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"Ce la faccio da sola" di Kelly Brogan : ovvero come usare la testa e vivere felici

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Ce la faccio da sola. Curare la depressione senza farmaci
A Mind of Your Own
di Kelly Brogan
Sonzogno, 2017

Traduzione di Paolo Perucci


pp. 381

€ 17,50




Questa è una recensione monca. Scrivo così, perché mi pare di combattere ad armi impari. Non ho una laurea in medicina, né ho una specializzazione in farmacia, chimica e derivati. Ho una cultura umanistica e mi trovo, per così dire, in imbarazzo nell’affrontare un testo che ha costruito la sua fortuna su una promessa che pare occhieggiarci sorniona già dalla copertina: Curare la depressione senza farmaci. La mia cultura umanistica mi impedisce di scendere in profondità, di dialogare con il testo come avrei fatto se si fosse trattato di materiale letterario. Il mio approccio è dunque quello di un lettore qualsiasi, un lettore mediamente critico che si avvicina al volume mosso da una discreta curiosità. Incarno il lettore medio, mediamente istruito, mediamente dotato di capacità critica rispetto alle informazioni che riceve quotidianamente.
Confesso che a fine lettura sono rimasta piuttosto basita. Credevo di aver a che fare con un volume che proponesse un’alternativa alla normale psicoterapia. Un volume capace di svelare a tutte le donne (già dal titolo gli uomini paiono esclusi, e su questa stigmatizzazione vagamente sessista chiudiamo la parentesi) come affrontare i meandri del male oscuro senza ricorrere a Prozac, Valium e compagnia. Credevo di avere a che fare con un testo che proponesse nuovi studi legati alle terapie comportamentali, oppure che so, un’inedita lettura di Lacan, una rivisitazione di Freud in salsa piccante con annessa applicazione di certe teorie psicoanalitiche. Quel Ce la faccio da sola pareva annullare la presenza del terapista, come a suggerire: sfoglia il volume, avrai la chiave della tua guarigione. Dai manuali pro-benessere che intasano le librerie americane – e ormai anche le nostre – questo ci si aspetta. Eppure no.

Sulla capacità degli americani di promuovere un libro dalla copertina ci sarebbe molto da dire ma non è questa la sede più opportuna. Resta il fatto che il libro della Brogan propone l’ennesimo titolo farsa: della depressione, per intenderci, non v’è traccia. O meglio. Si parla di depressione girandovi attorno, adoperando la tecnica della lettura trasversale. Sono citati dei casi – brevi casi, dimenticatevi L’uomo dei topi e Anna O. – di pazienti affette da disturbi più o meno gravi che vanno dalla sindrome premestruale al disturbo bipolare. Forse è il caso di premettere che negli Stati Uniti, per le brevi intemperanze da sindrome pre-ciclo, i medici prescrivono il Prozac. Anche per i bambini in età scolare, vittime di una società cattiva e iper veloce, i tranquillanti sembrano fare compagnia agli spuntini di metà mattina. Quindi certo: la Brogan – sguardo sicuro da giovinetta in carriera – ha ragione. I farmaci fanno male, è bene non abusarne.

I farmaci certo. E quale sarebbe, secondo la giovane dottoressa, la soluzione per guarire dalla depressione? Il segreto sta tutto nel libro, frutto, ci assicura, di accurate ricerche documentate da studi di settore e da pratica sul campo. La chiave è riassumibile in una sola frase. Se per trenta giorni mangiate bene, dormite bene, fate meditazione e una corretta attività sportiva, se saprete liberarvi da tutti gli additivi chimici che vi intasano il corpo, vi perturbano l’organismo, vi sballano la tiroide e vi disordinano l’intestino, state certi che non saprete più che cosa significa soffrire. Brogan in 334 pagine ci sbrodola la chiave del successo, il pertugio che conduce alla felicità. Già, la felicità, perché è da questo che gli americani paiono ossessionati. Dall’idea di vivere una vita appieno, al massimo, dalla possibilità di godere di ogni nanosecondo come se il resto, come se la prospettiva cogitabonda di un vuoto che esiste e che ci abita, un das-ding con cui abbiamo tutti tristemente a che fare e che, pur tuttavia, costituisce il nostro essere, sia da rigettare come bieca, falsa, da perdenti.

I farmaci? Non servono a niente. Anzi, sono dannosi e a lungo andare conducono all’effetto opposto. Non siete depresse per fattori profondi, complessi, dovuti a squilibri emotivi, psicofisici, sociali e via dicendo. Siete depressi perché prendete farmaci e mangiate troppi biscotti. La depressione ve la causano i farmaci, il fluoro che sta nell’acqua del vostro lavandino (non in Italia, per fortuna) nei pesticidi che trovate sulle patate e nei parabeni dei vostri saponi intimi. Il veleno è nel glutine, nel paracetamolo e nello yogurt che vi ingurgitate la mattina. Detto altrimenti: certi alimenti sono dannosi, vi portano a squilibri fisici che a lungo andare influiscono anche sulla vostra testa.

Intendiamoci. Nessuno qui sta prendendo le difese del glifosato o dei coloranti artificiali. Nessuno pensa che la chiave della felicità sia contenuta in qualche benzodiazepina utile per prendere sonno la sera. Nessuno è fanatico della tachipirina al punto da consigliare di consumarne più di una scatola a settimana. A quanto pare gli americani amano usare paracetamolo in grandi quantità, farmaci in grandi quantità, cheeseburger in grandi quantità. E certamente uno stile di vita scorretto inficia sulla salute della testa. La Brogan suggerisce pratiche interessanti: evidenzia i danni dei perturbatori endocrini e punta il dito contro il policarbonato presente nelle bottigliette di plastica e nei bicchierini del caffè. Promuove l’importanza del riposo, del movimento, della meditazione. E fin qui tutto bene. Ma, spiace deludere, non ha scoperto l’acqua calda.

Credo che ogni depresso presente su questa terra si sia sentito ripetere almeno una volta da amici, parenti, genitori che: è importante mangiare correttamente, dormire bene, fare meditazione, correre all’aria aperta, spegnere il computer e provare a camminare, bere acqua fresca piuttosto che bibite al colorante. Credo che ogni depresso abbia tentato, almeno una volta, l’alternativa alla schiavitù da farmaco. Non considerare questa ipotesi è, a mio avviso, un modo violento per sottovalutare e screditare il vasto numero di pazienti affetti da patologie psichiatriche presenti su questa terra.

Il libro della Brogan si presenta come un testo scientifico documentato, frutto di anni di studio e di lavoro. Peccato che nel cercare qualche informazione in più sull’autrice sia più semplice inciampare sul suo profilo Twitter o Facebook piuttosto che su qualche – seria – produzione scientifica. La Brogan propone una teoria sostitutiva ai farmaci, avverte tutti, basandosi sull’autorevole rivista Lancet, che «buona parte della letteratura scientifica, forse la metà, può essere semplicemente considerata inesatta», continua asserendo che «tutto l’approccio farmacologico è basato su informazioni distorte», che la «depressione non è una malattia» e che i vaccini sono pericolosi, al punto da portare a depressione e ad altre forme psichiatriche. La dottoressa, ergendosi a esempio, avverte che non ha «alcuna intenzione di tornare a uno stile di vita che preveda l’uso di farmaci di alcun tipo, in nessun caso». Dunque, stando alle sue parole, non si curerà con nessun farmaco in caso di tumore, epatite, polmonite, infezioni, AIDS e via dicendo. Perché è chiaro, secondo la Brogan sono i farmaci che «fanno ammalare» sono i «trattamenti ospedalieri che (ci) fanno ammalare». Questi ultimi «provocano decine se non centinaia di morti ogni anno» ma poi le cifre scarseggiano, i dati sono vaghi, le note rimandano spesso al suo blog e non a una serie di teorie e contro-teorie, come ci si aspetterebbe da uno studio – per quanto divulgativo – di questo tipo.

I consigli di guarigione si trovano nella seconda parte del libro dove la Brogan dà il meglio di sé precisando che certi alimenti sono cattivi, altri ottimi e dunque bisogna avere il coraggio di cambiare le proprie abitudini per poter stare meglio. Fregandosene di quanto afferma l’OMS la nostra dottoressa promuove l’uso di carni rosse (da tre a cinque volte alla settimana). Dunque sì a macinato di manzo e bistecca alla griglia (sembra ignorare, la nostra amica, il concetto di cancerogenicità dato dalla formazione delle amine eterocicliche (HCAs) e dagli idrocarboni policiclici aromatici (PAHs) che si sviluppano proprio a causa di questo tipo di cottura), si a polpettone, al ragù, al bacon (in barba ai nitriti e ai nitrati) al prosciutto cotto (anche il migliore al mondo, quello, per intenderci, senza polifosfati, non può prescindere da almeno un conservante, sia esso nitrito di sodio o potassio). Sì alla carne dunque, ma no alla farina, guai a ingoiare anche solo un po’ di glutine, no alla pasta, ai biscotti biologici, ma avanti tutta con la frutta esotica (la dottoressa pare ovviare ai problemi di certi prodotti che crescono in luoghi dove le regole riguardo ai pesticidi sono molto meno severe rispetto alle nostre). Sì all’ananas della Costa Rica ma guai a mangiare troppe mele. Se proprio dovete consumatene qualcuna ma scordatevi l’antico detto: una mela al giorno...

Della depressione, dicevo, questo libro non tratta. Analizza qualche caso che pare poi essere stato risolto brillantemente grazie all’applicazione dei saggi consigli dell’autrice. La ragazza pare sicura di sé, forse troppo sicura ed è questo che ci ha spiazzato. Il lettore crede di avere a che fare con un testo (semi) scientifico che, tuttavia, di scientifico non ha quasi nulla. Soprattutto negli intenti. Se la scienza si prefigura come soggetta a continui mutamenti, a controversie più o meno risolvibili, se la scienza è, per sua stessa definizione, volubile proprio perché terrena, lontana, dunque, dai dogmi assolutistici della fede che mai nutre dubbi, che mai si interroga (pena la messa in discussione della propria esistenza) la Brogan pare assolutizzare le proprie ricerche dandole per vincenti. Lei stessa si fa promotrice di questo sistema curativo/esistenziale, lei stessa che vanta esperienze sul campo, senza, ancora una volta, argomentare a sufficienza. Non basta un volume di trecento pagine con una grafica accattivante, non basta l’esiguo (per non dire ridicolo) corpus di note se nemmeno è presente, in calce al testo, una bibliografia che documenti studi trasversali, favorevoli o contrari alle teorie della nostra dottoressa. E, come se non bastasse, prima di iniziare il volume, troviamo una frasetta che pare riassumere da sola il senso di tutta la nostra ironica perplessità: 
«editore e autore declinano ogni responsabilità per qualsiasi inconveniente medico che dovesse verificarsi come conseguenza dell'applicazione delle metodiche suggerite in questo libro».
Detto altrimenti: se un autore non sa prendersi la responsabilità delle proprie posizioni, se un editore non è in grado di difendere a spada tratta la teoria proposta da un volume presente nel proprio catalogo, perché mai un lettore dovrebbe avventurarsi nei meandri di tali consigli per gli acquisti? 


Ilaria Moretti