La Corti traghettatrice di anime


L'ora di tutti
di Maria Corti
Milano, Bompiani, 1962
con un saggio di Oreste Macrì


Un romanzo su Otranto. No, non è solo un romanzo e non è solo su Otranto; piuttosto, dal romanzo e da Otranto la scrittrice prende le mosse per creare un vero e proprio viaggio. Innanzitutto, nella storia, visto che il libro è incentrato sulla presa turca di Otranto negli ultimi anni del Quattrocento. Inoltre, è viaggio nella memoria e nella coscienza dei personaggi, che si fanno via via io-narrante e testimoni del massacro di otrantini. Il libro si compone infatti di più parti, ognuna lasciata alla loquela di personaggi otrantini o delle milizie spagnole a Otranto. Il rischio di una simile scelta è certo la ripetitività, ma per non incorrere in questo, la Corti ha lasciato a ogni personaggio una diversa fase della storia da raccontare, e ha saputo far sì che le diverse parti si unissero tra flashback e scene in presa diretta, in una maglia ben solida.

Tutti i personaggi hanno in comune l'amore per la cittadina di Otranto, un amore tanto forte da portare tutti alla morte (da qui il suggestivo titolo): ogni personaggio lascia fluire le proprie memorie fino all'ora estrema. Di tutti, appunto, perché l'elemento di universalità naturale è fortissimo nella Corti, senza mai cascare in facili buonismi.

Purtroppo, definirei questo classico contemporaneo un'opera troppo dimenticata. Già, alla sua pubblicazione nel 1962 dobbiamo pensare che il libro è passato in parte in secondo piano a causa delle grandissime pubblicazioni dell'anno successivo (si pensi, tanto per citarne alcune, che La cognizione del dolore di Gadda e Libera nos a malo di Meneghello sono del '63). Un vero peccato, perché quest'opera della Corti merita una lettura attenta, specie nella parte delicatissima dedicata alla figura di Idrusa, dove le descrizioni e i sentimenti si sposano in una totale e assoluta armonia letteraria.

Anathea

La donna di Sibilla Aleramo


"Una donna"
di Sibilla Aleramo
Feltrinelli Economica, 2003 (43^)


Quando mi sono accostata alla lettura di quest'opera, considerata pietra miliare del femminismo in Italia, ho subito respirato con la stessa fatica che si prova a infilare la testa in una vetrinetta di mobile antico. Pesante, qualcosa di faticoso costellava le pagine di una patina ottocentesca che non se ne sarebbe andata per nessuna ragione. Sia chiaro, non sono affatto contraria alla bella prosa letteraria, anche se retrò, purchè sia funzionale al contesto e al contenuto.

Qui, oltretutto, la trama ha avuto il potere di innervosirmi moltissimo: pietra miliare del femminismo? Vogliamo chiamare in questo modo i tentativi timorosi di una donna succube prima del padre e poi del marito di emanciparsi quel poco, ritagliandosi un minuscolo spazio per sè?

Addirittura, ho letto che è stato segnalato il grande coraggio di questa donna. A parer mio, anche la critica dovrebbe prestare attenzione alla definizione di coraggio prima di appenderla con un paio di spilloni alle spalle gracili di questa protagonista. Si pensi che tenta il suicidio e, non contenta di essersi salvata, continua a vessare il povero figlioletto di terrificanti idee d'abbandono e di allontanamento.

Preferisco fermarmi qui e attendere i pareri di qualche altro lettore dell'Aleramo. Se potete illuminare qualche passaggio degno di nota, vi prego, fatelo, perché presto a me scivoleranno addosso intere sequenze.

Anathea

La solitudine di Babele


Hédi Bouraoui,
Così parla la Torre CN, Wip edizioni, pp. 293 15€

-Pete Deloon, come lo chiamano nella città regina. accetta pure di addossarsi lo stereotipo di “fannullone”, di “furfantello”, di “ubriacone e di drogato” perpetuo. [...] Tuttavia, intimamente sa che “le genti della sua razza” sono la pietra angolare della storia scritta in tutti i libri e di quel territorio illimitato abbandonato agli Inglesi. Ma i Re, le Regine e i loro discendenti hanno dimenticato tutto. Lui ha la memoria lunga come un giorno senza birra. E muore dalla voglia di correggere per un momento la cicatrice dell'umiliazione che troneggia sulla saggezza del suo viso.- Questo il passo chiave dell'ultima opera di Hédi Bouraoui, “Così parla la Torre CN” edito da Wip edizioni. Il testo si presenta dal titolo come una parafrasi al presente di F.W. Nietzche (cfr. Così parlò Zarathustra) e in parte vuole riprenderne l'aspetto sentenzioso e polemico dando la parola ad un qualcosa, la Torre CN, che è fisicamente (e per assimilazione anche moralmente) super partes e come ammetterà essa stessa rimane alla superficie delle cose, “come quel sole d'acciaio dopo una tempesta di neve”. Infatti il lettore sarà subito irritato dall'artificio del narratore interno alla vicenda che costituisce un ostacolo all'immedesimazione nei personaggi con il suo tono distaccato e il suo punto di vista piuttosto lontano. Sembrerebbe quasi di sentire la voce dell'autore stesso che si nasconde dietro la figura imponente della Torre CN prestandogli la sua voce e il suo pensiero e pretendendo in cambio che gli si riconosciuta oggettività e attendibilità. Con questo meccanismo collaudato a metà tra prosa filosofica, dialoghi e narrativa spicciola Bouraoui corre spesso in realtà il rischio di apparire patetico agli occhi di un lettore disincantato che leggendone la trama, chiaramente frutto d'immaginazione e pressoché irreale, la assimilerà ad uno dei tanti romanzetti rosa in circolo nelle librerie. La ricorrenza poi delle note e le frequenti virgolette atte a segnalare i punti critici del testo mortificano il lettore privandolo di una propria interpretazione della parola scritta portandolo quasi a scaraventare il volume sul pavimento. E' solo ora, però, che riprendendolo in mano si cercherà di andare oltre il testo. La Torre CN non è altro che un mix della Turris eburnea espressione di solitudine e della Torre di Babele emblema del collettivo. In quanto Torre di informazione la stessa Torre si scopre attraversata da 286 lingue diverse, ognuna però isolata e rinchiusa in un'orribile solitudine come gli stessi personaggi del libro. La Torre CN è la reductio ad unicum della coralità del Canada, sentenziando così che non c'è peggior solitudine di quella del singolo perso nella folla. I caratteri frustrati del “prosema” (testo a metà tra prosa e poema) si stagliano chiari nell'ombra scura della solitudine e proprio come in un Bildungsroman ottocentesco si avviano verso il loro percorso di formazione, il più delle delle volte non riuscendo a completarlo. Anzi il compito del lettore diventa quello di scrivere metaforicamente l'ultimo dei 24 capitoli per raggiungere (o forse non si raggiungerà mai) una propria formazione, vale a dire il futuro è nelle nostre mani. Rispettando le tre unità aristoteliche Bouraoui, come ogni uomo, si sente libero solo con le sue catene al polso non rispettando una narrazione uniforme ed omogenea, togliendosi quindi un'altra catena dalla gola per compensare. E l'unità di tempo ritorna utile come espediente narrativo per evidenziare la centralità della Torre CN che girando su se stessa alla stessa velocità angolare del mondo (360° in 24 ore) è l'unica ben inserita nel contesto umano canadese perché si muove in sintonia con ciò che la circonda. Nonostante uno stile nuovo che parzialmente non collima nella sua forma con l'essenza dei contenuti (sarà per l'abitudine a leggere questi temi in altri contesti letterari?) ad Hédi Bouraoui va riconosciuto il merito di aver saputo creare una composizione corale diretta dalla Torre CN, non sempre ben amalgamata e uniforme, specchio del mosaico etnico canadese.

I barbari


I barbari
di Alessandro Baricco


Di saggio non si tratta, occorre premurarsi subito di avvisare i lettori, come Baricco specifica in prima pagina, con una breve premessa in cui accenna al lavoro editoriale che ha preceduto la pubblicazione. Con "I barbari" siamo davanti a una raccolta di brani argomentativi apparsi sulla Repubblica da maggio a ottobre 2006, con l'obiettivo di focalizzare l'attenzione sulle mutazioni in corso, in più ambiti. Diciamo che vari campi d'indagine - passiamo dal gusto per i vini, al calcio, a Google, ai libri, o ancora alla musica, ... - sono una brillante esemplificazione dei cambiamenti in atto, cambiamenti che Baricco sottolinea essere sempre esistiti, e probabilmente sempre vissuti con un turbamento simile a quello che troviamo negli intellettuali di oggi.

Non occorre costruire un muro davanti ai cambiamenti della civiltà, ma, d'altro lato, è errato lasciare il campo libero a una sconsiderata mutazione: "enorme sarebbe il compito storico di una politica culturale se solo coloro che la pensano capissero che non il salvataggio furbesco del passato, ma, sempre, la realizzazione nobile del presente è quanto si deve fare per assicurare alle intelligenze una minima protezione dall'azzardo del mercato puro e semplice" (pag. 162). O ancora: "Quel che diventeremo continua a esser figlio di ciò che vorremo diventare. Così diventa importante la cura quotidiana, l'attenzione, il vigilare" (pag. 179).

L'analisi, a tratti impietosa e dura, è comunque impreziosita e, se mi concedete il termine un po' banalizzante, alleggerita dallo stile di Baricco che, come sempre, è anzitutto narratore. E si vede con quale facilità agganci il lettore, anche quando le pagine ospitano qualche rocambolesco sperimentalismo, come nel caso dell'incipit: ben oltre venti pagine sono occupate dalla scelta ragionata delle epigrafi, ma vi assicuro che sarebbe un delitto che non ci fossero! Anche se non fondamentali, sono un passo di grande interesse per lasciarsi trasportare nel clima dell'intera opera.

Al termine, troviamo note a cura di S. Beltrame e C. Bizzarri, volte a indirizzare e appoggiare il lettore nella spiegazione di personaggi di nicchia o, comunque, meno noti al grande pubblico. Note riassuntive, non c'è dubbio, ma altrettanto efficaci per dare delucidazioni sul contesto.
Segue una sezione intitolata "Date", in cui troviamo registrati i principali eventi storici, culturali e sociali che sono avvenuti durante la scrittura de "I barbari", influenzando sicuramente la stesura delle singole parti di saggio.
Saggio ibrido, forse, un po' variegato per l'assenza di quel labor limae che lo stesso Baricco ammette, all'inizio del libro. Nonostante qui e là si senta la mancanza, per l'appunto, di una struttura globale e di una revisione, "I barbari" resta una lettura assolutamente da non perdere, per aprire quei paraocchi che spesso scostiamo, con fatica e dolore, mentre qui si aprono nuove prospettive, problematiche ma ugualmente speranzose.