente deve ammettere che è legittimo barattare il piacere di animali che nel calcolo superino la sofferenza di un individuo cerebroleso (considerando che l'utilitarista tiene in conto anche delle sofferenze causate su altri individui che hanno preferenze, per esempio la famiglia dell'individuo cerebroleso).

Consiglio questo libro, che riassume molti degli interessi dell'autore, a chi si interessa di filosofia morale e politica di stampo analitico. Oltre ai primi capitoli circa l'idea di eguaglianza e l'etica animalista, il lettore troverà discussioni dell'aborto, eutanasia, dovere di assistenza verso popoli svantaggiati e disobbedienza civile.

"Espiare" attraverso la scrittura

Espiazione
di Ian McEwan

2005, 388 p.
Torino, Einaudi
traduzione di Susanna Basso

Il mio rapporto con questo romanzo è molto particolare. Lo acquistai, d’impulso, dopo aver visto la trasposizione cinematografica di Joe Wright (2007, con Keira Knightley e James McAvoy). Ciò che mi aveva affascinato di quella pellicola, sopra ogni cosa, era stata la colonna sonora del compositore pisano Dario Marianelli: una colonna sonora da Oscar (e da Golden Globe), che sembrava voler dire qualcosa di più di quanto risultava dalla semplice visione del film. È difficile non rimanere soggiogati dal tema della protagonista, la tredicenne Briony: una partitura in cui una macchina da scrivere è usata come un pianoforte e, al contrario, il pianoforte diventa quasi una macchina da scrivere.
Dunque, intrapresi la lettura di Espiazione con un obiettivo piuttosto strano: volevo a tutti i costi rintracciare il nucleo ispiratore di quella musica così particolare, così stranamente “letteraria”. Fu sorprendente scoprire che quel nucleo era costituito da una prosa limpida, corposa e disposta con ordine cristallino sulla pagina, analitica e rigorosamente geometrica anche nei momenti di maggiore dramma.
Esattamente come una partitura musicale. Ogni capitolo elegge come punto di vista quello di un personaggio particolare, con i suoi esclusivi pensieri e problemi, con il proprio “tema” da sviluppare. La piccola Briony col suo universo armonioso e infantile pronto a sgretolarsi, la caotica Cecilia con un’inquietudine a cui dare un perché, e il giovane Robbie con una lettera dimenticata per sbaglio sull’Anatomia di Gray; e ancora altri personaggi ritratti con maestria da miniaturista, con un’attenzione costante alle dinamiche familiari, ai silenzi e agli equivoci alla base dei rapporti umani a partire da un torrido pomeriggio inglese del 1935. Nella prosa di McEwan, la macchina da scrivere sembra davvero mutarsi in un pianoforte, la cui peculiarità è in una costante delicatezza formale e in un nitore tutto speciale.
Si tratta di una lettura “lenta”, da degustare piano e con attenzione. Il dramma si svela alla fine, quando il narratore svela la propria identità e il problema dell’espiazione, che silenziosamente ha attraversato ogni pagina, si chiarisce una volta per tutte. Ma la lentezza della lettura è dovuta a ben altro: leggendo questo romanzo, vi accorgerete che la dimensione della narrativa è magistralmente congegnata da McEwan come un sistema di strati su cui esercitare una speciale archeologia. Ogni strato è un velo di menzogna, di mezze verità, di interpretazioni a posteriori, sovrapposte l’una all’altra in modo impalpabile: soprattutto, di rimorso, scoprirete alla fine il perché. E credo che ritornerete, come ho fatto io, a ripercorrere le pagine del romanzo cercando le tracce di questo atroce dolore, senza redenzione se non nella finzione letteraria.

Laura Ingallinella