Ricordare per essere



Data di Pubblicazione: 2008
Pagine: 64
Prezzo: 6 euro


BLU OLTREMADRE
Parlare delle persone che amiamo significa anche parlare di noi come parte di una relazione che abbiamo bisogno di capire meglio, se poi la morte ci ha separati da loro, parlarne è provare a dimenticare che quel tempo non è più. In questo coinvolgente dialogo un professore racconta sua madre, ormai morta, ad una giornalista. Fuggendo da ogni chiusura cronologica, consapevole che il senso delle cose non è in un prima e in un dopo, l’uomo stringe tra le mani un album di fotografie che darà corpo con le sue immagini alle linee sovrapposte di quell’esistenza tracciate dai ricordi di un figlio. Figlio senza più una madre, foglia secca che vira nell’aria senza la terra sotto, nessuna conferma degli sforzi della propria quotidianità.
Difficile capire questa solitudine fino a quando non si prova, irrimediabilmente diversa da quella che abbiamo vissuto mille volte e che poi è sparita nello sbadiglio di una nuova mattina. Così come diventare padre o madre cambia il senso di appartenenza al mondo, non essere più figlio lo indebolisce.
In questo dialogo sorprende il modo originale di parlare del sangue, la stessa volontà di provare ad accettare un’eredità che include quasi il dovere di non dimenticare e che diventa piacere quando emergono dal ricordo i caratteri. I caratteri di un rapporto esclusivo, quello materno, ma anche i caratteri di chi ora ne parla. La forza di questo dialogo infatti non è solo nella storia affascinante di questa madre ma anche nella conversazione tra l’uomo e la donna che in alcuni momenti si lasciano andare ad un’inaspettata intimità travolgendo ogni formalità e tutta la retorica di queste occasioni. Solo grazie a questa spontaneità e al loro darsi all’interlocutore può prendere forma ciò che resta di quell’amore.
Questa conversazione ci fa riflettere sul senso della morte e sulle possibilità del tutto personali di elaborare un lutto con le quali abbiamo bisogno di confrontarci per affrontare qualcosa che ci ha riguardato o ci riguarderà quando davanti ad una scomparsa diremo non ancora noi e vivremo il passato come un tempo nuovo, come se non fosse mai stato e dovessimo inventare una storia di cui siamo i protagonisti.

Niente e così sia


Niente e così sia
di Oriana Fallaci
BUR, 1997

Prima edizione: Milano, Rizzoli, 1969

E pensai che in quel momento, nel resto del mondo, la polemica infuriava sui trapianti del cuore: la gente nel resto del mondo si chiedeva se fosse lecito togliere il cuore a un malato con dieci minuti di respiro per darlo a un altro malato cui restano dieci mesi di vita, qui invece nessuno si chiedeva se fosse lecito togliere l’ intera esistenza a un intero popolo di creature giovani, sane, col cuore a posto.

Nel titolo di Oriana Fallaci, “Niente e così sia”, è già implicita la violenta carica polemica della giornalista che ha attraversato il mondo fino a Dak To, villaggio ai confini della Cambogia col Vietnam, che ha assistito a fucilazioni, battaglie, bombardamenti per dare risposta alla domanda di una bambina: “La vita cos’ è?”. La vita… “ molto più del tempo che passa fra il momento in cui si nasce e il momento in cui si muore, su questo pianeta dove gli uomini fanno miracoli per salvare un moribondo e le creature sane le ammazzano a cento, mille, un milione per volta.

Il diario della Fallaci è il tragico reportage di una guerra senza fine in un Paese remoto e malato, in un mondo che si dibatte in contraddizioni insolubili: la ricerca scientifica ed il progresso di contro al sacrificio dei vietcong, dei soldati americani, dei civili immolati sull’ altare della Storia; il sogno dello sbarco sulla Luna… forse un diversivo, una via di fuga per non pensare a quanto ci resti da fare sulla Terra; la poesia che giunge fin nei campi minati come il credo disincantato di un condannato a morte che recita:

“[…] amico non dimenticar di combattere
perché pensi troppo all’ amore.
O non ci sarà più amore su questa terra.”

Una cronaca scabra, essenziale, sferzante nei confronti del perbenismo e dell’ etica di alcune società occidentali. Una testimonianza che non può lasciare indifferenti perché all’interno dell’ esperienza vissuta dall’ autrice è contenuta l a storia di migliaia tra soldati, politici, donne e bambini e giornalisti come lei… non personaggi ma persone realmente esistite ed alcune delle quali avrebbero preferito forse non nascere.
La Fallaci strappa all’ oblio anche il diario di un vietcong il cui contenuto viene tradotto e riportato integralmente per dare voce a chi è stato costretto ad una guerra di cui non capisce neanche le motivazioni. E tra le interviste, gli incontri e gli scontri sotto le bombe lanciate in volo dagli aeroplani in quel Vietnam che diventa un’ arena, una sfida all’ eroismo umano, il pensiero martellante è che “la Luna è un sogno per chi non ha sogni”, grigia e vuota, e la vita sulla Terra è il palcoscenico (come direbbe Macbeth) da attraversare nel giusto, “perché il giusto esiste, se non esiste bisogna farlo esistere, e allora l’ importante non è morire, è morire dalla parte giusta”.



Eposto Ultimo Eva Maria

Leggi anche l'invito alla lettura di Occhi di notte: clicca qui

Un libro fatto di niente


Alessandro Baricco
Seta
pp. 100 ca

prezzo: 5 €
edizioni BUR


Alessandro Baricco è sicuramente una delle più evidenti e variopinte vesti che la cultura odierna ha saputo assumere nella coniugazione del commercio all'attività intellettuale. Non mi si fraintenda. Seta e tutta la produzione di questo autore multiforme non rientrano nei canoni del commerciale ma del commerciabile. Ossia non è pensata esclusivamente per vendere, come l'impiegato immobiliare che vende al miglior offerente i suoi metri quadri sopra il cielo (ogni riferimento è puramente voluto), ma evitando per vie dirette una letteratura impegnata crea un qualcosa di impalpabile ed etereo che con i richiami alle grandi passioni ed all'esotico spazio-temporale avvolge il lettore in ciò che è più di un esercizio di bello stile. "Un libro fatto di niente", lo definisce Pietro Citati rifacendosi a Gustave Flaubert, poiché Baricco ha immaginato "che tutta la letteratura del mondo fosse scomparsa". A mio parere le cose non stanno proprio così. I termini in cui questa storia (Baricco stesso la definisce tale scartando prima "romanzo" e poi "racconto") si pone sono esattamente quelli delle Lezioni Americane di Italo Calvino, in particolare le prime due conferenze ossia la Leggerezza e la Rapidità. La leggerezza intrinseca della narrazione consiste di un repertorio stilistico e di contenuti lieve e sottile come la seta, appunto, intessendone una trama dai tratti delicati e fini al tatto di qualsiasi lettore. Su questo primo tessuto stilistico prendono forma i personaggi coinvolti in un vortice di eventi e di passioni sempre "leggere" ma di una rapidità e di una concisione tale da non annoiare il destinatario della narrazione con particolari troppo approfonditi o specifiche digressioni: un filo di seta, dritto e morbido, congiunge gli eventi nevralgici della narrazione senza perdersi nel labirinto dei possibili excursus come un novello Teseo. L'effetto d'insieme, però, non pecca in esattezza e precisione dipingendo sì un acquerello ma con i contorni ripassati a matita, senza alcuna sfocatura o sbavatura; ciò che colpisce in ultima analisi è l'estrema fruibilità di un libro di questo genere che si dinoccola agilmente con ottimo linguaggio e stile sul sentiero della brevità di memoria ellenistica. Non è il solito libro destinato a quella determinata classe colta (avrei voluto dire dirigente, ma spesso i due aggettivi non coincidono...) e solo da essa apprezzabile e usufruibile, ma al contrario, senza tramutarsi in un prodotto di consumo, Seta facilmente invaghisce quelle anime che frequentemente siedono ai gradini più bassi delle nostre gerarchie culturali, mendicando un po' di attenzione. Attenzione che a più di dieci anni di distanza dalla prima pubblicazione del libro (1996) viene restituita con gli interessi al pubblico e qui cito la recente versione cinematografica omonima a cura di François Girard. In ogni caso un testo da leggere tutto d'un fiato, magari di notte o in un viaggio in treno, adatto ad un pubblico assolutamente eterogeneo e pensato in un'ottica di pathos universale molto diverso dal pathos "costruttore di consensi" romantico presagito da Leopardi (cfr.: Giacomo Leopardi, Il discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica) e che nella nostra realtà quotidiana spadroneggia sfruttando il naturale senso di coinvolgimento nelle passioni più forti e deleterie dell'umano sentire (si pensi a tutte le liti e le polemiche in tv costruite ad arte...); il patetico di Baricco non è altro che la narrazione stessa, il suo fluire tra le mani sia del lettore che dell'autore rapido ed impalpabile, leggero e dolce, ma allo stesso tempo fortemente icastico, capace di evocare tutte quelle vibrazioni simpatiche nell'animo di chi vi si imbatte da rendere questo piccolo volumetto un classico contemporaneo, da leggere semplicemente per provare la lieve sensazione di una carezza di seta sulla propria mente, senza (apparentemente) altro motivo alcuno.

Adriano Morea

p.s.: Mi scuso per non aver fatto un solo accenno specifico alla trama, ma credo che sia meglio non togliere sorprese...


Invito alla lettura: Orgoglio e pregiudizio


Orgoglio e pregiudizio
di Jane Austen

[Proprio di recente m'è capitato di leggere l'accostamento dell'aggettivo “anacronistico” ai classici. E ne è nato un sorriso, specialmente se consideriamo che classiche sono proprio quelle opere che sfuggono dall'angustia del tempo, valicano le mode e si conquistano la cima dei riconoscimenti di critica e di pubblico. Se, dunque, la scorsa settimana avevo pensato a tutt'altra impostazione per l'invito alla lettura di Orgoglio e pregiudizio, oggi farò il possibile per dimostrarne la modernità (ammesso che sia sempre da ricercarsi)].

Oggetto di molti studi e di altrettante riduzioni teatrali e cinematografiche, il romanzo è senza dubbio tra i più amati della Austen. Esce nel 1813 e, in poco tempo, il successo è conclamato. Perché? Innanzitutto, il romanzo è una godibilissima passeggiata per le colline dell'Inghilterra: Londra è tanto lontana da sembrare iridata e lucente, ma non a sufficienza, per non influenzare la vita e le mode delle famiglie locali. In particolare, la penna vivace e arguta della Austen si posa sulla vita della famiglia Bennet, sempre affettuosamente tratteggiata. Il signor Bennet (meraviglioso esempio di humour inglese) ha il compito ingrato di far sposare le sue cinque figlie a buoni partiti, per accontentare la sua caricaturale consorte (donna frivola e volgare che fa sorridere per il suo ostentato amore per il lusso). Il sogno della famiglia Bennet sembra realizzarsi, quando arrivano in paese dei nobili dalla città: due fratelli, i Bingley, e l'amico di famiglia, Darcy. Se il primo rappresenta un esempio di nobile senza pregiudizi, al punto di innamorarsi della timida ed eterea primogenita Jane Bennet, Darcy è un tenebroso, pronto a mascherarsi dietro una cortina di snobberia, quanto a incrociare infiniti duelli verbali con Elizabeth Bennet, cocciuta e acuta. Vari sono gli episodi che si intrecciano di capitolo in capitolo (sempre di misura contenuta), e tutti sono sorprendentemente fondamentali alla narrazione.

E poi ci sono i dialoghi. Svelti, intelligenti e spesso ironici: la Austen offre sempre una gran prova di prontezza, evitando così il rischio di appiattire il tutto a sterili conversazioni dell'epoca. Infatti, se anche vengono costruiti secondo i dettami linguistici del tempo, non manca una vena di humour inglese accattivante e giocosa. Proprio attraverso le stesse ipocrisie rivelate nelle conversazioni, la Austen non risparmia giudizi pungenti verso la società inglese contemporanea, ancorata al perbenismo, ma pronta al pettegolezzo e alla prevaricazione, nonché aipregiudizi.
Non è difficile capire che le premesse non sono particolarmente innovative, ma la maestria della Austen sta nella capacità di portare al sorriso, tanto quanto alla commozione. Per quanto sia indiscusso la preminenza di Elizabeth e Darcy, tutti i personaggi, persino l'odioso cugino, avido di fama e leccapiedi, si conquistano la simpatia e l'attenzione del lettore. Un possibile motivo? Sono così umani da materializzarsi, fin dalle primissime pagine.

Un buon risultato anche per i film che ne sono stati tratti, meglio la pellicola più fedele al testo, ovvero quella uscita negli Stati Uniti nel 1940, ancora in bianco e nero, per la regia di Robert Z. Leonard, con un convincente Laurence Olivier nel ruolo di Darcy, e l’affascinante Greer Garson in quello di Elizabeth. Non mi sembra comunque da disprezzare la riduzione cinematografica (di grande successo) di Joe Wright, nel 2005, con l’acclamatissima Keira Knightley e Mattew MacFadyen, sempre molto bravo.

GMG

che cosa è giusto e che cosa è inaccettabile? "Una teoria della giustizia", un classico del pensiero politico contemporaneo.


John Rawls
Una Teoria della Giustizia

pg.504


I filosofi che hanno tentato di dire che cosa è, per il mondo in cui viviamo, una “società giusta”, lo hanno fatto in riferimento, contrastandolo o suffragandolo, al paradigma di giustizia che John Rawls proponeva nel suo libro più conosciuto, Una Teoria della Giustizia (1971).

L'obiettivo fondamentale del testo è quello di proporre una teoria di ciò che è giusto, alternativa, da un lato, alle varianti dell'utilitarismo, verso cui le teorie economiche mostravano la loro sudditanza, quantomeno psicologica, dall'altro, alle teorie intuizionistiche, che si fondavano su una serie di intuizioni, vaghe, di ciò che è giusto, e soprattutto inconciliabili fra loro.

L'intuizione fondamentale di Rawls nell'ambito delle questioni di giustizia (cioè delle scelte collettive, e degli assetti istituzionali della società) è questa: tutti i beni sociali, le libertà, le opportunità, le risorse, devono essere divisi equamente tra le persone, a meno che una qualche disuguaglianza nella distribuzione non vada a vantaggio degli individui più svantaggiati.

L'uguaglianza per Rawls non è un livellamento del reddito, delle opportunità e delle capacità, ma “trattare gli individui da eguali significa rimuovere non tutte le disuguaglianze, ma solo quelle che vanno a svantaggio di qualcuno. Le diseguaglianze che avvantaggiano tutti facendo emergere talenti ed energie socialmente utili sono accettabili da tutti” (Will Kymlicka, Introduzione alla filosofia politica, tr.it. pg.66).

Sembra abbastanza condivisibile considerare come disuguaglianza moralmente ingiustificata qualsiasi disuguaglianza che non dipenda dalle scelte delle persone, ma da fattori arbitrari. Non sembra giusto che le persone siano penalizzate nel conseguire i loro piani di vita da svantaggi di cui non hanno colpa (d'altro lato, è giusto che le persone siano responsabili di ciò che, invece scelgono).

Quali sono queste disuguaglianze ingiustificate? Ve ne sono di due tipi. Vi sono disuguaglianze sociali: che io sia nato in Italia, che io sia nato nero, o sia nato in una famiglia ricca, o in un orfanotrofio, o sia in una famiglia poverissima, non dipende da me. D'altronde il fatto che io nasca in Africa o in una ricca famiglia italiana influirà pesantemente sulla possibilità di realizzare i fini che ritengono rilevanti per la realizzazione della mia vita. Dunque una concezione della giustizia deve escogitare qualche modo per ridurre l'arbitrarietà di queste disuguaglianza.

Ma la teoria di Rawls si propone di mitigare l'arbitrarietà anche di un'altra forma di disuguaglianza ingiustificata, e per farlo critica la comune concezione meritocratica delle uguali opportunità. Secondo questa concezione, io guadagno di più perché sono più intelligente, più adatto al lavoro che svolgo, perchè ho più capacità per farlo. Ma io ho scelto di essere intelligente o il fatto che io sia intelligente non dipende da me? E se non dipende da me, così come non dipende da me il fatto che io sia sano, o malato, o soffra di morbi incurabili, o sia handicappato, in che senso è giusto che io prenda di più? È possibile parlare di merito se esso è indipendente dalle scelte delle persone? Anche le disuguaglianze naturali tra gli uomini non dipendono da loro scelte, quanto piuttosto da una specie di lotteria.

Una teoria della giustizia che mitighi queste disuguaglianze non nega i meriti, o i talenti, ma accetta solo disuguaglianze giustificate, disuguaglianza che vadano a vantaggio di tutti.

Le Piccole opere di un Grande uomo


Ormai avrete capito che sono un patito dei mercatini delle pulci, in cui si può sempre trovare qualche bella sorpresa magari non più in commercio da un po'. Potete ammirare in riproduzione fedelissima il volume che ho avuto il piacere di leggere e che antepongo ad altri nella recensione proprio per la sua incredibile leggibilità. Oggi vi propongo tre racconti lunghi (o romanzi brevi, a seconda della prospettiva) del maestro Michail Bulgakov più conosciuto sicuramente per Il maestro e Margherita che in questa sede mi propongo di leggere e recensire.



Michail Bulgakov


Cuore di cane - Diavoleide - Le uova fatali

Edizioni Newton
ca 190 pp.
4000 lire (ignoro il prezzo attuale!)

L'ambito storico-geografico in cui si muovono sia la figura dell'autore che i suoi personaggi è la Russia degli anni '20, in un primo novecento ancora febbricitante per l'avvenuta rivoluzione che ha proiettato i suoi artefici in uno stato di fervore ebbro e smodato. In questa chiave tutte le "conquiste" della nuova realtà borghese rivelano la loro natura ottusamente burocratica contro la quale Bulgakov si scaglia con vivace ironia, facendo scaturendo a tratti brillanti scintille satiriche. L'ordine con cui il volume propone i racconti non è effettivamente quello reale cronologico della composizione degli stessi: infatti risultano tutti scritti tra il 1924 e il 1925 ma spostando Cuore di cane dal primo all'ultimo posto di questo piccolo campionario del nuovo homo sovieticus risultato della Rivoluzione di febbraio e di quella d'ottobre (non ci sono riferimenti diretti a Lenin, ma la critica investe indirettamente anche lui). E proprio con Cuore di cane Bulgakov spiega in chiave ironica una delle possibili eziologie dell' homo sovieticus ossia un trapianto di un'ipofisi umana in un cane. Il risultato, manco a dirlo, è un uomo (anche se lo stesso autore, tramite la voce del chirurgo ribadisce la sua non umanità) dai sentimenti, però, che la stessa razza umana attribuisce indebitamente (come si scopre nella narrazione in prima persona del cane in questione) ai rappresentanti della razza canina. Traspare così la precedente vocazione medica di Bulgakov, come nel racconto successivo prende forma quel flusso misto di fantasia surreale e rigida realtà burocratica su cui si muove il protagonista, povero impiegato in una fabbrica di fiammiferi. Si tratta di Diavoleide. La trama surreale, che si chiude con un rindondante senso del macabro, porta il suo personaggio principale a perdere il posto di lavoro per un bisticcio di parole (nella traduzione italiana reso eccellentemente) e nel suo spannung completamente surreale si collocano i tentativi di riassunzione tradotti in un inseguimento del capuffico su scene degne del più sognante Dalì. Le uova fatali riprende il filone fantascientifico dello scrittore russo con un incredibile raggio rosso scoperto da un luminare della zoologia, capace di accelerare la crescita cellulare. E' lapalissiano rivelare che nel corso della trama ne sarà fatto un uso improprio, causando una vera e propria tragedia. Sempre presente quindi sullo sfondo una povertà di tasche a cui fa fronte una povertà intellettuale incapace di porre una soluzione valida alla prima, nel segno rosso di un comunismo applicato come dura forma di sopravvivenza estrema a spese altrui senza i veri contenuti dettati da Marx ed Engels. Lo stile di Bulgakov appare così lineare e piacevole alla lettura, capace di traghettare l'anonimo lettore in una crociera con ogni comfort nel mare contenutisticamente aspro della critica sociale, non con un fare distaccato ma quasi immergendolo, con una tecnica narrativa molto sviluppata, nello svolgersi della vicenda. L'intento chiaro di disamina sociale è pienamente raggiunto con una corrosività ed un impeto di cui anche la nostra epoca ha fortemente bisogno.
Adriano Morea

Un mondo speciale


MIGUILIM di Joao Guimaraes Rosa
Miguilim” è un ricordo d’infanzia, sfocato, frammentario, discontinuo come il linguaggio che racconta la sua storia. Una storia che si perde nelle vaste distese del Sertao, dove la vita ha il ritmo delle piogge e sono le superstizioni, i riti ancestrali e i segreti a far scorrere sangue nel tempo, a dare una missione agli uomini affaticati dal lavoro nei campi e alle donne impazzite di solitudine. Impariamo a conoscere questo mondo attraverso gli occhi attenti di un bambino, ascoltiamo i suoi pensieri lontani da qualsiasi logica venir fuori con una tenerezza infinita per cercare di capire i silenzi della madre, le imprecazioni della nonna, le violenze del padre. Se si dovesse rispondere a chi chiede cosa succede nel racconto, si potrebbe dire che succede l’infanzia. Succede che pagina dopo pagina cresce il nostro legame con questo personaggio così piccolo ma così vero da smuovere inconsapevolmente i fantasmi di quella stagione umana che siamo abituati a pensare felice, ma durante la quale anche noi, come Miguilim, ci siamo sentiti inadeguati, abbiamo cercato mille rimedi per esorcizzare paure, per proteggere la magia della vita da adulti sempre più distratti, per affrontare il carattere di una Natura spietata. Miguilim sa che la Natura si è vendicata con la morte del fratello ma non sa qual è la sua colpa, sa che con la scomparsa del suo cane c’entra il padre. Miguilim sa ma non vede. In questa creatura c’è tutto il senso della mancanza, dell’assenza che prova l’umanità (- Sento la mancanza di una cosa che non so cos’è … -) nella sua esistenza limitata. Ed è proprio per colmare questo vuoto che Miguilim dialoga con una struggente intimità con quel Dio che gli adulti tanto invocano. Il destino di Miguilim però non è quello di restare nella sua terra, a vedere le cose come le vedono gli altri e in un giorno speciale gli viene offerta la possibilità di partire così che i suoi occhi potranno riempirsi del colore di quel mare che la madre può solo immaginare e non ha mai visto.
Attraverso una metafora che nella sua semplicità ci lascia sorpresi, scopriamo che l’inadeguatezza del bimbo è dovuta al fatto che “non ha la vista buona”. Il dottore, che sarà suo compagno di viaggio, scopre che Miguilim ha bisogno degli occhiali e quando li indosserà prima di partire “guarda tutto con tanta forza”. Si può pensare che sia l’idea della partenza, dell’abbandono a dare a quei posti e a quei volti un nuovo aspetto; la prospettiva del viaggio che sarà crescita. Il vedere che in questo racconto diventa come non mai esperienza ci mette in contatto con una sensibilità tutta originale. Il linguaggio ricco di anacoluti e la sintassi inesistente disorientano i nostri sensi proprio come il grande potere evocativo di Guimaraes Rosa, caratteristico d’altronde di tutti gli scrittori latinoamericani.

Utilirarismo e oltre: Giuliano Pontara e la riflessione su ciò che è giusto/bene fare.


Breviario per un'etica quotidiana, 222 pg.
Giuliano Pontara

Come scrive l'autore nella Prefazione, il libro di cui mi accingo a fare una recensione, non è una raccolta di ricette morali, pare proprio che di ricette, nell'ambito della riflessione morale, non ve ne sia alcuna.

Il libro è invece un'analisi, acuta ed agile per i non addetti ai lavori (come me), di una delle teorie morali più influenti della modernità: l'utilitarismo.

Vorrei introdurvi alla scoperta di questa teoria attraverso l'esposizione di un esperimento morale, così frequente nelle riflessioni morali contemporanee. Se il caso morale sarà riuscito a far reagire (proprio nel senso chimico del termine) i vostri giudizi intuitivi di cosa sia la moralità, il risultato sarà ottenuto.

Se io vi chiedessi se siete disposti ad uccidere un uomo, ho buone ragioni di credere che nessuno di noi metterebbe in discussione che è sempre moralmente sbagliato uccidere chicchessia: le persone godono di un diritto alla vita, e tale diritto comporta un nostro dovere prima facie di rispettarlo.

Ora ipotizziamo che la persona che vi troviate di fronte sia un terrorista, con indosso tante bombe da far saltare un palazzo. Se l'uccidete, egli non potrà innescare le bombe, e voi avrete salvato la vita di centinaia di persone innocenti. Siete ancora disposti a non uccidere, in nome dell'assolutezza dei principi morali?

Se siete vicino ad un lago austriaco, ai primi del Novecento, ed un bambino sta affogando, andreste a salvarlo? E se sapeste che quel bambino è Adolf Hitler, da piccolo, cosa fareste?

Questi esempi morali possono sembrare giochetti, ma in realtà sono molto più seri di ciò che appaiono e molto più vicini al reale. Ad esempio, uno stato deve investire risorse (scarse) in macchinari costosissimi per un certo numero di malati gravi di cuore, o per incrementare l'istruzione pubblica, la sanità pubblica, di un numero molto superiore di persone? Qualsiasi scelta voi sosteniate, vi è necessario un criterio, cioè buone ragioni per sostenerlo, cioè una teoria morale.

Se sostenete che non siete disposti ad uccidere, in maniera assoluta, cioè in nessun caso, allora sostenete un tipo di etica deontologica (l'etica di Kant è un'etica deontologica) : ritenete che la morale si fondi su principi del tipo, -Non uccidere!- (fai x perchè devi!), e questi principi sono assoluti (qualora voleste attenuare l'assolutezza di questi principi, dovreste anche specificare in quali condizioni tali principi possano venire disattesi, ma vi ficchereste in un ginepraio teorico dal quale difficilmente sareste in grado di uscire, e probabilmente dovreste abbandonare la vostra teoria morale).

Se invece sostenete che la moralità di un'azione non dipenda dall'adesione a determinati assoluti morali, ma dalla valutazione delle conseguenze, cioè che un'azione dipenda dalla realizzazione di un fine (fai x, se vuoi y), allora siete sostenitori (come me) di un'etica teleologica, e forse siete utilitaristi.

Bene, se siete utilitaristi, o se anche non lo siete, e volete dire che l'utilitarismo è una bella schifezza, (d'altronde penso che l'utilitarismo sia la teoria morale più violentemente avversata e meno capita: Benedetto Croce la confondeva con l'egoismo etico), allora leggete il libro di Pontara.

Il comando dell'utilitarismo è questo: massimizza l'utilità (individuale o sociale).
Il libro risponde a queste ed altre domande: Che cosa intendiamo per utilità? Forse il piacere, o la soddisfazione di preferenze, o altri beni con valore intrinseco? Massimizzare l'utilità sociale significa massimizzare l'utilità di tutti o della maggioranza? Che implicazioni hanno teorie che non possono tenere conto dei diritti delle persone (fondati su circostanze passate)? Che cosa significano termini come “obbligo”; “libertà”, “dovere”; se ciò ha valore morale è solo la massimizzazione del piacere? La libertà, l'autonomia morale, l'identità, hanno valore intrinseco?

Ortaggio o no, una forza della natura

Titolo: Col cavolo
Autore: Luciana Littizzetto
Editore: Mondadori
Prezzo: 9,00 € ed. economica
Anno: 2006
Pagine: 167

Ho imparato a conoscere e apprezzare la vis comica di Luciana Littizzetto attraverso i suoi splendidi interventi al termine della trasmissione televisiva Che tempo che fa (vd. foto in basso), magistralmente condotta da Fabio Fazio. E, c'è da ammetterlo, con questo terzo volume della sua "trilogia degli ortaggi" la comica torinese non fa che confermare la linea aspra e satirica che tanto successo le procura presso il pubblico.
Dopo aver sezionato l'universo della "donna single un po' frollata" in Sola come un gambo di sedano, La principessa sul pisello e Col cavolo rappresentano i due atti di una stessa commedia dedicata alle coppie e ai loro piccoli grandi problemi. Il rotolo finito della carta igienica, la tavoletta del water, la spazzatura da portare giù: ogni breve monologo che compone il volume porta a galla con la tipica verve della Littizzetto topoi classici (e, a dirla tutta, un po' triti) di certa comicità femminista. Lui è il classico uomo-scimmione, e lei...?
Ecco una bella domanda: chi è la donna di Luciana Littizzetto? Il libro è popolato da diverse figure femminili, amiche della scrittrice, ognuna col suo "boy" (o più di uno), fidanzato, marito, convivente: oguna con una diversa situazione amorosa e un diverso modo di affrontarla. Spicca fra tutte (per frequenza di apparizione) Molly, fantomatico personaggio dalla vita sentimentale alquanto movimentata. Si tratta, probabilmente, del personaggio trattato con meno indulgenza dalla Littizzetto, che con asprezza e senza molti sorrisi punta il dito contro la sua superficialità, grande rappresentante della superficialità del mondo e della società.
Cosa inaspettata, la satira femminista di Luciana si veste di... moralità. Le sue mordaci riflessioni e i suoi attacchi vanno oltre il rapporto uomo-donna, come di consueto, per investire l'intera società con il suo vuoto e squallido stile di vita, la matassa di luoghi comuni che fanno la rabbia e l'alienazione dell'uomo moderno. Ma un insieme di monologhi "genderized" poteva benissimo fermarsi qui, e invece, in qualche (rarissimo) spazio si trovano piccoli sprazzi di luce, di speranza nei valori, nell'amore, nel futuro. Per quanto non si tratti di un libro impegnativo, è bello notare che la satira di costume non mira soltanto a distruggere, ma lascia qualche spiraglio aperto, anche piccolissimo. Un esempio che mi ha fatto sorridere, in cui Luciana racconta di una sua amica neomamma:

Non sapevo cosa regalare a Giuditta. Oro, incenso e mirra mi sono sembrati doni un po' scontati. Le ho comprato un fiocco. Di quelli da appendere alla porta. Saranno pacchiani ma a me mettono allegria. Io attraveso la strada per guardarli da vicino. Quelli con su scritto: mamma è felice, papà è contento, ed io mi presento: Gilberto. E io penso: benvenuto Gil. Vieni, che di sole ce n'è anche per te.

Un'ultima considerazione sullo stile. Come leggere questo libro? Io consiglierei una lettura "in pillole": d'altronde, i capitoli non possiedono una linea logica che lega l'uno all'altro e un approccio random può rendere più piacevole la scrittura nervosa della Littizzetto. Si tratta infatti di una sintassi spezzata, ansiosa, che reca chiaramente forti influssi del suo modo di parlare ma che sulla pagina scritta può risultare un po' pesante. Questo l'amaro. Il dolce, indubbiamente, è nella forza delle metafore ardite, della colloquialità ad oltranza accostata a immagini inaspettate, tratte dai campi del sapere più disparati. Una lettura gustosa, insomma, non impegnativa ma da dosare con attenzione per poterla apprezzare al meglio. D'altro canto, "donna-verdura" o no, la Littizzetto è una vera forza della natura.