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Pillole d'Autore: Eugenio Montale, "Le occasioni"

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Dichiarò Eugenio Montale in L’intervista immaginaria
Un poeta non deve sciuparsi la voce solfeggiando troppo, non deve perdere quelle qualità di timbro che dopo non ritroverebbe più. Non bisogna scrivere un serie di poesie là dove una sola esaurisce una situazione psicologica determinata, un’occasione.
Le liriche delle Occasioni (1939) sembrano esprimere bene questo concetto: scritte a partire dal 1928, ben diverse da quelle della prima raccolta, Ossi di seppia, esse appaiono musicalmente più scarne, legate all’istantaneità di sentimenti complessi e intensi. Dante Isella, fra i primi, ne fa un'analisi puntuale e perfetta nella sua edizione critica (per approfondire, cfr. l'invito alla lettura di Gloria Ghioni). Le metafore e l’uso del correlativo oggettivo spiegano laddove Montale sembra voler nascondere. Al nichilismo di alcuni versi, al pessimismo di altri, alla rievocazione di esistenze e luoghi lontani, si oppongono i tanti volti femminili, dalle ebree Gerti e Dora, alla figura dominante, l’angelo protettore, a guardia di una salvezza che il poeta temeva costantemente di perdere: Clizia, o Irma Brandeis, per usare il suo vero nome. 
L’autore diffonde il suo grido di artista e di uomo vessato dalla guerra e dalla consapevolezza che a causa di questa guerra perderà la sua donna. 
Divisa in quattro sezioni, la raccolta approfondisce temi di carattere storico-politico (la caccia agli ebrei, come in Nuove stanze) e poi più intimo (il rapporto con Clizia, lontana, di cui sono espressione i Mottetti). Montale è passato dal mare calmo o agitato alla terra bombardata e al cuore interrotto dalle passioni. Amore e morte si concentrano in questa raccolta come nei canzonieri più intensi della letteratura. 



Testo di riferimento: Eugenio Montale, Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 2008.


Dalla prima sezione:

Cave d’autunno

su cui discende la primavera lunare
nimba di candore ogni frastaglio,
schianti di pigne, abbaglio
di reti stese e schegge,

ritornerà ritornerà sul gelo
la bontà d’una mano,
varcherà il cielo lontano
la ciurma luminosa che ci saccheggia.
Accelerato

Fu così, com’è il brivido
pungente che trascorre
i sobborghi e solleva
alle aste delle torri
la cenere del giorno,
com’è il soffio
piovorno che ripete
tra le sbarre l’assalto
ai salici reclini -
fu così e fu tumulto nella dura
oscurità che rompe
qualche foro d’azzurro finché lenta
appaia la ninfale
Entella che sommessa
rifluisce dai cieli dell’infanzia
oltre il futuro -
poi vennero altri liti, mutò il vento,
crebbe il bucato ai fili, uomini ancora
uscirono all’aperto, nuovi nidi
turbarono le gronde -
fu così,
rispondi?
Da Mottetti:
La speranza di pure rivederti
m’abbandonava;

e mi chiesi se questo che mi chiude
ogni senso di te, schermo d’immagini,
ha i segni della morte o dal passato
è in esso, ma distorto e fatto labile,
un tuo barbaglio:

(a Modena, tra i portici,
un servo gallonato trascinava
due sciacalli al guinzaglio).
Ecco il segno; s’innerva
sul muro che s’indora:
un frastaglio di palma
bruciato dai barbagli dell’aurora.

Il passo che proviene
dalla sera sì lieve,
non è felpato dalla neve, è ancora
tua vita, sangue tuo nelle mie vene.
Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.

Un freddo cala... Duro il colpo svetta.
E l’acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre.
Dalla quarta sezione:
Eastbourne

‘Dio salvi il Re’ intonano le trombe
da un padiglione erto su palafitte
che aprono il varco al mare quando sale
a distruggere peste
umide di cavalli nella sabbia
del litorale.

Freddo un vento m’investe
ma un guizzo accende i vetri
e il candore di mica delle rupi
ne risplende.

Bank Holiday... Riporta l’onda lunga
della mia vita
a striscio, troppo dolce sulla china.
Si fa tardi. I fragori si distendono
si chiudono in sordina.

Vanno su sedie a ruote i mutilati,
li accompagnano cani dagli orecchi
lunghi, bimbi in silenzio o vecchi. (Forse
domani tutto parrà un sogno).
E vieni
tu pure voce prigioniera, sciolta
anima ch’è smarrita,
voce di sangue, persa e restituita
alla mia sera.

Come lucente muove sui suoi spicchi
la porta di un albergo
- risponde un’altra e le rivolge un raggio -
m’agita un carosello che travolge
tutto dentro il suo giro; ed io in ascolto
(‘mia patria!’) riconosco il tuo respiro,
anch’io mi levo e il giorno è troppo folto.

Tutto apparirà vano: anche la forza
che nella sua tenace ganga aggrega
i vivi e i morti, gli alberi e gli scogli
e si svolge da te, per te. La festa
non ha pietà. Rimanda
il suo scroscio la banda, si dispiega
nel primo buio una bontà senz’armi.
Vince il male... La ruota non s’arresta.
Anche tu lo sapevi, luce-in-tenebra.
Nella plaga che brucia, dove sei
scomparsa al primo tocco delle campane, solo
rimane l’acre tizzo che già fu
Bank Holiday.
Nuove stanze

Poi che gli ultimi fili di tabacco
al tuo gesto si spengono nel piatto
di cristallo, al soffitto lenta sale
la spirale del fumo
che gli alfieri e i cavalli degli scacchi
guardano stupefatti; e nuovi anelli
la seguono, più mobili di quelli
delle tue dita.

La morgana che in cielo liberava
torri e ponti è sparita
al primo soffio; s’apre la finestra
non vista e il fumo s’agita. Là in fondo,
altro stormo si muove: una tregenda
d’uomini che non sa questo tuo incenso,
nella scacchiera di cui puoi tu sola
comporre il senso.

Il mio dubbio d’un tempo era se forse
tu stessa ignori il giuoco che si svolge
sul quadrato e ora è nembo alle tue porte:
follia di morte non si placa a poco
prezzo, se poco è il lampo del tuo sguardo,
ma domanda altri fuochi, oltre le fitte
cortine che per te fomenta il dio
del caso, quando assiste.

Oggi so ciò che vuoi; batte il suo fioco
tocco la Martinella ed impaura
le sagome d’avorio in una luce
spettrale di nevaio. Ma resiste
e vince il premio della solitaria
veglia chi può con te allo specchio ustorio
che accieca le pedine opporre i tuoi
occhi d’acciaio.