#LibrInnovando: l'innovazione editoriale torna anche quest'anno

#LibrInnovando - 27-28 aprile 2012

Roma, Tor Vergata

Cari amici, anche quest'anno CriticaLetteraria era a LibrInnovando, convegno dinamico e al passo coi tempi (come recita il sottotitolo Non farti stendere dal futuro) dedicato all'editoria. Lo scorso anno, a Milano, con me c'erano Laura e Silvia; ricordate la nostra cronaca?
Quest'anno Librinnovando ha cambiato città (Roma), ambiente (La facoltà di lettere e filosofia di Tor Vergata), s'è ampiata la rete di equipe, coinvolgendo l'università: oltre al gruppo di Ledita, in particolare si ringrazia l'organizzazione fondamentale della professoressa Luisa Capelli e del suo validissimo gruppo di studenti. 
Anche CriticaLetteraria ha partecipato, e in modi diversi: nel pubblico, Isabella e Rodolfo hanno seguito attivamente con spirito critico gli interventi del 28 aprile; io ho curato il live tweet del workshop (27 aprile) e soprattutto del convegno (mi scuso per aver intasato le timeline di tanti vostri account twitter, ma l'atmosfera era veramente infuocata!); e soprattutto Silvia ha tenuto una parte del workshop, mettendoci in guardia sull'estrema faciloneria con cui si indicono concorsi letterari online. 
Dall'alto: Rodolfo, Isabella, Gloria e Silvia

Quindi, vi daremo prospettive molto diverse, soprattutto se aggiungiamo che Isabella è studentessa lì a Tor Vergata e Rodolfo ha avuto e ha tuttora esperienze lavorative nell'editoria. E poi io e Silvia siamo veterane di LibrInnovando, mentre Isabella e Rodolfo sono qui per la prima volta. Per questo abbiamo pensato di raccontarvi le giornate a modo nostro e in giorni diversi, per mantenere un po' di suspense e per rifletterci con calma. 
Se nel frattempo volete una cronaca minuta, attenta e curatissima, dopo uno sguardo al programma, andate a leggere lo Storify di LibrInnovando, e vi sembrerà di esserci stati! 

Da mercoledì 2 maggio passate a leggere i nostri commenti, giudizi ecc. ecc.!
Intanto... Voi siete stati a LibrInnovando? Avete seguito la diretta grazie a Rai Letteratura? O il live tweet?

Gloria

Alla "Fabbrica di Carta" 2012 si parla di editoria digitale



Dal 19 aprile al 1 maggio ha avuto luogo a Villadossola la XV edizione de La Fabbrica di Carta, salone del libro organizzato dalla Provincia del Verbano Cusio Ossola in collaborazione con autori ed editori locali.
Di particolare interesse un convegno per ricordare il rapporto tra la Val d'Ossola e il professor Gianfranco Contini nel centesimo anniversario della sua nascita e le presentazioni degli ebook di Mnamon Editore; "piatto forte" della manifestazione però è stato un incontro-dibattito dal titolo Libri stampati o digitali: realtà in conflitto? Ma andiamo con ordine.

Gianfranco Contini (1912-1990) è unanimemente riconosciuto come uno dei più grandi filologi europei. Nacque a Domodossola, ove trascorse infanzia e giovinezza e ritornò a vivere i suoi ultimi anni. Era quindi impensabile non tributare un omaggio a questo ossolano illustre (vista anche la latitanza delle istituzioni).
Un Contini particolarmente ossolano quindi, narrato da chi ha avuto il privilegio di conoscerlo e di scambiare con lui una corrispondenza preziosissima: nelle lettere personali rese pubbliche dai relatori vi è tutta la fantasia, l’ironia, la capacità dialettica continiana ben nota a chi ha letto gli scambi epistolari fra il Nostro e Carlo Emilio Gadda.

Mnamon è un nome già noto ai lettori di Critica Letteraria, che possono leggere l'intervista al suo fondatore Gilberto Salvi per la rubrica "Editori in Ascolto" a questo link. Questa casa editrice, in attività dal 2010, è specializzata in ebook e accoglie scrittori emergenti che altrimenti faticherebbero a trovare spazio presso i grandi editori, e difficilmente potrebbero sostenere i costi di una pubblicazione su formato tradizionale. Altra particolarità di Mnamon è la presenza di una sezione dalla quale è possibile scaricare gratuitamente diverse opere.

Giorgio Bàrberi Squarotti poeta: "L'azzurro della speranza"


L'azzurro della speranza
di Giorgio Bàrberi Squarotti

Samuele Editore (Scilla), 2012




Per una sintetica web-introduzione alla poetica di Giorgio Bàrberi Squarotti

«Io non/ vedo nulla, vecchia anima talpa che così poco scava dentro di sé, e/ preferisce le voci d'altri i libri d'altri i cataloghi degli archivi» – scriveva così Giorgio Bàrberi Squarotti in Tre soli anni, una poesia del 1974, pubblicata nella silloge La quarta triade (Milano, 2000).
E c'è tutta una dichiarazione di poetica in questi pochi versi, c'è il segno di un orientamento.
La vista è il senso cruciale per comprendere a fondo la poesia di Squarotti, la vista più che la voce, la «voce/ vuota nell'ombra di un cespuglio debole» (Le vane nevi, Verona, 2002).
Seguiamo, potremmo dire, attraverso tutto il percorso poetico, il dipanarsi di un'intricatissima sfiducia nella voce, nella Parola – o meglio nel «vero/ mondo da sempre, povero di esistere,/ incapace di udire la parola,/ cieco, fra i fiori solari, il tremare/ delle acque illimpidite, la purezza/ dei corpi intatti che la luce accendono».
Ecco, questi corpi di luce, che si mostrano alla vista, sono il fuoco dell'obbiettivo poetico di Squarotti, sono le epifanie che salvano la voce dal farsi grido. Testimoniano allo stesso tempo una «vacanza e l'attesa o la nostalgia di un pieno» – così Franco Pappalardo La Rosa nella sua prefazione a Le Langhe e i sogni (2003) descrive l'universo di Squarotti «da cui traspare una concezione dominata dall'angoscia del sospetto che l'essere, la realtà, la storia non abbiano significato», per questo «egli usa la scrittura poetica per dare – o per ridare – un senso all'universo».

Questi corpi di luce sono le testimonianze che Squarotti cerca, di un Essere che sta al di là della Realtà, eppure la compenetra: «I punti di riferimento dell'io sono la sua intrinseca assenza, il suo tentativo di esistere al di là delle pure emozioni, della pura contemplazione di qualcosa che vibra nella luce e che, dissolvendosi rapidamente, ci illude della continuità del nostro essere nel tempo».
Siamo di fronte a una poetica dello sguardo – per usare un'idea di Antonio Prete che scrive nel Trattato della lontananza qualcosa a cui ho subito pensato rileggendo i versi di Squarotti: «cercare nel visibile una sorta di complicità, o persino di protezione […] un movimento dello sguardo che porta sul limite del pensiero: sulla soglia, cioè, dove il pensiero si libera da sé stesso»; e così il poeta approfondisce le sue «rifrazioni interiori», per trascenderle.
Questi versi «si strutturano in una dimensione che vuole ignorare l'io e il tempo, il mondo esterno e il divenire della Storia» – così scrive Ennio Bispuri (Direttore dell'Istituto italiano di Barcellona) su «l'eterno presente» nella poesia di Squarotti. Ed è un eterno presente che si fa carne in un altro ossimoro, sinestetico: «corpi intatti che la luce accendono», corpi di luce.

Giorgio Bàrberi Squarotti
«Il centro della poetica di Bàrberi Squarotti, il nucleo più profondo e più nascosto della sua Poesia sembra essere dunque questo contrasto, questo confronto e questo collegamento costante fra un Essere senza tempo, seducente e ammaliatore, che, lasciandosi contemplare solo attraverso singoli frammenti, appare incontaminato della sua fissità, e un Divenire», un universo inferiore – per usare un'espressione di Sant'Agostino – impossibile da cogliere nella sua interezza. «Forse per questo – continua Bispuri – l'insistenza esplicita su continue folgorazioni rende esplicita la poesia di Bàrberi Squarotti, che obbedisce senza eccezioni al metabolismo emozionale dell'attenzione verso ciò che di più lo seduce: l'immagine della donna giovane e bella. Si potrebbero citare decine e decine di versi, più o meno costruiti sul tema proustiano delle jeunes filles en fleur».
Ma non mi pare essere la dimensione umorale, metabolica del corpo a interessare Squarotti. Scrive Nerval in Sylvie: «La donna reale rivoltava la nostra ingenuità. Bisognava ch'ella apparisse come una regina o una dea e, soprattutto, che non la si potesse avvicinare».
Più che donne reali, dunque, sono – come per Nerval – figlie del fuoco le donne di Squarotti. Sono apparizioni in cui s'incontra il Terreno e il Divino.
Tilopa (mahasiddha indiano del Buddhismo Vajrayana, 928 – 1009) scrive: «Qual è questa realtà che trascende le forme eppure le compenetra?».

Le filles di Squarotti oscillano sempre fra il celeste e il terrestre (da Trionfi d’inverno«è la ragazza che si è spogliata/ tra gli arbusti e i fiori ancora accesi», «la ragazzina sola, nella luce/ verde di arance acerbe e di limoni», «la ragazza con l’ombelico nudo,/ in corsa sulla riva dell’aurora», «…la ragazza apparve agile/ nello sciame del buio, uscendo fuori/ dal fiume di luce che eterno scorre», «… una ragazza fresca/ davanti alla facciata d’ombra della chiesa»; da Le vane nevi«e la ragazza che volò nell’aria/ per sbaglio…» «come l’amore/ che mi resta, sognato nel ricordo/ della ragazza quasi nuda…»,  «il vestito leggero e luminoso/ della ragazza…», «l’alta ragazza bruna, nel meriggio/ d’agosto incerto fra ansia e afa, annoiata/ e pigra contemplava dalla via/ eterna di Alba il silenzio dubbioso», «…una ragazza dolce si era seduta su una panca, aveva/ strettissimo il vestito, nuda l’anima/ abbronzata più d’ogni altra ora vera»).

Sono anche Ragazze che personificano Miti e simboli. E anche il Mito Squarotti ha in comune con Nerval: «il Mito costruito ai margini del vuoto» – come scrive Bispuri. Il Mito che è congegno di lettura, espressione e organizzazione della Realtà. Il Mito che è ponte mistico fra l'Idea e il Fenomeno e, di questa opposizione, esprime tutto il contrasto, il dolore, la tragedia: «Lo spettacolo/ ambiguo: orrore, ansia,/ sospensione e anche accelerato tempo,/ attesa e invocazione e volti astratti,/ ed echi d'echi e infinitamente/ ripetuti, […] le esplosioni che qui e in ogni altro luogo/ distruggono e reinnalzano le case:/ il sapiente sa che tutto è verità,/ e alle spalle è l’inganno, invece, il sogno,/ l'illusione felice, li vorrebbe/ contemplare e poi scrivere e descrivere,/ e invece piange, senza fine piange» (Platone, 2002).
Dunque la poesia di Bàrberi Squarotti possiamo intenderla come «il racconto dei propri sogni e dei propri miti, che si accendono e si esauriscono nel puro atto contemplativo» (Bispuri).
In Squarotti, «visivo di razza», troviamo una contemplazione attivissima, un velocissimo e frenetico esercizio spirituale che prende forma in un verso agilissimo, in una coscienza sempre desta, «nel bagliore, nello scatto ellittico, nell'ebbrezza di un costrutto verbale, d'una frase, o nell'eleganza di un'immagine, di una visione, di una visività catturate dall'occhio fisico, o dalle mente o dalla fantasia» (Franco Pappalardo La Rosa, dalla prefazione a Le Langhe e i sogni)

Squarotti riprende in questo la dimensione mistica della poesia di Leopardi, in una coraggiosa circospezione del «nulla/ così limpido che più non è la mente stessa di Dio» (La quarta triade): un'indagine nel finito dell'esistenza, nel suo drama, nella sua angoscia.
Scrive Leopardi: «La cagione di questi sentimenti, è quell'infinito che contiene in se stesso l'idea di una cosa terminata, cioè al di là di cui non v'è più nulla; di una cosa terminata per sempre, e che non tornerà mai più» (Zibaldone, 10 dicembre 1821).
Scrive Giuseppe Savoca in Leopardi, profilo e studi: «si tratta di un nulla religioso, al limite la “nada” dei mistici spagnoli e anche il “nulla” che sarà di Turoldo […] Siamo di fronte alla narrazione di un'esperienza di innalzamento, di sogno e di estasi […] anche per la cascata di congiunzioni “e” che segnano la sintassi». Una congiunzione, una “e” spirituale presente anche in tutta la poetica di Squarotti ma che, nei suoi ultimi approdi – potremmo dire –, dialoga con una disgiunzione: la “e” accumulatoria, si alterna a una mistica “o” , che distingue senza dividere, che traccia le distanze semantiche senza acuire le opposizioni, una “o” che percorre coordinate trasversali.


L'azzurro della speranza, di Giorgio Bàrberi Squarotti (Samuele Editore, 2012).

«C'era un fragore non si sa se d'ira/ o festa , e grida o canti, applausi o furie ,/ per il viale lunghissimo che porta alla fine del mondo (o forse era/ l'inizio, oh non si capiva bene, tanto confuso era il cammino e storto, […] c’erano troppi vecchi e troppi giovani/ afoni per esasperate voci/ o più probabilmente perché vuota/ è ormai la parola, spenta, esaurita)./ Soltanto due ragazze, finalmente […] si erano abbracciate e si baciavano/ nel pieno ardore e senza fine: emblemi» – così Squarotti apre L'azzurro della speranza, con questa splendida meditazione che rinnova, purificate, tutte le istanze della sua poetica.

Queste poesie, tutte composte dal 2003 al 2010, compongono una breve ma intensa cosmogonia quotidiana che miscela efficacemente toni diaristici con realtà mitiche e surreali («-Ti giuro, era l'autunno, un po' nebbiose/ le colline, mi allontanai appena/ nel boschetto, ma folto ancora e acceso dall'oro delle foglie, e d'improvviso/ vidi in un breve spiazzo d'erba il satiro/ che mi guardava»; «Barbara […] lì nuda, dritta/, enigmatica un poco e sorridente/ per il trionfo certo, come quello/ di Diana sulle dèe fotografate/ al mare, sulla conchiglia, in cima/ a Diano o al Citerone, in discoteca»).

Non mancano riflessioni socio-politiche – evento insolito nella poesia di Squarotti – dai toni amari, sarcastici e provocatori. Scrive in Conad, Coop (Roma, 4 marzo 2010): «Ho trentacinque anni e sono ancora/ bella: guardami, bionda, alta, sì forse/ un poco troppo magra, ma pronta, agile [...] (vedi, io sono in grado anche di dire/ parole da poeta per il tuo/ stupore, e poi citare alla rinfusa/ Omero, Dante -no, non quello della/ canzone del torrente di Monforte/ o è un altro nome, forse di Provenza-,/ Giacomo, William, il caro zio Ezra,/ con cui fui tutta una notte a Parigi/ nel candido hotel di Babilonia e Suisse)./ Dico: è il destino baro. Mia sorella,/ che è moglie di un politico e l’amante/ di un operaio giovane dell’Eden,/ dice che è colpa della mia sventata/ pruderie (usa la parola inglese/ per più disprezzo)./ Forse è vero. Faccio/ la commessa del minimercato/ della Piazza Martiri [...]».

Il volumetto si apre con una citazione di Wisława Szymborska, da cui: «Nella prosa può esserci tutto, anche poesia,/ ma nella poesia deve esserci solo poesia».
Subito mi viene in mente un recente articolo di Carlo Carabba dal titolo Meno Sanguineti più Szymborska: liberiamo la poesia (la Lettura, n.17, domenica 11 marzo 2012, qui il testo completo). Carabba denuncia l'autoreferenzialità della poesia contemporanea, e scrive: «[...] La poesia contemporanea aveva abituato il lettore a una perplessità annoiata, cui seguivano scuse infastidite: “Mi dispiace, io la poesia proprio non la capisco”. A un’obiezione del genere Edoardo Sanguineti, sprezzante come suo costume, replicò: “Non mi capiscono? Che studino!”. Bene. Studiare cosa? Verosimilmente dei saggi firmati da esperti che mostrino e dimostrino che Sanguineti è il massimo fra i poeti. Così, secondo la critica post-avanguardista, eliminato il giudizio di gusto mi piace/non mi piace, la possibilità di valutare una poesia segue il possesso di regole rigide e inconfutabili, di competenze iniziatiche, criteri pseudoscientifici e autoreferenziali».
La forte e bella provocazione di Carabba, lì dove può apparire intransigente segnala però una forte mancanza, uno spazio lasciato vuoto da un continuo degrado del lirismo, che ha allontanato la poesia dai lettori, la poesia dalla poesia stessa.
E proprio questo lirismo Squarotti recupera vivacissimo, applicando spiriti antichi a un linguaggio moderno, ma senza scomodare lo sperimentalismo o l'avanguardia. Lo stesso lirismo che Vincenzo Ostuni, nella prefazione all’antologia da lui curata Poeti degli anni Zero (2011), denuncia e abborisce, cavalcando l'onda debolissima di una sperimentazione “post-modern-ica”.
In questo senso la poesia di Squarotti s'innesta in un ampio e attualissimo dibattito, testimoniando lo spirito di un lirismo novecentesco ancora vivo, e che si erge come un alfiere immobile sul disordine della poesia contemporanea.



Mini-sitografia

- Poesie, Giorgio Bàrberi Squarotti di Giovanni Nuscis (lapoesiaelospirito.wordpress.com). Una breve selezione di versi dal 1974 al 2003. Qui
- Le langhe e i sogni (poiein.it). Prefazione di F. Pappalardo La Rosa, e alcune poesie. Qui
- L'eterno presente nella poesia di Giorgio Bàrberi Squarotti di Ennio Bispuri (raco.cat, Quaderni di Italianistica). Qui
- La buona gara (libroitaliano.it). Silloge. Qui
- Una selezione di versi da L'azzurro della speranza (samueleeditore.it). Qui




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Giorgio Bàrberi Squarotti. Nato a Torino il 14 settembre 1929. Dal 1967 al 2002 ha insegnato Letteratura Italiana all’Università di Torino. Ha pubblicato, dopo Astrazione e realtà (Rusconi e Paolazzi, Milano 1960), un gran numero di opere che riguardano figure e tempi della letteratura italiana, da Dante a Marino, Petrarca, Ariosto, Boccaccio, D’Annunzio, Tasso, Sbarbaro, Montale, Pavese e altri contemporanei. É il responsabile scientifico del Grande Dizionario della Lingua Italiana dell’UTET. Ha pubblicato i libri di poesia: La voce roca (Scheiwiller, Milano 1960), La declamazione onesta (Rizzoli, Milano 1965), Finzione e dolore (Il Quindici, Pisa 1970), Laberinto d’amore (Il Proconsolo, Firenze 1973), Notizie della vita (Bastogi, Livorno 1977), Ritratto di intellettuale (Lacaita, Manduria 1978), Il marinaio del Mar Nero e altre poesie (Rebellato, Cittadella 1980), La donna delle Langhe e altri fantasmi (L’arzanà, Torino 1980), Visioni e altro (Piovan, Abano terme 1983), Da Gerico (Guida,Napoli 1984),Dalla bocca della balena (Genesi, Torni 1986), Un altro libro (All’antico mercato Saraceno, Treviso 1988), In un altro regno (Genesi, Torino 1990), La scena del mondo (Genesi, Torino 1994), In vista del porto (Caramanica, Marina di Minturno 1997), Dal fondo del tempio (Genesi, Torino 1999), Il terzo giorno (Pironti, Napoli 1999), Le vane nevi (Bonaccorso, Verona 2002), Trionfi d’inverno (Spirali, Milano 2003), Le Langhe e i sogni (Joker, Novi Ligure 2003), La buona gara (Libroitaliano, Ragusa 2003), La Grazia e le Grazie (Museopossibile, Napoli 2003), Il gioco e il Verbo (Orient Express, Castel Frentano 2005), La storia vera (Zanetto, Montichiari 2006), I doni e la speranza (Anemone Purpurea, Albano 2007).


Pillole d'autore: Herta Muller


Ogni parola conosce il circolo vizioso

Discorso per il conferimento del Nobel, 2009
(Germania e Romania)

Si può dire che proprio gli oggetti più piccoli – tromba, armonica o fazzoletto – uniscono nella vita le cose più disparate. Che gli oggetti compiano moti circolari e che nelle loro deviazioni vi sia qualcosa che obbedisce alla ripetizione, al circolo vizioso, è qualcosa cui si può credere ma che non si può dire. Però ciò che non si riesce a dire, si riesce a scrivere. Perché lo scrivere è un fare muto, un lavoro dalla testa alla mano. La bocca viene scavalcata.

Il suono della parola sa che deve ingannare, perché gli oggetti ingannano con il loro materiale, i sentimenti con i loro gesti. Lì dove l’inganno dei materiali e quello dei gesti confluiscono, si annida il suono della parola con la sua verità ideata. Scrivendo non si può parlare di sicurezza, quanto piuttosto di dicibilità dell’inganno.

A me pare che gli oggetti non conoscano il materiale, i gesti non conoscano i sentimenti e le parole la bocca che parla. Ma per assicurare a noi stessi la nostra esistenza, abbisogniamo di oggetti, gesti e parole. Più parole possiamo prenderci, più siamo liberi. Quando la bocca ci viene proibita, cerchiamo di affermarci tramite i gesti e gli oggetti. Sono difficili da interpretare e rimangono a lungo innocui. Così possono aiutarci a rovesciare l’umiliazione in una dignità, che a sua volta rimane a lungo non sospetta.


"Van Gogh e il viaggio di Gauguin" l'imperdibile mostra a Genova, Palazzo Ducale


“VAN GOGH E IL VIAGGIO DI GAUGUIN” 

dove: Palazzo Ducale, Genova
quando: 12 novembre 2011- 1 maggio 2012


Per pochi giorni ancora sarà possibile visitare nella cornice di Palazzo Ducale a Genova una delle mostre più interessanti della scorsa stagione invernale, partita il 12 novembre e prorogata al primo maggio, che ha attirato un costante numero di visitatori giunti ad ammirare tele e disegni dei grandi maestri internazionali tra Otto e Novecento. Curata da Marco Goldin, l’allestimento comprende 80 opere provenienti da musei di tutto il mondo e collezioni private, capolavori di artisti europei ed americani tra cui Gauguin, Van Gogh, Turner, Monet, Kandinsky, fino a Hopper, Church, Homer e Rothko, opere straordinarie che si trovano qui riunite intorno al tema del viaggio. Filo conduttore della mostra è appunto il motivo del viaggio, che permette allo spettatore di compiere un percorso che abbraccia due continenti, due epoche diverse, numerosi autori e visioni. Un viaggio reale, tra suggestioni di luoghi vicini e lontani, contaminazioni, scoperte, ma anche –ed è questa forse la forza dell’allestimento- un cammino più intimo ed introspettivo che testimonia il percorso artistico dei maestri, l’atmosfera interiore, lo stato d’animo, fino all’approdo alla pittura astratta in cui il viaggio è tutto spirituale. 


Van Gogh è senza dubbio il grande protagonista della mostra, presente con numerose tele, disegni e lettere: il pittore olandese è infatti emblema del viaggio, peregrinazione da un luogo all’altro, incontri e amicizie ma anche viaggio interiore alla scoperta della propria personale voce, nella costante lotta contro i propri tormenti esistenziali. Le tele del maestro si intrecciano alla storia e fungono da guida ideale alla comprensione del tema scelto per la mostra, accostate agli altri capolavori presenti per similitudine o contrasto, e sono appunto due opere di Van Gogh ad aprire e poi chiudere il percorso. La prima ad accogliere il visitatore è la celebre “Un paio di scarpe”, sapientemente collocata al centro della ricostruzione della stanza della casa di Arles in cui il maestro si era trasferito nel 1888 e che per un breve intenso periodo condivise con l’amico Gauguin. Un letto con le coperte scostate, un tavolo, la brocca per lavarsi, una sedia e di fronte al pubblico il dipinto, con quelle vecchie scarpe consumate, emblema di un viaggio concreto da cui partire nella visita. Le opere del maestro olandese accompagnano quindi lo spettatore di sala in sala in un percorso di comprensione dell’evoluzione artistica dell’autore in direzione della caratteristica originalità e libertà nell’uso del colore in senso antinaturalistico, un processo testimoniato da tele celebri, disegni e lettere al fratello Theo tra cui spiccano capolavori come “Covone sotto un cielo nuvoloso” (altra straordinaria conquista della mostra, dopo oltre 40 anni dall’ultima esposizione di questa tela), il “Seminatore”, le “Barche di pescatori sulla spiaggia di Saintes-Maries-de-la-Mer” . Fino al celeberrimo autoritratto al cavalletto che chiude la mostra, sapientemente collocato nella sala in penombra con una suggestiva luce ad illuminare la tela, un dipinto che è simbolo di quel viaggio tutto interiore e spirituale.


Accanto alle numerose testimonianze di Van Gogh, capolavori da tutto il mondo: la natura americana selvaggia e vivida dei paesaggi di Church, testimonianza di un mondo incontaminato in cui il viaggio diventa esplorazione; Turner, le cui tele straordinariamente paiono anticipare il dissolversi della figura verso l’astrattismo novecentesco grazie all’uso evocativo di colore e luce; due meravigliosi Monet collocati in una sala riservata (nella quale è stato anche ricostruito un plastico della villa con giardino in cui il maestro soleva dipingere, luogo che è stato spesso spunto delle sue tele en plein air) in cui il paesaggio e la natura sono protagonisti grazie al colore; il celeberrimo dipinto di Gauguin “Da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo” (foto) considerato il testamento artistico dell’autore esemplare del linguaggio sintetista-simbolista elaborato dal maestro, anch’esso collocato in una sala a sé stante dove occupa un’intera parete con il soffitto decorato in legno ad evocare una capanna, un dipinto che racchiude in sé tutto il periodo thaitiano di Gauguin in quei luoghi che hanno visto nascere alcune delle sue opere più celebri ed originali. Non mancano poi i grandi maestri dell’arte contemporanea internazionale, dall’astrattismo di Kandinskij con colori e forme libere dal figuratismo a suggerire un viaggio tutto spirituale ed intimo; la linearità dei componimenti di Rothko, puro ed essenziale colore steso sulla tela a tutto campo in campiture rettangolari con passaggi tonali estremamente ricchi; ed infine il grande maestro dell’arte contemporanea americana degli anni Cinquanta, Edward Hopper presente alla mostra genovese con la celebre tela “Morning sun” (foto), capace di evocare tutta la tristezza e la solitudine di quella figura femminile solitaria ed assorta seduta sul letto con lo sguardo al mondo fuori dalla finestra. Una mostra imperdibile quindi, dalla quale sarà impossibile non rimanere conquistati grazie alla straordinaria forza evocativa di parole e immagini dei grandi protagonisti del secolo scorso.


CritcaLibera - Dante a Palermo (7)

Dante a Palermo (7)
(Verosimile al 50%)

19. Sarebbe stato comodo se, rientrati nel cunicolo, Dante e io avessimo potuto raggiungere casa con la stessa facilità in cui l’avevamo lasciata. Ma non fu così. Rientrati nell’orifizio, scivolammo al suo interno per parecchio tempo, tanto che il Sommo si addormentò. Poi, finimmo in un campo di lenticchie di una piccola isola del Mediterraneo: Linosa. Perché proprio lì? Rimandammo la questione a data da destinarsi. Adesso, l’obiettivo era ritornare a Palermo. Con il Poeta ci sedemmo a un bar del piccolo centro cittadino, e disegnammo di getto questo schema, per riassumere la situazione:
Φαίνεταί μοι κῆνος ἴσος θέοισιν
ἔμμεν᾽ ὤνηρ, ὄττις ἐνάντιός τοι
ἰσδάνει καὶ πλάσιον ἆδυ φωνεί-
σας ὐπακούει[1]… 

Sulla prima pagina di un quotidiano, poggiato su un tavolino del locale, notammo la foto di una crociera arenata accanto le coste della Toscana. Leggendo la data, capimmo che eravamo stati via dal mondo per circa tre settimane, o forse di più. Mi ero perso la farsa dell’inizio di un nuovo anno e l’anniversario della morte del caro Mohamed Bouazizi[2], Antigone della contemporaneità. Tuttavia, andammo al porto per imbarcarci, pensando alle stranezze temporali, e ritornammo in Sicilia. Dopo una notte passata con la mia mano sulla fronte del Sommo che, colto dalla nausea, sputacchiava dentro un bicchiere di plastica (centrando unicamente le mie scarpe), arrivammo a Porto Empedocle. Poi, salimmo su un autobus in direzione Palermo. Facendo i conti, impiegammo meno tempo per recarci nel mondo della cultura, calandoci da un orifizio, che per compiere duecento chilometri con mezzi di trasporto tradizionali. Perché? Da alcuni giorni una protesta, avanzata da un movimento detto dei “Forconi”, aveva immobilizzato l’isola: distributori a secco, pochissime automobili per le strade, scaffali dei supermercati quasi vuoti. Isteria sociale, pura isteria. Dante disse che se avessero tolto alla gente anche i siti porno, i social network, le promozioni telefoniche dei cellulari (chiamate e messaggi) e le aspirine, sarebbe scoppiata una guerra. Una cosa suonava strana in questa vicenda: nelle settimane successive, i disagi provocati dalla protesta toccarono solamente i poveracci come il Poeta e me, che non riuscivano a trovare frutta e verdura davvero fresca al mercato di Ballarò, o la benzina per il “Sì” ai distributori. I veri destinatari della protesta, infatti, mangiavano al ristorante e guidavano le berline[3], come sempre. Il Sommo aggiunse ai miei dubbi: «Secondo me, la crisi è una scappatoia, ma non capisco che tipo di scappatoia. Sì, secondo me qualcuno sta tentando di convincerci che la crisi sia necessaria. Quando qualcosa appare necessario, ci si rassegna. E da rassegnati siamo molto deboli. Ma rassegnandoci, facciamo il gioco di chi tenta di convincerci che la crisi sia necessaria e crediamo in tutto quello che ci dicono. Se facciamo il loro gioco, allora ci lasciamo manovrare. E se ci lasciamo manovrare…». E se ci lasciamo manovrare? Lo incitai, ma non rispondeva. Un’altra domanda si trovava nella mia mente priva di risposta: ma Fulippu Ogghiu Friutu che fine aveva fatto?

Guida alla Beat Generation. Kerouac e il rinascimento interrotto

Guida alla Beat Generation. 
Kerouac e il rinascimento interrotto

di Emanuele Bevilacqua

Cooper, 2007
euro 9,00

“Noi abbiamo creato il cambiamento senza versare una goccia di sangue. […] Siamo molto più liberi adesso, siamo più tolleranti verso comportamenti sessuali e stili di vita ʹdiversi' e questo in parte è dovuto anche all’apertura mentale della Beat Generation”.
(Gregory Corso)

Basta scorrere l’indice di Guida alla Beat Generation di Emanuele Bevilacqua per entusiasmarsi e appassionarsi alla folle vita dei Beat. L’autore non solo presenta al lettore Jack Kerouac e compagni, ma lo informa sui loro gusti letterari e musicali (“Lo scaffale di Kerouac”; “Dj Jack”; “Beat & Jazz”; “Beat ‘n’ Rock”), ci sono schede con gli itinerari percorsi in On the Road e con le migliori citazioni, i film legati alla Beat ( Gioventù bruciata ed Easy Rider), apparati bibliografici per ogni autore, “calendari” con le ricorrenze beat da ricordare. Insomma, tutto quello che serve per lasciarsi coinvolgere.
La stagione della Beat Generation è breve ma segnata da drammatici eventi che fanno da sfondo. Il gruppo, infatti, si forma alla fine del secondo conflitto mondiale quando gli orrori appena passati ritornano con gli esperimenti atomici nell’atollo di Bikini, la guerra di Corea e del Vietnam, l’assassinio di Kennedy e di Martin Luther King senza contare la costante minaccia della guerra fredda.
I nomi principali sono i grandi amici Jack Kerouac e Neal Cassady , Gregory Corso, poeta e autore di Bomb (graficamente riproduce un fungo atomico), William Burroughs, sperimentatore con il cut-up già in uso tra i dadaisti, e Allen Ginsberg, l’autore del celebre Howl (1956), il poema censurato per oscenità e il suo editore, Lawrence Ferlinghetti, processato. Quest’ultimo contribuisce a pubblicare le opere dei Beat: nel 1953 a San Francisco apre la libreria City Lights, un omaggio al film di Charlie Chaplin, che diventa un punto di ritrovo fra i Beat e i loro sostenitori (in foto la proposta grafica di Ferlinghetti a Bomb di Gregory Corso).

Sebastiano Aglieco: il sacro, la poesia e la realtà (cronaca poetica 2003-2009)


Cercherò in questa sede di comporre una cronaca della poetica di Sebastiano Aglieco dal 2003 al 2009, attraverso le tre raccolte – se così possiamo dire – della maturità. Tralascio in questa sede l'analisi della sua poesia giovanile (Minime, 1985) e il “blocco” delle raccolte anteriori al 2003 (Grandi frammenti 1995, Le colonne d'Ercole 1996, La tua voce 1997).
Mi preme puntualizzare che    poiché le date di composizione delle poesie non corrispondono esattamente agli anni appena precedenti la pubblicazione delle raccolte  il percorso che ho tracciato non è cronologico. Un simile lavoro avrebbe richiesto maggiore studio, tempo e attenzione.
Tuttavia, la coerenza tematica delle raccolte permette una distinzione, non già di periodi, ma di momenti poetici. Dunque questo tentativo d'analisi non ha altra ambizione che una comparazione tipologica.
Le raccolte sono state recensite in ordine di pubblicazione (rispettivamente nel 2003, 2006 e 2009) in considerazione del fatto che, in queste date, quantomeno, è avvenuto un lavoro di revisione e riorganizzazione.






 Giornata (La vita felice 2003).  Le date di composizione vanno dal 1995 al 1998.

Prima indagine per il commissario Arrigoni: "Il giallo di via Tadino" di Dario Crapanzano

Il giallo di via Tadino
di Dario Crapanzano
Fratelli Frilli Editore
pp. 165

"Il 2 marzo 1950, giovedì, alle ore 19.50 circa, tutto era tranquillo, nella vecchia casa milanese di ringhiera di via Tadino 17/a, a Porta Venezia." (5)

Il giallo di via Tadino (Fratelli Frilli Editore, 2011) si apre sulla scena del crimine, una donna sembra essersi buttata dal ballatoio del quarto piano della palazzina nella quale viveva. Il corpo viene visto per primo dal tabaccaio, "scomposto in modo innaturale, disteso sui ciottoli tondi bagnati dalla pioggia" (6). Tutto farebbe pensare a un suicidio, ma il commissario di Pubblica Sicurezza Mario Arrigoni non è convinto e decide di indagare, andando a scavare nel passato di Clara Bernacchi, la vittima, e nelle abitudini di una "porta" della vecchia Milano.
Protagonista assoluto è Mario Arrigoni, a capo del commissariato di Porta Venezia e uomo dal sapore antico che si muove a piedi o in tram in una città che dovrà ancora aspettare un decennio prima di vedere la metropolitana.
Il commissario Arrigoni è un milanese doc, non bellissimo, sposato con una donna di una decina d'anni più giovane che lo adora e con una figlia, Claudia, che frequenta la quinta elementare della scuola Trotter. La vicenda si svolge tra Piazza Durante, poco a nord di Loreto, e via Tadino, strada parallela di Corso Buenos Aires, nella parte più popolare del quartiere di Porta Venezia, dove un tempo sorgeva il Lazaretto narrato ne I promessi sposi. L'autore, Dario Crapanzano, non si fa sfuggire l'occasione per ricordare al suo lettore che quelle strade custodiscono la storia della Milano manzoniana; particolarmente suggestiva è l'incursione di Arrigoni in Corso Buenos Aires 1 dove è ancora possibile ammirare un vecchio colonnato del Lazzaretto e i medaglioni che ritraggono i 12 personaggi principali de I promessi sposi.

L'indagine procede secondo lo schema classico del poliziesco:

Le cose importanti non sono mai urgenti: Cometa e bugie di Marco Valenti

Cometa e bugie
di Marco Valenti
ebook

"Il passaggio di Hale Bopp, nella primavera dell'anno millenovecentonovantasette, fu comunque un evento di fine millennio. Ci fu chi mentì sapendo di mentire e chi pensò di dire la verità. Chi iniziò e chi finì. Ci fu chi restò e chi andò via.... Tre bugie. ...Per colpa della cometa del marzo millenovecentonovantasette. Le cose con cui fare i conti sono quelle importanti. Le cose importanti non sono mai urgenti. Ed è vero, come è vero, quel che è vero. Quando ci arrivi e ci fai i conti, fino in fondo, ci può anche stare che ti fai male."

In queste poche righe riportate sulla quarta di copertina di Cometa e bugie, l'autore Marco Valenti offre uno spunto per comprendere il titolo di un romanzo breve “Della cometa del 1997 e di alcuni fatti che ne seguirono la scia” il cui fulcro sono gli errori del cuore.

CriticARTe - Domenico Scialla e le sensazioni elettroniche



Via i pennelli, la tela e la tavolozza. Via anche i classici concetti. I dipinti di Domenico Scialla amano ciò che sta oltre le definizioni. Scialla ascolta quello che vuole esprimere chiudendosi in se stesso, e se potesse fare a meno della mano, disegnerebbe direttamente con le sensazioni. La sua formazione viene dalla strada, dai viaggi compiuti per il mondo, dalla gente con cui intrattiene relazioni. E il suo modo di comporre: «è qualcosa di istintivo, che viene totalmente dall’anima -dice-. È una traduzione, su carta, di ciò che trovo in me stesso. Quando avverto dentro di me una gran voglia di creare, chiudo gli occhi. E sentendo quel “magma” di suoni, immagini e sensazioni, la mia mano inizia a muovere un pennarello su un foglio di carta, o il mouse su una tela elettronica del computer. Da quel risultato rudimentale, sempre riascoltando le sensazioni, passo a dare più corpo e colore alle forme. Spesso rivedo proprio quei colori nella mia mente, altre volte do a quelle sensazioni un colore ben preciso. Ed è sorprendente vedere certi risultati. Per me, creare è come un gioco. È divertimento, fluidità e armonia. Non ci deve essere alcuno sforzo, alcun impegno per farlo». E infatti, le tre tele elettroniche intitolate “Forest”, “Lettera a Catullo” e “Sifoide” ci portano l’immaginazione alla pittura fatta da tratti carichi di estrema libertà: «Avendo gli occhi chiusi e osservando con gli occhi dell’anima una realtà diversa da quella reale, che si avvicina più ad una realtà onirica, mi viene quasi automatico tracciare, sempre rigorosamente alla cieca, dei segni e delle forme che la descrivano. E poi, al computer, ingrandendo all’estremo le parti piccole volta per volta, coloro le varie zone con dei colori che mi ricordano quelli delle scene vissute nel buio della mente, o che si accendono in base a una sensazione. Osservando il tutto, se sento una sensazione di armonia su tutta l’opera, o almeno su una parte di essa, capisco di aver raggiunto lo scopo e di aver completato il file elettronico. In questo caso, mi ritengo pronto per inviarlo in laboratorio e farlo stampare, su tela o carta speciale, concretizzando l’opera (prevedo una sola copia su tela e una tiratura limitata su carta)».

Diddi il lupo vegetariano... e il ritorno delle favole

Diddi il lupo vegetariano…e altre storie
di Sandra Strufaldi 
illustrazioni Simona Strufaldi
HBI Edizioni

C’era una volta…
Questa è la storia…
Incipit immutati da secoli. Esopo, Perrault, i Grimm, La Fontaine, tutti i grandi favolisti della storia hanno aperto le danze con queste semplici parole.
Sandra Strufaldi ci porta in un mondo di lupi vegetariani, gatti che sognano orizzonti lontani e girasoli anticonformisti che non vogliono essere “come-tutti-gli-altri” ed essere obbligati a guardare il sole. Le principesse sono perfettine e vagamente ansiogene e le bambini scoprono che la vita in montagna è sicuramente meglio di quella caotica in città.
Questo mondo colorato è ancor meglio reso dagli splendidi disegni che accompagnano le parole.

Pillole di autore - Tra i diari di Julien Green

I DIARI DI JULIEN GREEN

“Chi scoprisse questo diario si farebbe di me un’idea molto inesatta, poiché in esso non parlo altro che della mia vita esteriore; di quanto accade in me e che è in contraddizione assoluta con la mia vita esteriore, non riesco a parlare, o ne parlo malissimo”,
dichiara Julien Green in una nota del 1936 al suo diario, probabilmente sbagliando nel valutarlo o nel valutare la capacità critica del lettore.
Scrittore franco-americano nato a Parigi, all’alba del secolo scorso, e morto nella stessa città nel 1998, da genitori statunitensi, trascorse una vita ricca e di successo. Prima volontario durante la prima guerra mondiale, dal 1919 al 1922 si trasferì negli Stati Uniti e frequentò l’università della Virginia. Il suo ritorno in Francia coincise anche con l’inizio della sua carriera di scrittore. Pubblicò allora Mount Cinère, romanzo notato e apprezzato in particolar modo da Georges Bernanos. 
Nel 1940 Green tornò in America e lavorò a New York, per rientrare in quella che considerò sempre la sua patria, pur non avendone la cittadinanza, alla fine della guerra.
Convertitosi al cattolicesimo dal protestantesimo due anni dopo la morte della madre, donna severa e repressiva, lasciò una scia di luce e speranza religiosa in quasi tutti i suoi testi, in particolar modo nei suoi lunghissimi Journal (1926-1990). Nei diari che vanno dal 1928 al 1939 racconta delle proprie letture, dei viaggi in America e in Italia (paese cui si affeziona facilmente e di cui loda le bellezze), dei suoi romanzi, che avanzano lenti; delle passeggiate in città, delle cene a casa degli amici, e dei suoi studi sulla Bibbia. Molte le righe in cui riflette sull’aldilà, sulla morte e sul senso della vita, rimproverandosi comportamenti, ozi e modi di condurre le giornate in cui sembra nascondersi lo sguardo duro e il giudizio insindacabile della madre, pur tanto amata. 
La sua omosessualità, di cui non parla mai esplicitamente (figura costante nei diari è però Robert, un giornalista incontrato nel 1920 con cui ebbe una lunga relazione), venne probabilmente vissuta come una colpa non dichiarata. Le confessioni che Green fa ai suoi lettori, quasi fossero sacerdoti, sono pregne di un umiltà. Egli si mostra sempre più tormentato, col passare degli anni, ma al tempo stesso risoluto a raggiungere quella verità e quel senso di pace e armonia cui anche i suoi passionali personaggi anelavano. E così andò avanti, sino al 1990, chiedendosi se fosse saggio continuare a scrivere un diario o se non fosse meglio e più naturale distruggere tutto e lasciare la memoria agire da sola. Fortunatamente per noi lettori, decise di andare avanti, sparpagliando petali di idee, riflessioni, polemiche di carattere storico-polito o semplici sfoghi personali sul pavimento della letteratura mondiale con uno dei testi più lunghi mai scritti.
Tra i suoi romanzi più importanti ricordiamo invece Adrienne Mesurat (1927), Lèviathan (1928), Le visionnaire (1934), Minuit (1936).

CriticaLibera: Satira vecchia fa buon brodo

E' prassi comune, ieri come oggi, l'utilizzo delle figure retoriche di significato o tropi (in particolare similitudini, metafore, allegorie ecc...) con intento comico, finalizzato all'istituzione di una relazione, una trasposizione di significato, tanto più ardita quanto più esilarante, tra uomini e bestie. Spesso ciò si esplica in una comicità feroce e gratuita, cruda, compiuta, sic et simpliciter, nell'attacco personale. Meno spesso il lavoro del comico sembra tralasciare, almeno apparentemente, la sua vis polemica ed impulsiva, dedicandosi ad una più fine opera di rimandi e citazioni, incasellando metafore e similitudini in un contesto di più ampio respiro. Al giorno d'oggi, in particolare, si è andato via via perdendo quest'ultimo splendido costume colorando perlopiù la satira politica con inchiostri scadenti, legati indissolubilmente al tempo di composizione, tanto più crudi e violenti, tanto più destinati a sbiadirsi già dal giorno dopo. S'immagini - icasticamente - un quadro di Matisse, o di uno qualsiasi del gruppo dei Fauves, trasformarsi, decadere in un acquerello di Monet nel giro di una giornata. Si tratta di quel tipo di invettiva effimera e sterile, tesa a colpire, a vendere piuttosto che ad esprimere, ad istruire. Ed il pubblico subisce, si fa condizionare, s'imbestialisce. Non che non ci siano stati in tempi recenti esempi di tendenza inversa (penso soprattutto a Dario Fo), ma il fronte delle intellighenzie odierne in Italia sembra si faccia scrivere i testi dagli autori di Amici di Maria de Filippi. Ovvero, in parole povere, imperano l'estremizzazione delle forme, la povertà di contenuti, il parler pour parler. Lecito diventa ogni mezzo che possa aumentare le visualizzazioni su Youtube, far scalare il ranking di Google, donare 30 secondi di notorietà. Anche se di cattivo o pessimo gusto. E allora? Non sempre è stato così.

Di quella guerra vissuta in prima linea: Corrado Alvaro al fronte



Vent'anni
di Corrado Alvaro
Giunti, Firenze 1995

con un'introduzione di Enzo Siciliano

1^ edizione: Treves, Milano 1930
2^ edizione: Bompiani, Milano 1953



Erano anch'essi, i soldati, elementi della natura, piante anche loro saltate dalla terra, e marcianti. Non avevano pensieri se non quelli del risveglio, i soliti pensieri indistinti, e insieme la gioia vaga del sole, dell'aria aperta, d'essere vivi e di camminare. Non riuscivano a rappresentarsi il mondo che avevano lasciato se non come un sentimento consueto da cui si fossero staccati, il posto che avevano lasciato nel mondo era vuoto, e loro qui, con un senso di libertà pericolosa, come ragazzi che escono la prima volta soli. Che la strada si svolgesse tranquilla, senza accidenze, che i campi avessero memoria delle opere di ieri, che l'albero stesse ancora come gli alberi che fanno frutto, proprio queste cose suggerivano il pensiero del pericolo. Vedere il nemico, ecco quello che li preoccupava e di cui avevano bisogno. (p. 63)
L'esperienza della Prima Guerra Mondiale è vissuta in prima linea da Corrado Alvaro, che, portata a termine la Scuola militare di Firenze, a vent’anni si arruola nell'esercito come ufficiale-alfiere e per anzianità diventa tenente colonnello. Destinato al 123esimo reggimento di fanteria, Alvaro è costretto a interrompere la sua esperienza in prima linea presso la zona carsica del Monte Sei Busi, in seguito a un ferimento di non poca rilevanza che offende l'avambraccio destro, il braccio sinistro e le mani, che costringe lo scrittore a una lunga degenza a Firenze e poi a un periodo di convalescenza a Chieti.
Le esperienze forti e sconvolgenti della guerra, che permeano di tessere autobiografiche tanta letteratura contemporanea, in Alvaro non si riversano immediatamente nella forma narrativa. Dopo un'esperienza ingenua ma interessante in poesia (Poesie grigio-verdi del 1917 e Poesie del 1921), lo scrittore calabrese si misura con la narrativa di guerra, prima con una serie di racconti brevi (in particolar modo negli anni '30).  
Vent'anni, edito nel 1930 per i tipi di Treves, è il primo e unico romanzo interamente dedicato alla guerra, scritto in un'estate a Positano per chiari e dichiarati intenti testimoniali e documentari, come «ricordo di un altro tempo, che i giovani ignorano e i men giovani ricordano», ovvero è il «ricordo di una civiltà». Ciò non toglie che l'obiettivo civile venga affiancato da quello stilistico: Alvaro, scontento della prosa poco calibrata, riprenderà in mano l'opera per una riedizione (1953), asciugando il testo originario di un centinaio di pagine e intervenendo sensibilmente su personaggi, eventi, meno profondamente sullo stile (ciò non toglie che l'interesse di queste varianti sia tale da essere attualmente oggetto di un mio studio). 

Editori in Ascolto: WePub, editori nativi digitali


Editori in Ascolto
-- intervista a Maria De Toni di WePub--
a cura di Laura Ingallinella 

La vostra realtà è giovane e innovativa: quando è nata WePub? E quali obiettivi hanno accompagnato quest’atto di nascita? 
Abbiamo debuttato alla fine di settembre 2011 con un concorso letterario, WePubYOU. L’obiettivo era trovare opere inedite di narrativa italiana con cui costruire il nostro catalogo (il cuore di WePub è infatti lo scouting diretto online). La data di nascita ufficiale come casa editrice è però il 29 febbraio 2012, quando abbiamo pubblicato i nostri primi due ebook, selezionati tra le opere che hanno partecipato al concorso.

Vedo che il vostro catalogo offre e-book in formato .epub e .mobi, e non file .pdf. Immaginate di dover spiegare il perché a un neofita della lettura digitale: qual è la differenza tra i due? 
In un file .epub il testo è “fluido”: questo significa che si adatta alle dimensioni dello schermo del dispositivo di lettura utilizzato. È possibile aumentarne e ridurne le dimensioni a piacimento e il testo “scorrerà” automaticamente per riempire il display. Il .pdf invece è un formato fisso, strettamente legato al concetto di pagina per la stampa. La sua leggibilità dipende da una serie di impostazioni (dimensioni della pagina, corpo del testo, interlinea) stabilite a priori in fase di impaginazione e non modificabili dal lettore. Per fare un esempio pratico: se volete aumentare il corpo del testo di un .pdf dovete zoomare tutta la pagina. Leggere un .pdf sullo schermo di un ebook reader, in genere di dimensioni abbastanza ridotte, è quindi molto scomodo.

Un’altra esplicita presa di posizione: non applicate DRM (protezione digitale) alle vostre opere in catalogo. Quali sono le ragioni di questa scelta? 
Riteniamo il DRM di Adobe inutile e dannoso. Inutile perché rimuoverlo è cosa da pochi secondi; dannoso perché limita artificialmente la diffusione di un’opera. La pirateria si combatte offrendo prodotti e servizi di qualità a prezzi accessibili, non trattando gli acquirenti come potenziali criminali.

Raccontateci un po’ di voi: com’è composta la redazione? Accettate curricula o collaborazioni d’altro genere? 
La nostra redazione è composta da due redattori fissi e da una rete di collaboratori esterni. Al momento non siamo in cerca di nuovi collaboratori: quando ne avremo bisogno, lo segnaleremo sul nostro sito, su Twitter, Facebook… siamo un editore digitale, faremo anche scouting di collaboratori online!

Per adesso siete all’attivo con due titoli: una valutazione su queste prime esperienze editoriali? 
Siamo molto soddisfatti del lavoro svolto fin qui: lavorare con Valentina e Sergio, i primi autori della “scuderia WePub”, è stata (e continua a essere) un’esperienza molto positiva e stimolante. I nostri ebook hanno avuto un’ottima accoglienza e i numerosi attestati di stima fin qui ricevuti ci fanno capire di avere imboccato la strada giusta.

Avete un sassolino nella scarpa o un piccolo aneddoto da raccontarci sul vostro lavoro? 
Ci colpisce sempre molto ricevere opere che non rispettano il regolamento: abbiamo cercato di creare una procedura facile e snella per inviarci le opere e abbiamo stabilito un regolamento che (ci sembra) rapido da leggere (è diviso in 9 punti) e facile da trovare. Quando riceviamo un’opera che, per esempio, non è accompagnata dalla sinossi, ci viene sempre da pensare che l’autore non abbia tempo di leggere un regolamento brevissimo ma non trovi strano aspettarsi che l’editore dedichi ore alla lettura del suo romanzo… Be’, ecco, non è un bel biglietto da visita!


Una domanda che ci riguarda in prima persona. Che opinioni avete del passaparola informativo tramite lit-blog o siti d’opinione? Qual è il vostro rapporto coi social network? E con la critica letteraria tradizionale? 
Per una realtà come la nostra il passaparola è fondamentale. WePub nasce e vive su web: Internet è casa nostra, i social network sono il nostro principale canale di comunicazione con i lettori e i blog letterari e i siti d’opinione sono vetrine importantissime. Sono canali di comunicazione diretta, ed è questo che ci piace.

Pubblico: quali caratteristiche ha il vostro lettore ideale? 
Il nostro lettore ideale è chiunque non sia prevenuto nei confronti della lettura su supporti digitali.

Un aspirante scrittore può proporvi un manoscritto inedito? Siete interessati a specifici generi letterari? 
Certamente: siamo sempre alla ricerca di voci nuove e originali. Accettiamo esclusivamente opere di narrativa in lingua italiana, senza limiti di genere o lunghezza. E rispondiamo a tutti: inviamo una mail quando cominciamo a leggere l’opera e poi, 3-6 settimane dopo, una seconda mail con l’esito della valutazione.

Un impegno ammirevole. Continuiamo a parlare di proposte editoriali; sul vostro sito web avete una procedura specifica per l’invio dei manoscritti: potreste spiegarla anche ai nostri lettori? 
La procedura per l’invio dei manoscritti è semplicissima: basta registrarsi al sito di WePub e caricare direttamente il file di testo (.doc, .docx, .odt…) tramite il pannello di upload alla pagina "Pubblica con noi".

Qual è il vostro ultimo libro in uscita? Lo consigliereste perché… 
Finora abbiamo pubblicato due ebook: Ultimo orizzonte di Valentina Coscia, un urban fantasy atipico ambientato in una La Spezia post-apocalittica e semisommersa, ed È qui che dobbiamo stare di Sergio Donato, una raccolta di racconti brevi, cinque finestre aperte d’improvviso su vite e desideri ‘normali’. Li consigliamo perché... beh perché sono belle storie, che meritano di essere lette. Ma noi siamo di parte! 

Programmi per il futuro. Avete altri progetti in preparazione? Qualche anticipazione per i nostri lettori! 
Tra i testi che hanno partecipato al concorso WePubYOU abbiamo da poco selezionato il terzo titolo che entrerà a far parte del nostro catalogo e abbiamo in cantiere altre iniziative per allargare ulteriormente i confini della nostra attività. Se volete saperne di più, seguiteci su Twitter e Facebook!

Lo faremo senz'ombra di dubbio! Maria, ti ringrazio per la tua disponibilità e invito ancora i nostri lettori a tenere d'occhio questa giovane casa editrice: sui principali social network - Facebook, Twitter e Tumblr - e, ovviamente, sul loro sito web.

Quello che rimane

Quello che rimane
di Fabio Ognibene

Edizioni Akkuaria, 2012

pp. 120
€ 12,00



È una questione cromatica, altroché. Ci sono libri luminosi e vividi – roba da occhiali da sole, in certi casi – e libri ombrosi e scuri. A volte è facile distinguere, con un po' di attenzione, anche i colori, appunto. Mica soltanto le luci.
Quello che rimane, raccolta di racconti firmati Fabio Ognibene, è bianco opaco, lattiginoso. Bianchissimo. E scritto particolarmente bene, con la grazia di chi scarta tutto quanto è di troppo e centellina le parole collocandole nell'unico posto per loro possibile. Provate a spostarne una e crollerà tutto. Chi ha avuto modo di leggere il precedente Ancora domani (Smasher, 2010) – seguendo, da bravo, il mio consiglio dato a suo tempo su questo sito – noterà certo una maggiore essenzialità. Sintassi sempre più concisa e senza troppi orpelli (del resto l'ultimo racconto, Quello che manca, è dedicato a Foster Wallace... intelligenti pauca, come direbbero forse quelli che Wallace non l'hanno letto mai). Ma non è il caso di indugiare su questioni di forma.

#CritiCOMICS. Introduzione al mondo dei fumetti



A chi non è mai capitato di entrare in una fumetteria e di uscirne in stato confusionale dopo aver visto ingenti quantità di Manga, Comics e Fumetti, senza riuscire a capire le differenze tra l’uno e l’altro, spaesato e incerto al momento di dover scegliere tra questo o quell’albo? Questa rubrica è pensata proprio per introdurvi in questo nuovo orizzonte della letteratura e aiutarvi nella scelta dei vostri Fumetti, Comics e Manga.

§1. Perché parlarne proprio in un sito di Critica Letteraria?


In Italia purtroppo il genere fumettistico è ampiamente sottovalutato, e viene etichettato come “genere per ragazzini”, poco impegnato e totalmente slegato dalla letteratura. I Manga vengono bistrattati e spesso e volentieri guardati con diffidenza, poiché provenienti dalla cultura orientale, così diversa e lontana dalla nostra. I Comics americani vengono puntualmente legati ai vari Capitan America, SpiderMan ed X-Men, e così facendo si tralascia un mondo intero di Graphic Novel: i quali, molto spesso, sono il riadattamento di famosi romanzi che trovano così nuova espressione grazie alla mano esperta di qualche artista.

Forse è a causa della nostra forte tradizione letteraria che i fumetti hanno fatto fatica a conquistare un posto nel cuore dei lettori e per lungo tempo sono stati considerati un genere di serie B; tuttavia non bisogna dimenticare che anche i fumetti hanno dei contenuti e dei testi, i quali a volte riescono a toccare vere e proprie punte di poesia e letterarietà. Sono differenti dai romanzi, ma nella loro diversità trovano in realtà il loro punto di forza: la potenza espressiva dell’immagine. Per tutti questi motivi inizieremo a parlare di Manga, Comics e Fumetti in modo diverso, togliendo loro quel velo di “frivolezza” imposto dalla società, e cercando di analizzarli da un punto di vista critico/letterario.

Come iniziare a muoversi in questo nuovo e colorato mondo? Che differenza c’è tra i Manga e i Comics? Come fare a capire se un Fumetto è adatto ai nostri gusti? Sembra tutto così complicato, ma in realtà non lo è per nulla, basta fissare alcuni capisaldi del genere e tutto ci apparirà immediatamente più chiaro.
Iniziamo appunto a definire Manga, Comics e Fumetti. In Italia viene utilizzato il termine Manga per indicare i fumetti di origine giapponese, con il termine Comics viene invece indicato il fumetto di origine americana, ed infine parliamo di Fumetti riferendoci ai fumetti del nostro paese. Vediamo adesso nello specifico le caratteristiche di questi tre rami della letteratura illustrata.

§2. I manga