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Sebastiano Aglieco: il sacro, la poesia e la realtà (cronaca poetica 2003-2009)

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Cercherò in questa sede di comporre una cronaca della poetica di Sebastiano Aglieco dal 2003 al 2009, attraverso le tre raccolte – se così possiamo dire – della maturità. Tralascio in questa sede l'analisi della sua poesia giovanile (Minime, 1985) e il “blocco” delle raccolte anteriori al 2003 (Grandi frammenti 1995, Le colonne d'Ercole 1996, La tua voce 1997).
Mi preme puntualizzare che    poiché le date di composizione delle poesie non corrispondono esattamente agli anni appena precedenti la pubblicazione delle raccolte  il percorso che ho tracciato non è cronologico. Un simile lavoro avrebbe richiesto maggiore studio, tempo e attenzione.
Tuttavia, la coerenza tematica delle raccolte permette una distinzione, non già di periodi, ma di momenti poetici. Dunque questo tentativo d'analisi non ha altra ambizione che una comparazione tipologica.
Le raccolte sono state recensite in ordine di pubblicazione (rispettivamente nel 2003, 2006 e 2009) in considerazione del fatto che, in queste date, quantomeno, è avvenuto un lavoro di revisione e riorganizzazione.






 Giornata (La vita felice 2003).  Le date di composizione vanno dal 1995 al 1998.

«Dalla luce netta della Sicilia al velo di nebbia sul parco di Monza si distende la poesia di Sebastiano Aglieco: siracusano, uomo solitario, concentrato, teso a uno scavo incessante nell'oscuro» – così Milo De Angelis, nella sua prefazione a Giornata (La vita felice 2003), descrive il poeta.
«Ora verrà il giorno, e resteremo qui, nella macchina, a pensare al Nord, ti vedrò nelle cartoline, il viso senza quella fanciullezza che ci ha fregati, finalmente in faccia ai potenti, padrone della nostra memoria, di questo essere qui; fatti valere, devi essere poeta grande, in faccia ai potenti, sì, in faccia ai potenti» – sono parole forti, parole in prosa (un intimissimo manifesto?), dalla sezione Vie della spidduta.
La condizione sociale e geografica deve aver avuto un peso rilevante nella sua esperienza creativa, ma Aglieco mi pare esprima in questa raccolta qualcosa di più dell'uomo sociale. Non è una poesia impegnata questa. È piuttosto un tentativo di riversare l'impegno poetico in ogni aspetto della vita. È un pegno, questo del poeta, una poesia-pegno, una «offerta», come accenneremo tra poco.

Questa apertura alla realtà, così drammatica e combattuta – dove il poeta si sente «in stato di assedio» – si capovolge quando indaghiamo il suo rapporto diretto con la Parola: «le parole non nascono veramente / aspettano solamente / sono tutte nel mondo».
Lì dove accogliere la realtà è faticoso, rovinoso (!), invece accogliere la Parola (anzi «le parole»), è un processo mistico, un'ascesi creativa che, in parte, redime il dolore del poeta di fronte alla Storia.
In questo senso mi trovo in disaccordo con Milo De Angelis quando parla di un «faticoso ingresso nella parola». Mi pare invece che per Aglieco accogliere la parola sia facile e catartico nell'esperienza di questa raccolta, e che il «faticoso ingresso» sia, piuttosto, da riferirsi alla Realtà. Anzi, dico di più, spesso la dimensione poetica diventa un rifugio, un nascondiglio, una liberazione dagli inganni del mondo. Fino al punto che la poesia si sostituisce alla vita stessa: «Ora sei il poema di me / vita finalmente libera / sei questo pensiero che ho sognato in segreto / il più debole e puro / che non ho realizzato: / essere prova di sé / nell'inganno del mondo / o nella sua salvezza».

Dunque troviamo una contrapposizione fortissima poesia/realtà che si approfondisce anche in un'altra antitesi, tempo dell'anima/tempo quotidiano: «A voi poeti, “fratelli”, offro una porta / chiusa, la bocca chiusa; / nient'altro, in questo / falso tempo quotidiano, / tutto il pensiero è altrove».

«Solo il vero poeta sa che cosa sia l’immenso desiderio di non essere poeta, il desiderio di abbandonare la casa degli specchi in cui regna un silenzio assordante» – scrive Milan Kundera, ne La vita è altrove.
In Aglieco mi pare scorgere un atteggiamento speculare. Il «silenzio» della sua «bocca chiusa» non è «assordante», ma è «una porta» offerta in pegno, in virtù di una “fratellanza”.

Troviamo spesso una dimensione quasi-religiosa della poesia, una visione certamente “ascetica”, ma di un asceta-metropolitano: ecco l' «uomo solitario, concentrato, teso a uno scavo incessante nell'oscuro» di cui scrive De Angelis!
Ed ecco che, delle volte, questo «scavo incessante» diventa preghiera: «Dio della voce, ora calmaci / prepara la giornata nella sua misura difficile / borsa e pennino verso i bambini. / Fa che ci sveli il tempo / registro dove attestammo il buono e il cattivo / la bugia del dovere / il compito ancora nel suo compimento».



 Dolore della casa (Il ponte del sale 2006).  Le date di composizione vanno dal 1996 al 2004.

Nella prima pagina leggiamo una citazione da I sonetti a Orfeo di Rilke: «Dov'è la sua morte? Forse questo motivo / troverai, prima che il tuo canto si consumi? – / E da me dove sprofonda?».
«Più grande il tuo corpo / – tu, piccola, assente / madre bambina / tornata nel tuo ventre » – si apre così, alla pagina successiva, la raccolta Dolore della casa (Il ponte del sale 2006), con questa dolcissima meditazione su Maria Vergine.
Subito capiamo che abbiamo a che fare con un messaggio. Il poeta vuole dirci qualcosa: Aglieco tesse in questa raccolta una lunghissima meditazione religiosa, un canto di preghiera, con una particolare attenzione ai temi dell'infanzia, della purezza dell'infanzia, e della morte: «I bambini si mangiano la morte».
Sembra di rileggere un altro Rilke, quello delle Elegie Duinesi: «Chi può mostrare un bambino com'è veramente? Chi lo può / porre nella costellazione e dargli la misura della distanza / nella sua mano? Chi può plasmare la morte del bimbo / nel pane grigio che indurisce – o lasciarla a lui / nella bocca rotonda, come il torsolo / di una mela matura? …È facile comprendere / gli assassini. Ma questo: la morte, / la morte intera, ancor prima della vita, / contenerla con dolcezza, senza essere malvagi, / questo è indescrivibile» (Elegie duinesi, IV, trad. di Franco Rella).

C'è da dire che, in linea di massima, per la data di composizione, le poesie di questa raccolta sono quelle che più facilmente possono essere inserite in un percorso di evoluzione cronologica rispetto a quelle di Giornata.

Le opposizioni poesia/realtà, tempo dell'anima/tempo reale, si elevano in sistemi più sottili e personali. La tensione teologica è fortissima: infanzia/realtà, purezza/morte. Aglieco cerca un “nuovo” tempo. Potremmo dire: un tempo della sintesi:
«Piove, piove, piove / devo tornare a casa / fermare la tua immagine distanziata / in un colore freddo della non-memoria / dove tutto è contenuto in un altro tempo / un tempo più pulito e più sincero / riaperto alle mani al mondo dei bambini».
A questo “nuovo” tempo, il poeta tenta un approdo. E, anche, osa dire coraggiosamente: «si sta bene qui / sono basse le vostre parole / addomesticate».
È il segno di una poesia che avanza inesorabilmente in un cammino di trascendenza dalla realtà. Una poesia che non vuole ripiegare nel soggettivismo, e si ri-scopre nel Sacro.


Nell'approccio alla parola, troviamo dei cambiamenti da quell'ascesi verace, quella meditazione selvatica, spontanea, di Giornata. Il ricordo di un approccio più facile e più naturale alla parola, sembra riecheggiare in certi versi: «Sempre in me, avventuriero della parola / ho accolto un dio […] Ho atteso una meta, una parola definitiva. / Ma la mia terra è il mare / e il mare ha sponde tenebrose / anfratti in cui si perde l'ora / e il tempo non consola».
Questo «avventuriero della parola», dunque, è adesso un esule.
Con questo inciso si apre la sezione Dolore della casa, che dà il nome alla raccolta: «Volevo parole semplici per il dolore / un gesto finalmente restituito al suo perdono / ma ho separato la parola da quella nostra preghiera / e la nave si è impigliata in una secca. / Pago con questo allontanamento dalla casa / verso acque amare».

Lo stesso anno per Mondadori esce Remi in barca di Luciano Erba. E mi pare di percepire un simile modo di esprimere la stessa malinconia, la malinconia del poeta che non riesce ad accordarsi con la propria ispirazione: «A sera il poeta siede stanco / l'infinito lo strazia alla finestra / l'inchiostro di asciuga sulla penna / il foglio è bianco» (L.E.).

Il rapporto con la Parola, come nelle altre due raccolte, resta comunque e sempre nella dimensione del Sacro e, qui, prende quasi la forma di un esercizio spirituale: «Difficile è catturare la luce / per fermare una parola […] Parole di questa certezza così / vane, come posso proteggervi / come posso spogliarvi da me, poeta?».

La raccolta si chiude con la sezione Dominio dell'acqua, dove questo “esercizio” tutto teso al “dominio della parola” diventa meccanica del verso, grammatica dello spirito:

Nella poesia Costruzione del paesaggio scrive: «Dobbiamo sottrarre le linee e giungere all'inizio, quando il progetto era solo un'idea, non sarà diverso, sai, da un paesaggio cancellato dopo la tempesta. Quando tutto era appena pronunciato».




 Nella storia (Aìsara 2009). Le date di composizione vanno da aprile a luglio 1994 circa.

La prima cosa che ho notato leggendo Giornata e Dolore della casa è una quasi totale mancanza della dimensione del corpo, della realtà del corpo.
In Nella storia (Aisara 2009) assistiamo a qualcosa d'opposto: è come se tutte le istanze della sua poetica avessero trovato qui una dimensione, appunto, corporale – intendendo con questo una forma sensoriale, materica: «Il paesaggio si dilata nella / carne».

Nella nota di chiusura alla silloge, Aglieco scrive: «Queste poesie sono state scritte ai tempi della guerra nella ex Iugoslavia […] Ma devono molto anche a un'altra terra, la Sicilia, nella distanza incolmabile dei visi e dei luoghi che si perdono [...]», e poi, anche, c'è «uno stesso modo di sentire, sempre un'eco antica nella voce». Dunque è un tema tragico, quello della guerra, a cui Aglieco decide di dedicare l'ispirazione di una «antica voce».

Così leggiamo nell'inciso d'apertura della sezione Oriente prossimo venturo: «Noi siamo venuti a dirvi la follia / noi, i guitti di un pensiero all'osso / il dolore si forma nelle poche memorie / mai mostràti così, / mai in questa carne così evidenti / eppure noi sappiamo che un gesto / è la ferita che la parola non dice».

Ma la guerra è anche il pretesto per parlare di un'altra frattura, di un'altra ferita – quella di una generazione che ha creduto «che si potesse essere fratelli, noi / figli di un sessantuno / con la testa nell'acquario / e il cuore nel sagittario […] Poi si ritorna ancora soli».
Ancora una volta però sarebbe riduttivo soffermarci sulla dimensione dell'uomo sociale. C'è ovviamente qualcosa di più.
Aglieco ritrova «nella storia» la metafora vivente delle proprie intime fratture, e cerca in sé i simboli universali che descrivono le sorti della Storia: «Eri quel viso che non si accontentava / quel lamento di agnelli / nella nostra guerra quotidiana».

La descrizione dell'efferatezza della guerra e la conseguente riflessione del poeta rievocano la poesia Uomo del mio tempo di Salvatore Quasimodo («sei ancora quello della pietra e della fionda, / uomo del mio tempo»). Nella poesia La giustizia del coltello Aglieco scrive: «Il pane era nero come i confini / liberi da ogni convenzione / e da ogni giuramento / il fuoco sbranava le piccole cose / ci riduceva nei secondi di una razza / cammino a ritroso verso l'origine […] I treni portavano la beffa di una canzone / chist'è 'o paese d''o sole, / chist'è 'o paese d'ammore / e io non so più / quale sputo avrei dedicato / ai poeti, al destino e alla poesia».
Il drama della guerra trasmette le sue vibrazioni persino nel rapporto metafisico che il poeta sente di avere con quegli stessi “fratelli” a cui, in Giornata, offre «una porta». Persino nel rapporto con la poesia: «Le parole in bilico / si fermano nella nostra mano / e a malapena le possiamo contenere», «Pagheremo lo sconforto ai vivi / e le parole si ammutineranno».

Qui siamo lontani dalla fuga (un po' ironica, un po' malinconica) della poesia-scoiattolo di Luciano Erba, dalla tristezza dello stesso Aglieco che, in Dolore della casa, s'interroga sulla difficoltà di un'ispirazione faticosa, sul dolore di un «avventuriero della parola» alla deriva e in cerca di un ritorno.
Qui la frattura sembra irrecuperabile. Più che una ferita, potrei dire che Aglieco descrive poeticamente una perdita, una perdita definitiva, del contatto con la Parola, con l'origine. Una perdita di «Uomini contusi nella Storia». Una perdita che nei versi posteriori, come abbiamo letto, tenterà di colmare.
Ancora un volta tutto questo non manca d'avere un'implicazione religiosa, e una conseguenza addirittura escatologica («Noi saremo giudicati per / il tempo che la parola si è fermata»), nonché il senso di una redenzione («Coltivare il senso / di questo sacrificio immane / il sole persiste nel fiato / la notte nel segno che si fa scrittura»).

● Conclusione

Le istanze poetiche di Aglieco in Giornata e Dolore della casa sono le coordinate di un percorso creativo e spirituale individuale (le opposizioni poesia/realtà, tempo dell'anima/tempo reale).
Quelle stesse istanze, in Nella Storia, diventano in prima analisi un sostegno alla cronaca della guerra in Iugoslavia; in secondo luogo, con maggiore approfondimento, esprimendo il rapporto lacerato poeta-parola e l'inquietudine metafisica del singolo, hanno il ruolo di misuratori sintomatici dello spirito dei tempi – dei drammi e delle ferite della Storia. La poesia è una cassa di risonanza della Storia e s'inserisce in un dinamicissimo dialogo fra microcosmo e macrocosmo.

Una cosa è importante ribadire: che l'evoluzione poetica di Aglieco – come lui stesso dichiara – non segue un tempo cronologico, ma si misura attraverso una cadenza interiore. La sua poesia subisce i corsi e ricorsi di un tempo personalissimo: l'ispirazione non teme di tornare sui vecchi passi quando le è più consono, preferendo spesso a un tempo lineare un altro spiraliforme.
Così a dettare gli orientamenti della poetica di Aglieco sono le tematiche, i luoghi e i momenti dello spirito – più che i periodi di un'evoluzione stilistica.

Forse troviamo nella sua opera il difetto di una forte disorganicità all'interno delle singole poesie, troviamo la fretta di salti logici repentini, di iperboli vertiginose, che sembrano dare ai testi la forma di una miscellanea diaristica. Tuttavia questo difetto valorizza la dimensione intimissima della poesia di Aglieco che mai cade nel soggettivismo autoreferenziale, ed è sempre mossa (scossa!) da fortissimi concetti propulsori.

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SEBASTIANO AGLIECO è nato a Sortino, in provincia di Siracusa, il paese degli asini della Cavalleria Rusticana. Ha vissuto tra i monti e il mare, in Sicilia, fino a 24 anni, poi accasato, ma per sbaglio, a Monza, dove non ha messo mai radici. Da qualche anno è ritornato a insegnare a Milano, nella scuola elementare. Ha pubblicato diversi libri di poesia. I primi, praticamente clandestini, poi Giornata, La vita felice 2003, con una nota di Milo De Angelis. A seguire: Dolore della casa, Il ponte del sale 2006, Nella Storia, Aìsara 2009, e la raccolta di saggi Radici delle isole, La vita felice 2009, che raccoglie il lavoro critico svolto in questi anni, soprattutto nella rete. Collabora con riviste di poesia (La Clessidra, La Mosca di Milano, Ali, e l'annuario di poesia della casa editrice puntoacapo). Dirige per l'editore L'Arcolaio la collana "I nuovi gioielli". Suoi testi e interventi sono presenti in plaquettes d’arte, realizzate in sintonia con artisti visivi e musicisti, volumi collettivi, riviste e in rete. Soprattutto, forse, si è occupato di educazione: scrittura e teatro. L'ultimo progetto, realizzato con gli alunni della casa del parco Trotter, a Milano: Anime, poesie e un video. Ha organizzato eventi per la diffusione della poesia in collaborazione con l’associazione delleAli, Millegru, di Dome Bulfaro, Land di Stefano Massari. Il suo blog è Compitu re vivi dove continua il lavoro di critica sulla poesia contemporanea. (info: www.miolive.wordpress.com)