Il Salotto: intervista a Marco Bernini

Ciao Marco,
grazie per aver accettato la nostra proposta e per iniziare insieme questa chiacchierata sul tuo I racconti della balaustra (ecco la recensione).


Come è nato questo romanzo? È stata una lunga gestazione?

Ciao a tutti, innanzitutto grazie per avermi ospitato in questo interessantissimo spazio, che sinceramente non conoscevo, ma che d'ora in poi non abbandonerà la colonna “preferiti” del mio browser..mamma mia comincio con le parolone! Tornando alla domanda, “i racconti della balaustra” sono nati in una notte, con la consapevolezza di essere diventato “vecchio” raggiunta in occasione di una stressatissima giornata a Roma, quando una ragazza mi dette bruscamente del “lei” trattandomi come un pensionato. D'impulso scrissi quello che poi è diventato il primo racconto del libro, e da lì, nell'arco di un'estate, quasi tutti gli altri. I ritocchi finali sono stati poi apportati nell'anno successivo, ma stavo già vagando tra una casa editrice e l'altra in attesa delle giuste sensazioni (chiamiamole così) per essere pubblicato...

Sappiamo che ogni autore mette un po’ di sé nelle proprie opere e, a maggior ragione, si scopre se scrive un romanzo autobiografico. D’altra parte, nessun lettore può capire dove ci sia realtà, e dove finzione. Quanto Marco-protagonista e narratore è anche Marco-scrittore?
Come ho già fatto capire con la risposta precedente, lo spunto vede protagonista il vero Marco. Quello scrittore affiora lentamente, operando come un artigiano che mette insieme frammenti di storie appartenute ad amici, ad amici di amici e così via, creando un apparato narrativo che portasse i protagonisti della balaustra, ovvero Tony, Pitta, Ventata, il Maso, il Pastore e gli altri a vivere tutte le storie, in un arco di tempo “allargato” agli ultimi quindici anni che mi ha permesso di raccontare una generazione, quella dei trenta-trentacinquenni che si ritrovano sempre nei soliti giri, con persone intorno sempre più giovani, fino a chiedersi “che cosa ci faccio qui”...o magari qualcuno tra loro non vuole chiederselo.

Leggendo il tuo libro, è facile per le nostre generazioni che hanno vissuto appieno gli anni ’90, da bambini o da adolescenti, riconoscere musiche, slang e altri elementi irrinunciabili di quel periodo. Pensi che questo background così ben definito possa incuriosire gli adolescenti di oggi, o i lettori ideali sono soprattutto i tuoi quasi coetanei che si bevono una sorsata di ricordi?
L'inserimento di elementi di riferimento precisi che dessero al lettore la possibilità di una immersione a 360° nella narrazione è una caratteristica dei miei scritti, che ho continuato ad utilizzare nel mio nuovo libro (ma di questo ve ne parlo più avanti!). Penso che sia un valore aggiunto anche per chi ha un'età diversa dai protagonisti, in fin dei conti film sugli anni '70 o '60 sono apprezzati se i protagonisti vestono come all'epoca e ascoltano musica del tempo, dunque ho trasferito le sensazioni che queste ricostruzioni erano capaci di dare nel mio piccolo libro, sperando di battere la concorrenza di ipod e psp...ma so che è dura. Ho fatto fatica a propormi tra i giovanissimi, vedono i libri e pensano a quelli di scuola...me l'hanno detto per battuta ma forse per loro è un po' così.

Si crea spesso un rapporto conflittuale o di cameratismo con i propri personaggi. Cosa ne pensi?
Io amo molto i miei personaggi, tant'è vero che faranno parte di una trilogia di cui “i racconti della balaustra” costituisce solo il primo capitolo. A Natale uscirà il prossimo, “Il mare in fondo alla strada”, nel quale scopriremo le origini dello strano gruppo di amici che si ritrova sul lungomare. Nel prossimo, “I racconti del pannolino”, li troveremo alle prese con neonati urlanti e mogli dittatoriali, e...ci sarà da ridere.
Spesso ognuno di loro rappresenta una parte diversa di me. Tony più pigro e meno riflessivo di Marco, il Maso più casinista, il Pastore più impulsivo, e così via. Li utilizzo per dire e fare cose che magari messe in bocca al semplice narratore risulterebbero meno divertenti o meno interessanti per il lettore. Spero di esserci riuscito!

Nessuno dei tuoi amici s’è riconosciuto, nonostante lo pseudonimo? Vuoi raccontarci qualche reazione?
La prima mail che ho ricevuto è stata quella de “l'avvocato”, un membro del vero gruppo della balaustra che si è arrabbiato per non essere stato citato. Ho dovuto fare delle scelte. I racconti giravano già tra noi prima della pubblicazione, e al momento fatidico ho chiesto se qualcuno voleva che cambiassi lo pseudonimo, col quale abitualmente ci apostrofavamo in quel periodo. Quasi tutti hanno voluto che lo mantenessi, perché in fondo volevano che tutte le riflessioni figlie delle strampalate avventure che racconto venissero rese pubbliche, perché secondo loro era importante provare a condividere questa sensazione di “stare sul bordo dell'onda” che si prova quando si fa parte di un movimento ma non se ne condividono pienamente gli orientamenti. L'episodio più bello è accaduto alla prima presentazione, a Livorno: il vero Yuri ha alzato la mano e ha chiesto, nel silenzio della sala “ma lei si è ispirato a qualcuno in particolare per il personaggio di Yuri?”. Tutti sapevano che era lui, e le risate hanno fatto quasi cadere i libri dagli scaffali.

Pensi che sia possibile avere un seguito del romanzo, o le avventure di Marco e dei suoi amici sono finite con l’ingresso all’età adulta?
Come ho anticipato nella risposta precedente, il prossimo libro sarà un “prequel” (altro parolone), nel quale per la prima volta l'amore si affaccia nel mondo ancora vergine degli adolescenti Marco, Tony, Maso e Bitta, mentre per il futuro...sto scrivendo e vi assicuro che la fase “pannolino” è veramente esilarante! Abbiate pazienza e vedrete...

E ora, qualche domanda più personale. Come si coniuga la tua professione d’ingegnere alla scrittura? Tanti esempi illustri prima di te ce l’hanno fatta brillantemente (dobbiamo scomodare il grandissimo Gadda?).
Lasciamo stare i grandissimi...io sono molto contento del mio lavoro, soprattutto adesso che sono riuscito ad organizzare i miei impegni in maniera più indipendente rispetto al passato. Svolgo infatti la libera professione, e questo mi consente di avere tempo per me. Sembra un paradosso, ma riuscivo a scrivere molto di più prima, quando facevo il pendolare e passavo tre ore al giorno in treno! Tutti gli altri passeggeri mi conoscevano, e qualcuno mi chiedeva anche “a che punto sei?”. Comunque penso che sia uno svago bellissimo, che riesce a distrarmi dalla aridità di alcuni compiti esclusivamente tecnici. Io per lavoro faccio conti e per passione scrivo...mia moglie è laureata in lettere e consuma tonnellate di SUDOKU! Ci deve essere un senso in tutto questo...ps io non sopporto il sudoku!

Noi ci siamo conosciuti a Belgioioso, alla fiera dei Piccoli editori in mostra. Bene, ho visto che hai accompagnato il tuo libro in molte fiere: come è stato?
Ogni fiera è un'esperienza a sé. Devo dire che più che il numero dei libri che si vendono, parametro peraltro importante, soprattutto per l'editore, è fondamentale l'insieme dei contatti personali che si sviluppano. Ad ogni fiera si conoscono un sacco di persone, giornalisti, lettori preparati, lettori sui generis, editori un po' folli, assessori in cerca di iniziative per i loro comuni sperduti, aspiranti scrittori alla ricerca dell'editore per i loro manoscritti...avrei mille aneddoti divertentissimi. Forse un giorno diventeranno libro, è un progetto a cui sto pensando col mio amico e collega (sia ingegnere che scrittore) Fabrizio Altieri. Ah mi raccomando, diffidate di lui, è pisano!

E ora che bolle in pentola? Un nuovo romanzo? Vuoi anticiparci qualcosa?
Vi ho già detto tutto....non resta che invitarmi sul sito o nella zona di Pavia per presentarvi il mio nuovo lavoro! Per quel poco che ci sono stato ho apprezzato molto la gastronomia! Se poi volete provare un po' di pesce, venite a Livorno a trovarmi!


Molte grazie per la tua gentilezza, e a presto!
Gloria Ghioni

Così si vince il Campiello 2008



Rossovermiglio

di Benedetta Cibrario
Milano, Feltrinelli, 2007
pp. 213
€15.00

Con una descrizione paesaggistica di altri tempi, invasa da profumi e percezioni plurime, si presenta la Toscana che sarà sfondo, personaggio e costante presenza nel delicato romanzo di Benedetta Cibrario. Con la sua scrittura genuina ed emotiva, pronta ad allargarsi in larghi e ariosi periodi, o a contrarsi in mozziconi di frasi sincopate, siamo introdotti nella storia di un amore incondizionato, di una vita dedicata alla ricerca di sé stessa e dell’indipendenza, economica e sociale.
È la stessa protagonista, ormai anziana, a ripercorrere con vorticosi flashback i frammenti della sua vita, ora sfrangiando le memorie, ora addobbandole di riflessioni a posteriori. In particolare, della giovinezza torinese nel lontano 1928 tratteggia senza maschere quelle vene di decadenza che caratterizzavano la società nobile ormai stantia, ancorata sui francesismi e sui merletti per ristabilire la superiorità. E, proprio in nome di queste origini, alla giovanissima e ancora immatura protagonista viene proposto un matrimonio d’interesse: tra i cinque pretendenti, la ragazza sceglie quello che credeva essere più incline a lei, per via della passione per i cavalli e una certa gentilezza d’apparenza. Ma non sarà così semplice la vita matrimoniale, specialmente dopo l’incontro fatale con il misterioso e inafferrabile Trott. La passione sfavilla in pochi incontri lontani nel tempo, tempestati di aspettative pregresse, congelati da piccole ma indimenticabili delusioni.
Tengo infatti a sottolineare che, proprio in nome di queste, l’invasione della storia non si fa mai prepotente, ma gli equilibri spezzati vengono sempre recuperati dalla visione a distanza, che segna il superamento della prima illusione. Ma è estremamente ben analizzato e soprattutto accettato l’amore che la protagonista nutre per Trott: una sorta di rassegnatezza spinge la protagonista a vivere al massimo i momenti con Trott, senza mai cercare di trattenerlo dal suo destino. La vera scoperta si avrà quando il marito da cui s’è separata senza mai dividersi annuncia di essere in fin di vita e, in queste condizioni, la raggiungerà alla rigogliosa tenuta dove ormai la donna vive, coltivando il ricercatissimo vino “Rossovermiglio”. Niente è come sembra, ed è proprio questo uno dei punti di maggiore fascino della storia.
Molte altre ragioni possono ben spiegare la premiazione di Benedetta Cibrario a quest’edizione del Campiello: una su tutte lo stile. E il suo stile è commozione, è letteratura ritrovata.


Anathea

Il barone rampante


Il barone rampante
di Italo Calvino
Milano, Mondadori, 2006

pg. 263

Nel 1956 Calvino ha un’ idea: un ragazzo sale sugli alberi e lì decide di vivere tutta la sua vita. Calvino stesso dice che “Il barone rampante” è lo sviluppo radicale di questa idea, fino alle estreme conseguenze. Il romanzo inizia così: Fu il 15 giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ ultima volta in mezzo a noi. Cosimo, il figlio dodicenne del barone di Rondò, decide di non obbedire al padre, di non mangiare un piatto di lumache, e di salire su un albero. Non scenderà più da quei rami, ma tra querce, ontani e lecci si costruirà un mondo, entrerà nel ritmo vitale della Natura, che si ripete sempre identico e sempre vivo, in una lotta con esso, che è scoperta di un mondo altro, non-umano, autonomo e libero, fatto di cinguettii e di freddo, di neve, di bestie notturne, di colori, di varietà infinita di foglie, di odori, di paesaggi, sacrificherà ad esso il mondo degli uomini, eppure, forse solo da quelle altezze in maniera autentica, vivrà il mondo degli uomini, perché egli non può immergersi tra gli uomini, o meglio, nell’ umanità, se non da una certa distanza da essi, cioè da un luogo critico, da un luogo riflesso, che è lontananza, cioè disprezzo per tutta quella dimensione umana di viltà, meschinità ed accidente, ma anche vicinanza, sentimento di fratellanza con gli uomini, volontà di fiducia nelle possibilità di apertura degli uomini, nelle possibilità di condivisione di un Bene comune. Ma quella di Cosimo non è una ribellione estemporanea, dettata da un piatto di lumache, ma una lotta che cova lungamente nel suo animo, che si scontra contro le imposizioni e le autorità di una famiglia che pure egli ama, è una scelta di vita. Ma questa ribellione è anche una prova d’ amore. Per una ragazza capricciosa e imprevedibile che gioca in un giardino dalle piante esotiche e sconosciute, che cavalca un cavallo bianco, che scherza con le bande di monelli straccioni che girano per gli orti in cerca di frutta, e che la nobiltà ha imparato a disprezzare. Ciò che gli Altri chiamano “perdersi” è il nostro tentativo di trovare la strada, di vivere una vita autentica, non irreggimentata. Solo la vita di Cosimo pare essere autentica. Non quella del padre barone, dispersa in mille inutili contese per titoli nobiliari, non quella dell’ Abate giansenista, incapace di incidere con tutta la sua filosofia sul mondo, portatore di una filosofia vuota, che è solo vaneggio ed apatia nei confronti del mondo, non quella del fratello Biagio, moderata e costretta nei vincoli imposti dalla società. Ma quanto bisogna perdere per vivere una vita autentica, fino a quanto oltre il rischio di scalare il cielo può portare? Chi vive all’ incrocio dei venti è bruciato vivo (F. De Gregari). Il romanzo è riferibile ad una pluralità di generi letterari. È romanzo di formazione, che riecheggia “Le confessioni di un italiano” di Nievo, sia nell’ ambiente storico, che nei personaggi, è romanzo di avventura, è fiaba allegorica. È romanzo filosofico non solo perché Cosimo è il prototipo di uomo illuminista, aperto all’ innovazione, realista e filantropo, né perché il protagonista, appassionato di letture illuministiche, intrattenga rapporti con figure filosofiche dell’ epoca, come Rousseau e Voltaire, ma soprattutto perché la scelta stessa della distanza dagli uomini per essere nel mondo degli uomini, è la mossa propria del pensiero, che si allontana, si riflette, per dispiegarsi. Nel romanzo si riverberano anche le condizioni della vita di Calvino. L’ autore, dopo i fatti d’ Ungheria, decide di uscire dal Pci, e molte frasi del romanzo sono assimilabili ad una riflessione circa le modalità di partecipazione attiva del singolo uomo nel movimento della Storia. Il romanzo ha una capacità di intrecciare una serie di temi, di generi, di riflessioni, in una rete che è solo all’ apparenza semplice, e che, nella misura in cui questa semplicità, scorrevolezza di lettura,è strumento capace di mantenere viva l’ attenzione del lettore, di farlo sorridere e divertire, rivela la propria eccezionalità e grandezza.

Distruzione senza ricostruzione: solo fiamme e cenere



Libri da ardere

di Amélie Nothomb
Roma, Robin Edizioni, 2008

1^ edizione: Les Combustibles, 1994
Traduzione di A. Grilli
Introduzione di Claudio Maria Messina

pp. 106 e appendici
€ 8.00

Cosa accade se in una stessa casa angusta e fredda in periodo di guerra convivono un professore non più giovane, il suo assistente Daniel con la sua donna, Marina? E se negli ambienti ormai gelidi restano da ardere solo i libri che hanno sempre rappresentato motivo di vita per il professore? «Per chi insegna, battersi significa continuare a far lezione. E per gli studenti vuol dire continuare a interessarsi, anche con le bombe, alla collocazione dell’avverbio nelle subordinate dei poeti romantici» (pag. 22).

Il dramma di Amélie Nothomb, diviso in più atti, parte da questa ambientazione insolita e minimalista per creare dialoghi dai contenuti metaletterari: non mancano diatribe e veri e propri litigi per decidere se e quali volumi sacrificare e ardere («se ci mettessimo a bruciare i libri, allora davvero avremmo perso la guerra»).
Marina si fa inizialmente sostenitrice di una visione materialista e disincantata del reale: nessun libro vale un'ora di caldo («Se la letteratura è abbastanza cinica da non accorgersi che sto soffrendo le pene dell’inferno, non vedo perché io la dovrei rispettare»). Pertanto si scontra con l'inflessibile professore, legato a ogni singolo volume della sua biblioteca, comprese le opere che aveva aspramente criticato nella sua carriera professionale: «Questo libro è eterno. Se bruciasse, la fiamma durerebbe due minuti» (pag.49). Daniel molto spesso è tramite tra le due posizioni, mediando talvolta, altre volte offrendo nuovi argomenti di discussione.
Tutto questo, perlomeno, finché tra Marina e il professore si consuma un amplesso violento e squallido, perché dominato dall’opportunismo. Infatti, Marina, in un primo tempo riluttante e disgustata, si offre con aggressiva determinazione davanti alla prospettiva di essere così scaldata dal corpo del professore.

Si dimostra così come la guerra porti a un progressivo abbrutimento: dalla caduta della cultura (i libri vengono lentamente bruciati uno a uno), alla disgregazione dell’universo valoriale.
È lo stesso professore a cambiare la propria visione del mondo, come se l’esperienza con Marina avesse simbolicamente trasferito in lui il freddo della barbarie. Non risparmia nessuno dei suoi libri, davanti agli occhi attoniti di Daniel e Marina, loro malgrado ancora illusi.
Il dramma si chiude con una battuta di grande pessimismo del professore, accompagnata da una risata che lascia attoniti e assicura un impatto forte su un pubblico che si lascia trasportare da tutto il minimalismo da distopia che disgrega ogni possibile risoluzione positiva.


Si ricorda che il libro è accompagnato da un’appendice con la riproduzione anastatica del I Atto della prima edizione. Interessante anche la galleria fotografica di “anti-ritratti” dedicati alla Nothomb da Giliola Chisté.

Anathea

A Caccia di Demoni



I Pellegrini delle Tenebre
di Serge Brussolo


Traduzione di C.Salina
Casa editrice: TEA Due


Pagine: 306
Prezzo: € 8,40


Siamo nella Francia del medioevo, in un piccolo paese ai piedi di un'alta e tortuosa catena montuosa che ospita sulla sua vetta il santuario di San Gaudèmon meta di pellegrinaggio per coloro che hanno perso l'uso degli arti e intendono chiedere un miracolo al santo. Questi pellegrinaggi sono molto faticosi e in paese si mormora che i pellegrini impazziscano durante il difficoltoso tragitto oppure che i demoni si divertano a mutilare i loro corpi e infine divorarli, infatti spesso interi gruppi di pellegrini non fanno più ritorno alle loro case alimentando ulteriormente le dicerie di paese e le fantasticherie dei popolani più fantasiosi.
Una notte come tante altre, un monaco che si era recato in pellegrinaggio arriva di corsa al monastero del paesino in preda al panico più totale chiedendo ai suoi confratelli di essere rinchiuso in una cella poiché “il male è in lui”, poco dopo il monaco inizia a bestemmiare e commettere le più atroci oscenità profane che una mente umana possa immaginare arrivando infine a tagliarsi la lingua per non rivelare all'inquisizione ciò che aveva visto e che poteva mettere nei guai i suoi confratelli devoti a San Gaudèmon.
I monaci affidano il compito di intrufolarsi in un gruppo di pellegrini diretto al santuario del Santo a Marion, la perspicace e intelligente figlia di uno scultore, convinti che una donna possa attirare meglio le entità demoniache.
Marion trova nella sua missione una scusa per fuggire da un matrimonio combinato che non le va a genio e per cercare la sorella maggiore scomparsa proprio in occasione di uno di quei maledetti pellegrinaggi.
I Pellegrini delle Tenebre è un ottimo e intrigante giallo storico, dai colpi di scena mozzafiato e un realismo senza eguali.
Le vicende sono narrate dal punto di vista della giovane Marion e marcano notevolmente le emozioni e i sentimenti della ragazza senza escluderne nessuno, che sia esso paura o voglia di sesso, e i personaggi sono tutti saggiamente caratterizzati sia nella psiche che nell'aspetto fisico.
Non è da trascurare la componente fantastica/fantasiosa del romanzo che comunque può essere tranquillamente annoverata tra le credenze e le superstizioni del tempo, ma, soprattutto nella parte introduttiva del romanzo, lascia spazio all'immaginazione del lettore e a volte è anche capace di suggestionarlo con la descrizione di scene piuttosto cruente. Di sicuro non è un romanzo per i più impressionabili considerando i contenuti piuttosto espliciti e adulti.
La narrazione è scorrevole e il lettore non incontrerà nessun ostacolo o punto morto durante la lettura, è un libro capace di tenere incollati alla pagina per ore.
Caldamente consigliato agli appassionati del giallo/horror anche per l'effetto del finale totalmente inatteso.

I racconti della balaustra


I racconti della balaustra
di Marco Bernini
Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2007
- seconda ristampa -

Pagg. 153
€ 10.00


Si inizia con un sorriso e si prosegue con un divertimento salace e spontaneo, punteggiato di intelligenza e di autoironia. Così potrei brevemente descrivere quest’opera prima di Marco Bernini, giovane livornese che davanti ai miei occhi ha cancellato dal biglietto da visita la qualifica di ‘ingegnere’ per sostituirla con un ‘aspirante scrittore’. E direi che può già considerarsi sulla buona strada: questo suo libro, rivolto per lo più a un pubblico giovane (meglio se cresciuto negli anni ’90) è una lettura davvero godibile.

Tanti sono gli episodi trattati, tutti accomunati dalle variabili dell’amore e dell’amicizia, come in ogni romanzo di formazione che si rispetti: si passa dai primi turbamenti amorosi e fisici alle rinunce per gli amici, ma non mancano le goliardate adolescenziali, gli allontanamenti e i ritorni… I continui flashback, filtrati dallo sguardo ironico e qualche volta amarognolo di un io-narrante ormai adulto, non fanno che ammiccare al lettore, che diventa, pagina dopo pagina, parte del gruppo d’amici, e non solo spettatore.

Così capita – e capita spesso, vi assicuro – di immedesimarsi nel protagonista Marco, per certi versi tanto simile allo scrittore (ma si ricordi di distinguere sempre tra scrittore-narratore-personaggio!), e per altri identico a qualunque giovane si trovi ad affrontare queste necessarie tappe di crescita. Innanzitutto, l’accettazione di sé e dei propri difetti è premessa alla comprensione dei propri desideri. E poi la scoperta delirante del sesso e la conseguente ricerca quasi spasmodica di una donna portano spesso le pagine a travestirsi di confessione scherzosa, fatta a posteriori, sulla scia di quelle canzoni che tutti quanti abbiamo ascoltato almeno una volta (per facilitarci la scelta, Marco Bernini suggerisce come sottotitolo di ogni capitoletto la traccia musicale che accompagna i suoi ricordi).

Una vera e propria risorsa per questa ironia contagiosa sono tutte le descrizioni fisiche, così spesso puntellate su elementi caricaturali che non stonano mai con il contesto, ma creano personaggi veramente non banali, nonché pittoreschi (a volte oserei dire, ma sottovoce, “picareschi”). A questo si aggiunge uno stile estremamente vivace e agile, nonché curato: più che scorrevole, lo assocerei a una piacevole chiacchierata. C’è lo slang tipico dell’adolescenza negli anni ’90, con espressioni un po’ scurrili, ma così quotidiane ormai da essere più che verosimili, direi addirittura irrinunciabili. Troviamo anche qualche simpatica nuova coniazione che facilmente potrebbe entrare nel nostro quotidiano, come ad esempio Marco e gli amici chiamano con disprezzo “stenterelli” quei ragazzi di per sé amorfi, con grandi occhiali da studiosi e vestiti firmati, che riescono a sedurre le ragazze più belle della città. Si sommano inoltre espressioni dialettali livornesi, sempre facilmente comprensibili, proprio come auspica lo scrittore in una sua scherzosa premessa.

Ma quel che sconvolge, lo devo ammettere, è scoprire, d’un tratto, che Marco-personaggio è cresciuto: la conclusione, che qui non vi anticipo, è quanto di più tradizionale ricordi il romanzo di formazione. Non si pensi a bilanci da adulti, inghirlandati da pensieri retrò, tutt’altro. Piuttosto, è con la solita vena di ironia e di complicità che si scopre un Marco adulto, adulto in nome di queste risate che ci hanno accompagnati per tutte le 153 pagine. E lo si lascia come si saluta un amico, augurandosi reciprocamente un “a presto”, complice.

Anathea [Gloria Ghioni]

E restate con noi: prestissimo pubblicheremo l'intervista a Marco Bernini!!!
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Twilight, ovvero: Come costruire un Bestseller

L'ultimo (ma forse no) capitolo della saga, Breaking Dawn, ha venduto ben 1,3 milioni di copie in sole 24 ore. Questa cifra a sei zeri può darvi un'idea del successo della serie di libri pubblicata dalla scrittrice americana Stephenie Meyer tra il 2005 e il 2008. Incuriosita dagli entusiasmi della critica internazionale, ho acquistato anch'io una copia del primo romanzo della serie omonima, Twilight, dal quale si è tratto un film disponibile nelle sale dal prossimo dicembre 2008.

Il perché di un successo planetario. La storia d’amore tra (Isa)Bella Swan e l’affascinante vampiro Edward Cullen, senza troppe ambizioni letterarie, ha creato una miscela esplosiva che ha coinvolto milioni di teenagers. Gli ingredienti sono semplici, semplicissimi:

- Una giovane liceale senza alcuna caratterizzazione psicologica. Una scelta necessaria: il fatto che Bella Swan sia un personaggio assolutamente piatto permette a qualsiasi lettrice di identificarsi con lei. La protagonista femminile di Twilight – che, tra l’altro, è la voce narrante – prova solo emozioni rarefatte, funzionali allo svolgimento della (esilissima) trama. Il massimo pathos emotivo raggiunto da Bella Swan si riduce a un elenco di: cuori che smettono di battere, svenimenti, contemplazioni estatiche.
- L’uomo (pardon, il vampiro) perfetto. “Bello come un dio” (citazione letterale) e dannato come un vampiro, gentile, premuroso, la sua voce è “una cucchiaiata di miele” (altra citazione letterale). “Una statua perfetta, sbozzata in una pietra sconosciuta, liscia come il marmo, lucente come il cristallo”. Eccovi un ritratto dello splendido, superlativo Edward Cullen: vampiro “buono”, che si ciba di sangue animale, e che alla luce del sole non muore tra atroci sofferenze… ma brilla come un omino di Swarovski.
- L’amore. Twilight materializza su carta – e tra poco negli schermi cinematografici – i sogni reconditi di qualsiasi adolescente di sesso femminile: un Lui pressoché perfetto (Stephenie Meyer direbbe “divino”) che si innamora di una Lei non tanto divina, goffa all’inverosimile, pronta a gettarsi tra le sue braccia “incondizionatamente”.

Ecco spiegato l’arcano. Twilight è un libro privo di spessore, ma vincente come lo è stata tanta (mi si conceda il termine) letteratura popolare dall’invenzione della scrittura ad oggi. Oserei dire: così come ci si riuniva nelle piazze per ascoltare la storia di Lancillotto e Ginevra dal cantastorie di turno, facendo di quelle storie materia per i propri sogni, così adesso Stephenie Meyer offre a milioni di persone l’occasione di fantasticare sulla perfezione di un personaggio sovrannaturale.
In sostanza, dunque, il successo di Twilight non è il successo di Stephenie Meyer in quanto scrittrice, ma in quanto psicologa. Ciò che l’autrice di questo romanzo ha fatto è stato, semplicemente, dar corpo al desiderio di un uomo perfetto, sopito in ogni ragazzina, e condire il tutto con una trama banale per giustificarne la venerazione. La dimostrazione di questa tesi si ottiene facilmente facendo un breve censimento delle metafore, delle aggettivazioni presenti nel romanzo: la sfera semantica della bellezza e della perfezione invade ogni pagina, reclamando l’attenzione assoluta del lettore. Del romanzo, finita la lettura, non resta altro ricordo che questa atmosfera ovattata, zuccherina, fin troppo stucchevole.

Amare un libro vuol dire tante cose. Così come non esiste un unico tipo di affetto, esistono vari livelli di approccio a un testo. Ci sono libri da amare per un modo speciale di raccontare storie, perché ci regalano uno spaccato di mondo, per uno stile inconfondibile che non potrà mai essere eguagliato, per la definizione di caratteri indimenticabili. La maggior parte dei lettori che sostengono di amare Twilight, in realtà, non amano il romanzo in sé, il suo stile, il messaggio che intende comunicare. Amano Edward Cullen. Se il fascino di questo personaggio, costruito a puntino dall’autrice, smettesse per un attimo di accecare – se, cioè, lo spirito critico dei lettori si facesse un po’ più acuto, se si provasse a scavare sotto la crosta del “bello, bellissimo, meraviglioso, stupefacente,” – cosa resterebbe?

“Hai detto che mi amavi.”
“Lo sapevi già” dissi, chinando la testa.
"Però è stato bello sentirlo.” Affondai la faccia nella sua spalla.
“Ti amo”, sussurrai.
“Tu sei la mia vita adesso.”

Le mie conclusioni. Non è giusto condannare un libro e i suoi lettori. Viviamo in una democrazia, e fortunatamente è passato molto tempo dall’epoca in cui un libro di contenuto opinabile (o sospetto tale) veniva messo all’indice e dato alle fiamme. Tuttavia, è bene sottolineare che libertà di leggere vuol dire anche e soprattutto libertà di pensare e di scegliere. Libertà di crescere, insomma.
Crescere vuol dire rendere più ricca la propria capacità critica. Scalare i livelli di approccio al libro fino al più alto, fino a sentirsi veramente “padroni del libro”, non “schiavi del libro”. Amare un romanzo non solo perché il protagonista “è perfetto” o “troppo figo”, ma perché quel romanzo vuole dire qualcosa di fondamentale sul nostro essere nel mondo. Non dico che bisogna dimenticare i personaggi: semplicemente, questi personaggi vanno amati perché profondamente uomini, e non, come accade in Twilight e a tutte le twilighters, perché al di sopra degli uomini.

Laura Ingallinella

Tra spiriti e cadaveri



Delitto a Villa Rose

di A.E.W. Mason
edizioni Newton

Pagine: 159
Prezzo: € 2,50


Delitto a Villa Rose è il primo romanzo poliziesco scritto dal famoso Alfred Edward Woodley Mason, e in seguito inserito da John Dickinson Carr tra i migliori dieci romanzi polizieschi mai scritti.
Ci troviamo in Francia ad Aix-les-Bains, e a villa Rose la padrona di casa, Madame Dauvray, viene trovata brutalmente strangolata nel salone della villa.
La vedova Dauvray è ricca ed eccentrica nonché appassionata di spiritismo; con lei vivono una giovane e affascinante ragazza, Cinzia, e la cameriera di mezza età, donna molto sobria e ligia.
Per far luce sul delitto e risolverlo velocemente viene richiesto l'aiuto del famoso ispettore Hanaud della Suréte di Parigi, il quale si trova lì per puro caso dato che è appena ad Aix in villeggiatura.
Il caso si dimostra più difficile del previsto, e un secondo assassinio evidenzia la necessità di agire in fretta ed efficacemente.
Inoltre sembra che lo scopo del delitto sia quello di rubare la collezione di gioielli di Madame Dauvray, ma sorprendentemente essi vengono ritrovati ancora al loro posto nella camera da letto della vedova. Tra l’altro, Cinzia è scomparsa e molte delle prove ritrovate all'interno della villa vanno a suo sfavore.
Compito di Hanaud è quello di far luce sui delitti e consegnare alla giustizia il colpevole; ma non è così semplice, il sagace e scontroso ispettore dovrà districarsi tra falsi indizi, testimonianze poco attendibili e scambi di persona: chi sarà mai l'assassino?
Il metodo narrativo di Mason è straordinariamente coinvolgente; il lettore vive gli avvenimenti attraverso gli occhi di Mr. Ricardo, amico di Hanaud e raffinato gentiluomo di mezza età nonché appassionato di mistero.
La coppia è un ottimo binomio. Mr. Ricardo spesso si improvvisa acuto investigatore vantandosi delle proprie deduzioni, che immancabilmente Hanaud smonta senza farsi scappare nessuna occasione per fare pungente sarcasmo sull'ingenuità dell'amico, che dal canto suo si limita ad imbronciarsi fino alla prossima deduzione scorretta. Questo espediente consente di sdrammatizzare su alcuni eventi, e a volte l'ironia di Hanaud è capace di provocare nel lettore non poche risate. Come se non bastasse, Hanaud non svela mai le proprie deduzioni sul caso a Mr. Ricardo, e di conseguenza nemmeno al lettore, lasciando l'uomo con l'amaro in bocca e il lettore con un'infinità di dubbi.
Entrambi i personaggi sono stati creati da Mason proprio in questo romanzo, e il risultato è davvero notevole. Il personaggio di Hanaud ha una vivissima umanità evidenziata ancor di più dal sopraccitato umorismo, e in Mr. Ricardo la sovrana distinzione dandystica si unisce ad un'amabilità non meno sottolineata.
Tuttavia il romanzo non è privo di difetti, infatti la tensione narrativa diventa pressoché nulla raggiunta la metà del romanzo poiché al lettore vengono presentati gli elementi sufficienti per capire chi è l'assassino. La seconda metà della narrazione è quindi dedicata alla pura spiegazione dello svolgimento del delitto e altre delucidazioni secondarie.
In definitiva, si tratta uno dei migliori gialli che mi sia capitato tra le mani, il cui più grande pregio è la facilità con cui si legge grazie anche alle piacevoli battute di Hanaud.