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Silvio D’Arzo, «Casa d’altri» e altre assenze

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Silvio D'Arzo (Ezio Comparoni)

I dimenticati
- Silvio D'Arzo - 



Silvio D’Arzo (1920 - 1952), alias Ezio Comparoni, è un personaggio enigmatico nel Novecento italiano: nota è la sua ossessione per l’anonimato. Dalla Premessa di Enzo Turolla a All’insegna del Buon Corsiero (1942; Adelphi 1995):
«Nel carteggio tra Silvio D’Arzo e Emilio Vallecchi, che copre i dieci anni decisivi della breve vita dello scrittore (1941 - 1951), sorprendono l’intransigenza, le asprezze, la totale elusività: quel timore di essere scoperto che lo induceva a nascondersi sotto molteplici pseudonimi e dietro falsi recapiti, quella volontà di sparire. […] a tal punto che la voce dello scrittore sembra uscire da un’ombra lontana: “… figuratevi che nessuno – dico nessuno – sa ch’io scrivo: il mio nome è solo uno pseudonimo… nessuno sa il mio nome, nessuno…”»
Curiosa – non in sé, ma in rapporto al caso D’Arzo – a tal proposito è la postilla che la Adelphi inserisce nel colophon de All’insegna del Buon Corsiero: «L’editore non è riuscito a individuare gli eredi dell’autore, ma si dichiara disponibile a stipulare i necessari accordi per la presente pubblicazione». Pare si parli insomma di un latitante.

D’Arzo è conosciuto soprattutto per Casa d’altri (Einaudi 1980), che Montale definì «racconto perfetto». E in effetti, che sia un racconto perfetto, lo si può dire senza paura di cadere in artifici retorici o esagerazioni critiche. Casa d’altri narra di
un prete sessantenne, disperso fatalisticamente in un piccolo paese emiliano, negli anni – si intuisce – della seconda guerra mondiale, un luogo dove – classicamente – non succede mai nulla. Un giorno però questo piccolo mondo di cera ha una piccola scossa che diventa lentamente per l’uomo, conosciuto anche col giovanile appellativo di Doctor Ironicus, un grande cruccio: Zelinda, vecchietta e vedova che nella sua esistenza altro non fa che lavare panni e budella al fiume, accompagnata da una capra segugia che sembra più viva di lei; Zelinda, dicevamo: il prete è catturato dalla sua evasività, da questa presenza inspiegata:
«Mai una volta alla processione: mai ai Vespri: mai in chiesa.»
Non smette però di sperare che un contatto, non sa neanche lui perché così desiderato,  si stabilirà:
«Prima o poi vengono tutti, da me. […] Dovrà uscir dalla tana anche lei.»
E uscirà dalla tana, per andare nella sua casa e chiedergli:
«È vero o no che anche voi… sì, la Chiesa, ammette che due che si sono sposati possono anche dividersi, e uno è libero poi di sposare chi vuole?»
Doctor Ironicus si irrita:
«Un uomo può arrabbiarsi anche per meno di questo: per molto meno, e io lo so: e lo stesso un povero prete. […] Per giorni e giorni non avevo pensato ad altro che a lei, ero andato ogni sera al canale e ci avevo fatto anche su gran disegni: e adesso ecco qua: tutto quel che ne usciva era una storia da far ridere le stalle per tutto quanto l’inverno.»
Sarà questo un incontro sterile, in seguito al quale Zelinda non tornerà dal prete diventato ostile. Tra i due nasce così un paradossale rapporto di “assenza”, confermando quello di cui Walter Benjamin era sicuro: «Il più alto grado di presenza è l’assenza.» Doctor Ironicus passerà così il tempo a osservare Zelinda da lontano, a fare contabilità di ipotesi su quella strana donna, e lei lo vedrà e lo ignorerà. Del resto, proprio nel campo della fede non si accetta di adorare l’Assente per eccellenza, ossia Dio? E questo rapporto privo di rapporti subirà un’altra piccola scossa quando la perpetua informerà il religioso che Zelinda, dopo qualche giorno, ha recapitato una lettera che è però passata a riprendersi nelle poche ore successive. L’uomo non ci sta, considera quella missiva come oramai sua e la donna gli ha fatto un grande torto sottraendola: ci sarà perciò un ulteriore incontro. La vecchia riuscirà finalmente a presentare al pastore d’anime il dubbio che le rende grave la vita; e egli, stordito, non riuscirà a fare altro che rispondere «così goffamente da provare vergogna di tutte le parole del mondo», parole convenzionali e prive di qualsiasi anima taumaturgica.

È un racconto su solitudini e inadeguatezze (sentirsi in “casa d’altri”) che si legge in un’ora circa, e è dotato di una densità narrativa elevatissima: riesce a farsi cuneo che penetra il lettore in poche pagine, grazie più a silenzi e – appunto – assenze più che a parole e azioni; nel concreto, da un punto di vista narrativamente utilitaristico, succede poco in queste pagine; e quello che succede tra i personaggi in gran parte viene celato, ma il lettore lo capisce istintualmente e lo assorbe molto più in profondità che leggendolo, come del resto succede ogni volta che nel campo dell’emozionale liberiamo l’istinto e blocchiamo la ragione spesso importuna. D’Arzo è uno di quegli scrittori che hanno il dono della maieutica, e il lettore tale dono lo accetta con raro entusiasmo.

Subito, a lettura conclusa, mi sono venuti in mente due libri: uno è contemporaneo, uscito nel 2010: Il primo passo nel bosco, di Alessandro De Roma (Il Maestrale); l’altro è il classico La morte di Ivan Il’ic, di Tolstoj. Come D’Arzo posseggono questa architettura dell’assenza (e non a caso sono libri relativamente brevi): la bravura di rendere gli spazi bianchi tra le righe scritte quasi più comunicativi e incisivi delle parole stesse, il talento di valorizzare esponenzialmente la reductio e la sottrazione; ciò è dovuto a un approccio di assoluta umiltà dello scrittore, rispetto al lettore: poiché sa l’autore che al lettore va comunicato per emozioni, ciò che si vuol dire, e sa anche e soprattutto che il lettore capisce – assorbe – senza bisogno di stucchevoli lezioni. I grandi scrittori possiedono questa indispensabile umiltà naturalmente, non hanno bisogno di pianificare con progetti d’impresa cosa proporre e cosa invece ritrarre. E non può, a questo punto, che coglierci sconforto quando leggiamo invece presuntuosi autori che sentono il bisogno di spiegare tutto quello che in uno scritto succede, quasi che considerassero il lettore un qualsiasi minus habens di passaggio che ha imparato a leggere per caso.
Piero Fadda