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Ci sarà mai posto per tutti?

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1948
di Yoram Kaniuk

Giuntina, 2012
pp. 180


Questa recensione è anche un omaggio al grande Yoram Kaniuk scomparso lo scorso 8 giugno. Uno di quegli uomini che ha combattuto. Ma non per finta. Ha combattuto gli inglesi, gli arabi, gli ebrei. I primi militarmente. Con gli ebrei, anzi con l’ebraismo e l’ebraicità, compresa la sua personale, è arrivato a punti di rottura. Ma non ha smesso di pensare, come me, che Israele, la cui politica contingente è ovviamente criticabile, è nato per questo: «Dopo che sono tornato mezzo morto e il paese si era riempito di sopravvissuti della Shoah, che i buontemponi fra noi chiamavano “saponette” ed erano mille volte più forti di noi, ho capito che ne era valsa la pena».
Partiamo da qui per “1948”: è l’anno della proclamazione dello stato ebraico e della guerra d’indipendenza. Yoram aveva 17 anni ed era entrato nel Palmach, forze paramilitari e semiclandestine ebraiche che fin dal tempo del mandato britannico compivano attentati terroristici e azioni di guerra. E a questo Palmach aderirono tanti Yoram, adolescenti, inesperti, disorientati, catapultati in una guerra difficile, a tratti incomprensibile ma che aveva il prezzo del risarcimento per lo sterminio degli ebrei d’Europa. Questo è uno dei punti più delicati nella poetica di Kaniuk: la nascita stessa di Israele si deve alla Shoah. A uno scrittore può essere concessa questa affermazione, magari gli storici possono ricordarci che dall’esilio babilonese al sionismo di Theodor Herzl in tutta la storia degli ebrei c’è stata questa pulsione e aspettativa.

Comunque a questi ragazzini venne chiesto di comportarsi da eroi. I nemici erano gli arabi. Che in effetti, non avevano accettato la risoluzione Onu sulla spartizione della Palestina britannica. Non tutti i ragazzi del Palmach, si coglie dal libro, erano lì per fondare uno Stato ma erano lì per difendersi. Questi Yoram non erano giganti, anzi se la facevano sotto tante volte, governava la casualità come per una delle vittorie decisive per le armate ebraiche, a Qastel, sulla strada per Gerusalemme, contro le milizie arabe guidate dal mitico Abdel Khader al Husseini. No, il Palmach non era l’esercito moderno che Israele ha messo in piedi negli anni, grazie agli Usa e alla ricerca tecnologica all’avanguardia, l’esercito che si è guadagnato il mito dell’invincibilità a seguito dei suoi straripanti successi. Il Palmach, la guerra di indipendenza, erano fame, sete, sonno, amici che morivano nelle maniere più banali, assurdità come il ballo da sonnambuli dopo l’annuncio della creazione di Israele dato alla radio, accanto al corpo di un compagno tagliato in due dall’artiglieria. Ovviamente, come ogni conflitto: sangue e odio. Quello che continua fra i due popoli.

Nei primi mesi gli ebrei erano pochi e male armati, poi piano piano ebbero la meglio. E c’è un episodio nel libro che forse spiega tutto: a Ramle, un villaggio, gli arabi tentavano di rientrare nelle loro case dove gli scampati ai lager cercavano di insediarsi. Vinsero questi ultimi per pura forza di volontà. È il senso della tragedia. Che Kaniuk, prima di morire, ha chiosato così: «In realtà io credo che gli ebrei abbiano diritto a uno stato loro… vorrei due stati per due popoli ma oggi come oggi Hamas governerebbe la Cisgiordania e sarebbe con i suoi missili a 3 chilometri da Tel Aviv. E intorno c’è il niente, la Siria in fiamme, per cui nessun palestinese manifesta, l’Egitto nel caos. Per non parlare dell’Iran. Non vedo soluzioni: vorremmo essere Atene, non Sparta, ma abbiamo ancora bisogno di essere forti e mandare i nostri figli nell’esercito, altrimenti non sopravvivremmo».