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Il Salotto: intervista a Silvia Molesini

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In rete è possibile trovare tue poesie recitate da te: quando le leggi (che sia dal vivo o in registrazione) in che modo gestisci la voce? Che ruolo ha la voce, la tua voce, nelle tue poesie? 

È stato un arrivare lungo ad una specie di pararecitazione. Non mi convince quasi nulla della declamazione enfatica e trovo arido il leggere piano, senza cromia (che sto capendo un poco quando tratta il verso quantitativo). Mi intriga la direzione del parlar cantato ma non sto propriamente praticandola.
La linea conduttrice, quando leggo, è il significato strutturale del testo. Lo cerco furiosamente. Non trovandolo sempre mi aiuto con le immagini isolate, e cado successivamente nel potere del nome. Tutto questo facendomi dirigere dal suono, come leggessi uno spartito al momento senza conoscerlo già (ovviamente tutto questo salta quando un brano viene standardizzato dalla sua ripetuta proposizione).
La voce è uno strumento, la uso come tale, il mio timbro è roco, con dei buoni bassi. La “partitura” ha in parte scritti i piano e i forte, le pause, la durata nelle concatenazioni delle parole, il loro suono e ritmo, (etc.). Quello che non è scritto, credo la domanda si riferisse soprattutto a questo, lo prendo dall'intenzione di cui parlavo sopra (la ricerca di senso strutturale) e da cose che possono sembrare stupide, tipo il grado di attenzione di chi mi ascolta e come sto in quel momento.
Una cosa ho certa: quello che c'è sulla carta sulla carta può restare senza che gli venga fatta fare la carambola interpretativa vocale. La mente canta, non serve una voce che lo faccia per lei. Ma benvenga la voce, e si apra un mondo seriale (forse un mondo più antico, che la parola scritta può aver mortificato).
D: In Lezioni di vuoto ci sono poesie dedicate a grandi autori della tradizione: penso ad Artaud in Cos'è il nord (dove va il sole?), a Hemingway in Hemingway davanti alla rastrelliera, a Rimbaud in FaRe CaLlIgRaFiA. Evocandoli passi dalla dedica alla citazione all'allocuzione. Qual è il tuo rapporto coi maestri, e quali sono i tuoi autori fondamentali?

R: Ambivalente. Da una parte il maestro, che è nell'anima, mi trasmette grandissimo rispetto e amore. Sono in una piacevolissima posizione passiva di ascolto, non ho quasi mai nulla da obiettare, mi sembra ci sia tutto da imparare e la meraviglia della scoperta è il sentimento principale. Dall'altra non riconosco la sua posizione, il suo ruolo, il maestro è la grassa presunzione del patriarcato, l'ordine che incanala e paralizza, la trasmissione di sciocchezze convenzionali; un padre da uccidere, insomma. Diventa che, nell'area che comunque la capacità critica ha selezionato, tutti vengono apprezzati ma nessuno eletto. L'area è vasta, un elenco sarebbe faticoso, caratterizza chi la occupa l'essersi fatto ponte (come dice Matilde) tra una conoscenza criticamente compresa ed un inconoscibile fortemente problematizzato.
Nella Silvia piccola che comincia a scrivere ci sono comunque personaggi precisi: un Pascoli rinnegato, un De Gregori esibito, un Saint-Exupéry disegnato. E suo cugino, senz'altro.

D: Tre osservazioni, malamente collegate tra loro:
- Nel 2000 hai composto le poesie 13 algebriche mistiche mettendo in ordine alfabetico i versi che Pasquale Panella metteva a disposizione nel sito mistica.uhuru.it. "Tredici piccole insensatezze. O tredici grandi verità. O un ibrido" dici, presentandole.
- Una tua poesia, Metacronia nost-algica con miele, contiene un pastiche di versi di Fabrizio De André.
- Un lettore ha commentato così il tuo libro Cahier de Doléances, edito quasi dieci anni dopo: 
«Silvia Molesini ha pensato bene di mettere nel frullatore un po' di parole e di mischiarle bene, pensando che questo fosse sufficiente a fare poesia. Ad esempio scrive: "...e per cosa non faccio da fare ma non è vero che ho solo il racchiudere". Francamente è un esercizio che trovo disdicevole.» Le poesie automatiche, il pastiche, il frullato: che cosa c'è di vero e che cosa di falso in quella critica negativa, e che cosa trovi di attraente in questi processi compositivi? 

R: Devo precisare. “13 algebriche mistiche” viene composta utilizzando l'interazione tra i versi automatici che Panella e Mazzetti mettevano a disposizione sul sito mistica.uhuru e i miei, poco automatici e molto coinvolti. Metacronia utilizza diversi titoli di canzoni di De Andrè ma non è imitativa, vorrebbe essere per lui omaggio e lamento e preghiera. Il commento al Cahier è di una persona che non ha letto il libro, il verso è citato in modo erroneo, scioccamente estrapolato: il distico dice “e ti parlo quanto in fondo so andare / e per cose non faccio da fare”, non è certo il mio verso migliore ma le sottrazioni grammaticali conservano senso logico, che volendo poteva anche essere raccattato da titolo del testo (Che-la, ma probabilmente bisognerà spiegargli che era  dedicato a Michela).
Per dire: non mi caratterizzano l'utilizzo automatico o irrazionale dei termini, e tanto meno la pasticceria letteraria. Il centro di produzione è un altro. Ma mi posso servire di qualunque cosa che possa esser scritta, neologismi in primis, per ottenere il risultato voluto, che potrebbe definirsi come “costruzione di un oggetto poesia con desiderio di senso”.

D: Leggendoti non è raro imbattersi in neologismi, appunto. Cito metaestasi in A pochi secchi schiocchi dalla fine, argentaffine in Cerimonie acri, acrimonie, stanchestenuo in Le tue fate, simpatecanti in Hai fatto bene a berti il mondo, impietritemi in Pascale Francesca, ma anche il madrepadre dell'intervista realizzata da Silvia Monti per tellusfolio.it. Che funzione hanno e in che modo li escogiti?


R: Mi hai proprio letta, vedi. Penso che la costruzione di parole sia una delle funzioni “estreme” che chi scrive debba considerare, se può; una sorta di arrivo di tutti i procedimenti che ha utilizzato sin lì: la parte per il tutto, la metafora, il ritaglio della parola intera, la bella e buffa anafora, l'enjambement costretto dal numero di sillabe, il richiamo del nome esotico, l'urlo della lingua diversa, il numero, la sintesi concettuale stretta, l'onomatopea. Se diventa imperante ovviamente meglio inventarsi una lingua nuova e leggersela in quattro, se fatta male è come qualunque altra cosa fatta male. I miei neologismi sono di due tipi, volendo sistematizzare: madrepadre è del tipo puramente concettuale (anche se...), ad esempio. Il secondo tipo va a orecchio, come fanno altre cose (come si chiama questo ritmo esatto?), che non è solo un orecchio che sente il suono di. Probabilmente lì una dimensione fantastica e un non conscio e un risaputo si incontrano. Poi possiamo sempre cancellare.
E aggiungo: non è il neologismo la frontiera, perché comunque non va ad intaccare elementi strutturali del verso. Il vero punto è il rimestamento sintattico.

D: Il Bacichirico è un testo ecfrastico che descrive l'Ettore ed Andromaca di De Chirico. Un altro caso esemplare è Un'immagine di donna che guarda fuori:


A cosa pensa lei che guarda dal vetro della finestra
con lo scialle a mezza guisa sulle spalle
e guarda fuori, sembra, che dentro niente resta
talmente fuori è lo sguardo che da dentro impresta.

Qual è il punto nodale di questa immagine precisa
mille volte tante si è riversa
sopra te, dagli schermi, dai vetri, dalle gesta
nelle parole che l' hanno usata.

Prima: aveva il sangue, già il sangue, la bambina.

Diorskin fa pensare a una bestemmia
e Shi se ido creator le disegna
una cresta.

L'aveva scelta Bunuel compita
e riverente che l'occhio molesta
accovacciata al piano benvestita
un trucco solido, le ciglia
eterne
l'orchestra -balorda-
il ballatoio
-sinistro-
l'isola luccica
nel tremolare del finto
fallo,
rimesto quello
mentre m'inchino a dovere
dov'è la strada sdrucciola che
la porterà all'insieme
dov'è la donna dello scialle
a guardare un lontano fuori di finestra?

Le sue lacrime trattenute
, che sono sangue speso,
tornano in acqua indietro
come sabbia a cumulo
tutto l'amor dell'incendio
zoppica e a cuccia il cane
a cuccia misera madre
a cuccia dio il padre:
chiuderemo bene ogni soffitta, ogni
buco, ogni soglia, ogni soffiante
pertugio
ma lasceremo il vetro, che si veda
cosa fa fuori
se dentro
(nell'Immortale Fiero Palpito)
nega.

Un gusto ecfrastico, dicevo: eppure molte tue poesie forzano la lingua fino a portare il dettato sulla soglia dell'oscurità, dove risulta arduo visualizzare quanto viene evocato. Come concili queste due tendenze e cosa ami dell'una e dell'altra?


R: Immagino di avere a disposizione molte “funzioni” (come organi, apparati), ciascuna con un suo specifico campo descrittivo. Dove utilizzassi, ad esempio, la visione, è perché la cosa poteva essere vista (magari c'è qualcuno che ha fatto molto lavoro prima che tu arrivassi a vedere); dove venissero invece rilevati fatti dipendenti da sensibilità diverse e meno definibili, cenestesiche mettiamo, allora diventerà indispensabile infilarsi nel buio disegno della cosa nascosta. Sono scorciatoie esplicative, del resto l'intervista ha un suo formato da rispettare. Ci sarebbe dell'altro, dell'ordine del perché la signorina ragione ami così tanto fare a botte con la signorina fantasia. Intanto passo.

D: In alcune tue poesie ci sono riferimenti espliciti alla musica: Sonic Youth e Dead Can Dance in Who?, Tom Waits e Nick Cave in Pierina Pan (ho visto una folletta verde in treno). Quanto e in che modo la musica e i cantautori influenzano i tuoi versi?

R: La musica mi è fondamentale, anche se le citazioni che riporti riguardano scelte di tipo utilitaristico (mi sono cioè servita di questi per dire qualcosa che non riguardava propriamente loro, fino a ridurmi al semplice cercare un suono). Ma la musica. E i cantautori, e i cantanti... io sono canzone dipendente, guardo perfino i peggiori festival. Comincio a scrivere a sette anni perché ho una canzone in testa, e non riesco ricordarmi le parole. Ho provato però poi a scrivere per una musica stabilita e la delusione è stata grande. Nell'impostazione melodico-qualcosa che viene proposta standard all'autore come guida ci sono restrizioni che ridimensionerebbero quasi qualunque volenteroso. Dico quasi.
Ecco, a bomba: non ha influenze diretta sui miei versi se non quelle originarie che dicevo (per quanto continui ad interrogarmi sul mistero dylan), ma la musica, arte sottile e scrittura che si può permettere tutto perché lo insinua e non lo scolpisce, mi è presentissima.

D: Lezioni di vuoto si apre con una citazione da Lao-Tse, ma nel libro affiorano qua e là chiari richiami al cristianesimo; mi riferisco a Metacronia nost-algica con miele, ad esempio, e a Ferita al costato). Per concludere, la presenza di una tematica religiosa è sintetizzabile nel verso "E dov'è dio?" in Cahier de doléances. Qual è il tuo rapporto con la religione?

R: È un rapporto vivace e dialettico. Dio, madre, morte, libertà, verità sono concetti costruiti dal nostro grande bisogno, ci abbiamo fondato sopra culture che ci hanno fondati (e affondati a più riprese); se mi dici che però mia madre è più vera di Dio (in questo caso Dio) lei si, è vera, Luisa, ma non altrettanto la sua Sacra Maternità. E questo vale anche per la morte.
Il mio ateismo non ostacolerà quindi nessuna costruzione di senso altrui, cerco di capire invece perché il senso altrui (e quindi un po' anche mio) quella forma ha preso e non un'altra, lo faccio anche scrivendo, è uno dei miei limiti. Dio dico. Le religioni sono grandi zone di gestione dell'umano, della cultura e del potere.

D: Ci leggi una tua poesia?

R: Pensavo allora a

Dvi-ja

È l'ultima cosa che la fece prigioniera dell'idillio scansato
, aveva diciott'anni appena, era la mangiatrice di fuoco di un circo e bruciava
il mondo di dire che s'appartiene e ruota, e ruota.
La conobbi carina ed intricata nelle potenze esplose di una prima Guerra
e mi convinse del muovere mi decise gli abiti mi spezzò un'ala piccola
che riuscissi a spostarmi.
Nella sua madia monsonica appuntava i risultati obliqui
ma non l'ho mai trovata superba o dogmatica, s'intendeva di trilli
e parlava come parlano certe cornacchiette di spinella, come dire che
che un pelo squittire e un pelo farsi sottile perché il farsi potesse.
E davvero l'ho amata, Gremilde de' Ginestre
(detta l'angiolina)
nelle sue riflessioni su Dio, e nel privarlo d'uomini come se s'impotesse
e nel suo scorrere logico tra la cosa e il palo, una bontà maestra, ella
appicca fuochi sui lungomari sanniti, si astrae ed adombra
passano gli Ari coi cavalli nuovi e lascia loro l'Indo
impara appena il sanscrito per entrare nell'Upanishad preferita
quella che dice: l'uovo di Brahma sul mare del diluvio a fare musica
per trentaseimila cicli per mille yuga per dodicimila anni ancora per
trecentosessanta altri anni di uomo, una bontà in rinascita
le piace dirsi e dirsi.
Purusa, ayakta, mahan atma, sattva, manas, oggetti dei sensi,
questa cosmogonia primaria la strugge e l'abbrama:
ha un intenso rapporto stabile con i fatti d'essere.
Ma è l'ultima cosa che la fece prigioniera dell'idillio scansato
e amava suo padre come un bimbo allora
e si ricordava di pregare l'immensità corona delle fate sparenti
mentre i tibetani provavano a ritornare a Lhasa pensava:
"io prigioniera perché fingermi libera? sono la schiava adatta rinascente
mi mostro e perdo niente nella mobilità oblunga
sono Druga che ammala, io prigionata vado lungo il filo
dell'ultima stradina dell'ultima contrada dell'ultimo limite
dell'ultima risacca dell'ultima gola dell'ultima amaca
e dell'ultimo ponte giunto per chissàddove sino a qui,
dove le orchestre sono fragili
dove il torrente è violento
e dove la cresta delle montagne grigie s'infila dvi-ja nelle nuvole"


e ti ringrazio ancora per la stimolante intervista, Alfonso.

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Intervista a cura di Alfonso M. Petrosino