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Recensione rossa

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Tre racconti
di Boris Vian
Traduzione di Fidelio Bonaguro 
Stampa Alternativa, Roma 1997
pp. 62, lire 1000



"Je voudrai pas crever / Avant d'avoir goûté / La saveur de la mort..."
Cosí riassumeva – ossimoricamente quanto basta – la chiusa di Non vorrei crepare: l'inno alla Nera Signora piú vitale che ci sia, nonché il titolo che di Vian rese parziale giustizia nel nostro Paese (ma ci voleva, nel '79, il coraggio di un editore 'militante' come Savelli di Roma).
Intendiamoci, però: se 'funziona' il Vian poeta, del Vian narratore molte cose non esaltano proprio, soprattutto la 'mistica della scrittura di denuncia' che, sia lo scrittore stesso che certi critici italiani come Stefano Del Re, imbastirono in illo tempore per coprire gli eccessi contenuti in un giallo sadico-sociologico piú in vena di grand guignol che alla ricerca di riscatto umano. In fondo erano solo i tardi Anni Settanta, e certa avanguardia stava agonizzando nel ripescare quanti piú possibile màrtiri letterari da ritrarre in busto marmoreo, sotto l'egida tanto di Jeanne D'Arc quanto di Toni Negri. In Italia, infatti, dello scrittore francese, quand'era vivo ed operoso (ossia negli Anni Quaranta), non si conosceva alcunché.
Qualcosina ci giunse alle orecchie piú tardi, relativamente al film Sputerò sulle vostre tombe, pellicola datata 1959 e tratta dall'omonimo romanzo pubblicato oltralpe nel 1946.
Piuttosto, suscitò una certa eco la morte 'eroica per caso' del maudit ingegnere-jazzista-scrittore: crisi cardiaca mentre, il 23 giugno del '59 (aveva solo trentanove estati), egli assisteva, non invitato, all'anteprima di quel film.
Lo scandalo che provocò in Francia il violentissimo romanzo, le numerose poesie, tese tra neorealismo statunitense e Jaques Prévert, l'intensa attività di traduttore (Chandler, Strindberg, Cain) e di giornalista, alla luce di tale angosciante epilogo, sembrano anche a noi, oggi, tramutarsi in espliciti presagi funebri, ovvero prendono la forma di variegato sfondo grigio dietro al baluginio violaceo che avvolge ed accompagna l'Ultimo Evento. Come se non fosse proprio Vian a recitare "Perché io vivo / Perché è bello" e, subito dopo, "La vita, è come un dente / All'inizio non ci si pensa / Felici di masticare / Ma poi ecco che d'improvviso si guasta / Fa male (...) / Lo si cura (...) / E per essere veramente guariti, bisogna strapparlo, la vita".
Infatti, nelle vene di Vian palpitò un irruento flusso vitale, uno strano sangue iracondo e mortifero, che si fondeva agli orgasmi vendicativi e sadici di Lee Anderson (il protagonista di Sputerò sulle vostre tombe): un globulare delta fluviale, nero come la pelle di Lee, nero come Sartre, Jarry, Chandler e la Greco della esistenzial-patafisica cave parisienne che, ancora oggi, fa tanto outsider per i piú smaliziati borghesi portati alla vie difficile (magari l'hard boiled, poi, non era tanto à la page, ammetterei, anzi mi sembra sia rinato negli ultimi lustri).
Ma non è tutto qui, chiaramente, poiché Boris Vian oltrepassa il binomiaccio sessoemorte a piedi pari – pur raramente rinunciando al primo termine, suo chiodo fisso – per dar prova di lucida struttura narrativa, attenta gestione dei tempi (corre, corre sempre, nelle poesie e nei romanzi) e, talvolta, per prodigarsi anche nella produzione di una glassa colorata alla (amara) gaia (fanta) scienza, allo scopo di tappezzare la solita torta sarcastico-misogina (vedasi il terzo racconto, L'amore è cieco).
Spero che mi perdoniate l'introduzione 'retroversa', ma temo che fosse indispensabile olio per riavviare la mia modesta due-cilindri critica senza trascurare gli immanchevoli passeggeri Bio e Biblio.
Veniamo, ora, a questi tre racconti, pubblicati in Francia tra il 1946 e il '49 e qui rispolverati in un sano Millelire Alternativo, e trattiamoli male, con crudezza, come se fossimo un secondo pseudonimo di Vian (Sputerò uscí firmato Vernon Sullivan): siamo sicuri che l'Autore approverebbe e, se non lo facesse, diremmo che se l'è voluta lui, per via del fatto che amava picchiar duro – equanimamente – sia Sado che Maso.
L'amaro in bocca è poco, stilando un 'bollettino' riassuntivo di fine-lettura, per definire le sensazioni che ti avvolgono, a mo' di spire fonemiche: bisogna proprio far ricorso al sangue, quello che, ultimamente, sembra andar per la maggiore (Affinati, Parise, giovani antropofagi...). Ecco: ciò che resta in me del primo episodio (Le formiche) è il sangue che 'formicola' zampillando tra un arto e l'altro, mentre questi saltano macabramente, come dei pierrot, nella trincea agghiacciante della Seconda Guerra Mondiale.
Ciò che resta del secondo racconto (Il richiamo), è una testa che si sfascia sull'asfalto newyorchese con grottesco contrappunto di, magari, un Duke Ellington stile Take the 'A' train. Permea tutto me stesso una cascata di sangue malato di zolfo metropolitano, frettoloso e denso, policromo e flatulento, sprizzante da quel cranio senza fisionomia che, cosí, diviene un'allettante "Medusa rossa (...) della quinta avenue".
Ciò che resta, infine, dell'ultima novella (il cit. L'amore è cieco) è la flebile sensazione, vicina all'annullamento atarassico, che dovrebbe provare un cieco, magari nel momento della sua atroce iniziazione al mistero dei non vedenti: sangue che pulsa sotto le palpebre, prima della happy end.
Il nido ferroso di mitragliatrici sputacchianti, che appare nelle prime battute de Le formiche, è stato annullato, spazzato via, disintegrato dalla feroce negazione che circolava nelle vene tumefatte cui attingeva la creatività del decadente day after europeo. Noi, gli eredi, i consanguinei, siamo invece vicini alla infiocchettata parodia-che-uccide alla quale attinge questa era post: il supermercato in casa e la casa nel supermercato. Niente male anche quest'altra ideologia necrofiliaca quotidiana; solamente, direi, un po' troppo antiromantica e troppo poco maleducata.
Quasi quasi preferisco il jazz, le bottiglie vuote e i mistosangue di Boris Vian. Tranne la misoginia, eh!


Sergio Sozi