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Il Salotto - Intervista a Claudio Morandini

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Un incontro, seppur virtuale, con l'autore è necessario per completare il discorso sulla sua opera. Necessario, ma non sufficiente: la sua voce è destinata a incastrarsi con la vostra, con quella di coloro che hanno avuto la possibilità di entrare in una storia che, vera, verosimile o inventata che sia, mette inevitabilmente a nudo l'identità dello scrittore. Serve un coro di voci, una serie di micro-unità che siano in grado di dar vita alla recensione ultima.

Un'opera letta non è morta, necessita di un commento, di un confronto: non va consumata, va assimilata, fatta propria; che sia di un emergente, di Umberto Eco o Aldo Busi, ha poca importanza. Bisognerà pur lasciare spazio, dare fiducia, a chi potrebbe dare un contributo, seppur minimo, al mondo delle lettere.

L'intervista è uno tra i tanti passi, forse il più interessante: una volta conosciuto il presente e previsto il futuro, spetta all'autore svelare il passato del suo progetto. Rapsodia su un solo tema - Colloqui con Rafail Dvoinikov è frutto della mente di Claudio Morandini, che, raccontando dell'opera, ha inevitabilmente raccontato un po' di se stesso. Questo, il link alla recensione. Seguono le domande. Buona lettura!


1. Come è nata l'idea di dare voce a un personaggio come Rafail Dvoinikov? Ha avuto delle difficoltà nella stesura?
Dentro a Dvoinikov si sente l’eco delle parole, delle musiche e della vita di diversi compositori russi. Non è stato particolarmente difficile immaginare un uomo di genio ora vezzeggiato ora perseguitato, quindi isolato e dimenticato: la storia del Novecento ci ha consegnato, ahimè, numerosi esempi, e non solo nel campo della musica. Dvoinikov in particolare rimanda a figure drammatiche, grandiose anche nella loro ambiguità dinanzi al potere, come Shostakovich (uso per comodità la traslitterazione all’americana, come Prescott…); ma l’idea delle conversazioni mi è venuta molti anni fa nel leggere le trascrizioni dei colloqui tra Robert Craft e Stravinsky, un compositore molto diverso da Dvoinikov per scelte di vita, spirito, stile, ma simile per lo sguardo sul mondo, oltre che per la concezione artigianale e antiromantica del comporre.
In ogni caso, Dvoinikov, per fortuna, si è rivelato una figura potente, irriducibile a uno o più modelli di riferimento, molto – come dire – terragna, molto fisica. Il suo corpo malato e vecchio è davvero una presenza dominante nel romanzo, e sembra trasmettere un senso se non di agonia certo di fine imminente. E la sua musica, che ho provato a immaginare e a commentare sulla falsariga delle pagine di un trattato di musicologia (o meglio di un abbozzo di trattato), ha finito per alimentare la struttura stessa del romanzo: la Rapsodia su un solo tema da singola composizione è diventata non solo il titolo del libro, ma anche l’impianto.

2. Ha voluto lanciare un messaggio ben preciso con Rapsodia? Crede di esserci riuscito?
Non credo che un romanzo sia il luogo più adatto per lanciare messaggi – messaggi chiari, intendo, univoci, teoricamente solidi. Vedo piuttosto il romanzo come l’occasione per suggerire alcuni temi, per girarci attorno, soprattutto per raccontare come i personaggi si sono trovati di fronte a certe questioni sollevate nel corso della storia e comuni anche a noi. Facciamo l’esempio del tema che attraversa tutta la Rapsodia, quello del condizionamento dell’espressione artistica da parte di diverse forme di potere: non mi interessava che il libro entrasse nel merito con il rigore di un saggio (sospetto che non avrei avuto la forza di affrontare scientificamente l’argomento, e poi altri lo hanno già fatto, e bene), ma piuttosto che raccontasse le vite di quei musicisti che, in epoche e contesti storici e culturali diversi, si sono trovati ad affrontare i condizionamenti da parte di un’autorità; soprattutto, mi interessava raccontare la presa di coscienza del giovane americano, Ethan Prescott, la scoperta del fatto che i condizionamenti subiti da lui non sono poi tanto diversi, quanto a obiettivi, da quelli – assai più pressanti e rischiosi, certo – sopportati dal vecchio russo Dvoinikov.
Poi c’è dell’altro, quanto a possibili “messaggi”: per esempio, credo che il romanzo sia caratterizzato da un bisogno pressante di dialogo (la necessità di parlare, parlarsi, confrontarsi, misurarsi in relazione con gli altri); e che insista sulla necessità di trovare un maestro, un punto di riferimento “nobile” a cui ispirarsi, con cui fare i conti.


3. Si è affezionato a qualche personaggio in particolare?
Sì, e senza troppi scrupoli. D’altra parte i miei personaggi li ho visti formarsi e crescere nel corso di anni, li ho sentiti pensare, anzi ho condiviso i loro pensieri, ho immaginato le loro emozioni, mi sono sorpreso dinanzi a certe loro scelte, ho rispettato certi loro silenzi e certe insensatezze. Ho sorriso delle loro debolezze, delle piccole crudeltà che si stavano infliggendo e delle incomprensioni che non riuscivano a dipanare. Talvolta mi sono arrabbiato con loro.
C’è un fondo sentimentale, nel romanzo, da commedia sentimentale, intendo, che è venuto su quasi per conto suo, facendosi strada in mezzo alla componente più propriamente musicale o storica. Bene, mi sono detto, assecondiamo questo aspetto, è piacevole, divertente, commovente anche, irritante talvolta. Quello che ci vuole per far sentire la vita.
A Prescott ho prestato molti miei pensieri in fatto di musica, e quella visione ironica talvolta un po’ spiazzante, rivolta a tutto, anche a ciò che ama. Anche Dvoinikov ha molto del mio modo di vedere le cose, e non solo nei suoi momenti migliori.


4. «Rafail Dvoinikov sorprende: Claudio Morandini, autore di questa Rapsodia, ne fa un ritratto a tutto tondo, dinanzi al quale crollano tutti gli altri personaggi, Ethan Prescott compreso»: è d'accordo? Secondo lei, quale tra i protagonisti, non cede dinanzi a Rafail? Si rivede in qualcuno in particolare?
Mi sembra un’interpretazione convincente. Il vecchio Dvoinikov giganteggia, condiziona le vite di molti che gli sono devoti. È anche l’unico che abbia vissuto lungo l’arco di un secolo intero o quasi, e che abbia provato sulla propria pelle quello che gli altri conoscono soltanto per sentito dire. È un personaggio tragico, a modo suo, e non è un caso che si presenti come una sorta di Tiresia o Edipo. Prescott, in un certo senso, si reca presso di lui in pellegrinaggio, e vuole erigergli un monumento di carta.
Però è anche vero che quello che conosciamo in Rapsodia è il Rafail Dvoinikov ricostruito da Prescott. In questo senso lo sguardo di Prescott sembra prevaricare su ogni altro aspetto – è uno sguardo curioso e ironico, si diceva, sinceramente ammirato, ma anche irrimediabilmente accentratore, se non egocentrico. Si potrebbe sostenere, a questo punto, che il vero protagonista è Ethan Prescott, visto che tutto passa comunque attraverso il filtro del suo sguardo, del suo gusto, della sua “lettura”.

5. Inserire la relazione omosessuale tra Ethan e Carl è stata una scelta oppure una necessità?
Vediamo. Non c’è una ragione particolare alla base dell’omosessualità di Prescott. È gay e basta – un gay turbato e compiaciuto di fronte all’ipotesi di una avventura etero con Polina, l’assistente di Dvoinikov, d’accordo. Che sia gay, funziona anche nel gioco di contrapposizione con il vecchio Dvoinikov, che in gioventù, per propensione personale ma anche per disperazione, ha praticato un dongiovannismo da manuale di libertinaggio.
Ethan e Carl Thalberg formano una coppia unita da una buona dose di complicità, oltre che da amore e condivisione per molte cose. Qualcosa però non gira per il verso giusto nelle loro giornate, si sente aria di incomprensione, si intravede il rischio della routine. Lo stesso Carl ci appare un tantino sopra le righe (come cinquantenne, e soprattutto come musicista jazz vittima di stereotipi, non come gay), ma forse è solo la mania di Ethan di raccontare tutto ciò che gli capita come un frammento di letteratura, anche di cattiva letteratura, a forzare le cose, e a presentare insomma la vita di coppia come qualcosa di insidioso, come un battibecco continuo che sa di sit-com. Carl è migliore di come Ethan lo dipinge: ce ne accorgiamo alla fine, nella postfazione.


6. Le è riuscito facile realizzare gli intrecci che li coinvolgono? Ritiene di aver fatto, in questo senso, un lavoro banale?
Non mi sono posto il racconto della loro omosessualità come un “problema”: non è dramma, non è farsa (per carità), e nemmeno un “intreccio”, a ben pensarci. Raccontare una vita di coppia non è difficile, l’importante è evitare i luoghi comuni più frusti e non ridurre i personaggi a macchiette. Quanto alla banalità, cioè a quella quotidianità che profuma di déjà-vu e che ci vede tutti un po’ simili, bisogna saperla raccontare – in questo, credo di aver fatto un lavoro non banale.
Dietro alla relazione tra Ethan e Carl c’è anche qualche riferimento “colto”. Per esempio, sono sempre rimasto colpito dalla profonda armonia tra Britten e Peter Pears, avvertibile nelle incisioni e nei video. Quell’amore che sfociava in un’intesa musicale perfetta mi aveva convinto che raccontare qualcosa della vita di coppia di Ethan e Carl era una buona idea. Senza contare che i compositori statunitensi a cui bene o male mi sono ispirato per delineare la musica di Prescott vivono in piena serenità le loro inclinazioni. Certo, tra i miei due personaggi l’idillio sembra essere a un punto morto, ma tant’è.


7. Qual è il momento più riuscito della storia?
Mmm, mi vengono in mente subito le pagine dedicate alle composizioni di Dvoinikov, in particolare a quella che dà titolo al romanzo. Sono analisi in cui il linguaggio proprio della musicologia si contamina con uno stile più divulgativo e affascinante. Ethan Prescott, che nella finzione ne è l’autore, ha quella capacità (molto anglosassone, direi) di rendere accessibile la musica, rinunciando a qualche formalismo e ricorrendo a un repertorio suggestivo di immagini.
Però vorrei citare anche le parti in cui incombe la figura di Galavamov, il censore, il “cattivo” – e in cui proliferano i suoi sosia, gli informatori, i funzionari alle sue dipendenze. È stato motivo di inquietudine vederlo imporsi sugli altri prendendo spazio, generando ostacoli, perseguitando… Si tratta davvero di un “doppio” quasi gotico, di una presenza oscura, ma priva di ogni elemento di grandezza: è un livido mediocre dotato di un potere spropositato – ne vado fiero, insomma.
Però, però, vado anche particolarmente fiero del Viaggio musicale nel Secolo Ventesimo del musicista settecentesco Joseph Mathias Mayer. La facilità con cui mi sono venute quelle pagine tra Swift e Bergerac, e il divertimento che mi hanno recato, e che mi ha recato incastrarle con il resto delle vicende del romanzo, hanno del prodigioso. Capita così di rado…

8. Quello che le è piaciuto di meno?
Rispondo prima da autore a questa domanda singolarmente esplicita. Diciamo che ci sono momenti che mi hanno fatto penare di più, pagine sulle quali mi sono tormentato e angosciato perché non “suonavano” giuste. Spero di avere eliminato il problema eliminando quelle pagine, o trasformandole radicalmente – risposta elusiva, lo so.
Se dovessi parlare da lettore, invece, avrei preferito non vedere scomparire Polina in quel modo. Le ultime pagine di Ethan su di lei e le righe di Carl che la concernono sono davvero irritanti. Quella ragazza non si meritava un trattamento simile, dopo tutto quello che ha fatto. Ma non ho potuto farci niente, mi creda – Ethan e Carl, quando ci si mettono, sono davvero insopportabili.

9. Tre pregi e tre difetti di Rapsodia.
I pregi li enuncio come se fossero speranze, auspici:
    a. La leggerezza (l’ho cercata, per bilanciare la “pesantezza” dell’argomento; e, a detta di molti lettori, l’ho raggiunta);
    b. La contaminazione (è un romanzo che finge di essere un saggio; un’opera compiuta che finge di essere lasciata a metà; una commedia che finge di essere un romanzo storico… e potrei continuare);
    c. la coerenza dell’insieme (una coerenza ottenuta paradossalmente attraverso un divagare costante, un procedere per frammenti, e non programmata punto per punto, ma come scoperta alla fine).
Quanto ai difetti, intendo applicare la figura retorica della reticenza. Di fronte a una domanda così gli autori reagiscono in diversi modi: ad esempio, sperano di cavarsela ripetendo come difetti le qualità appena dette; oppure si concedono qualche boutade in cui non credono davvero. Io preferisco rispondere così: il romanzo è di per sé un ibrido che comprende e assimila anche il difetto, l’imperfezione, pure l’errore. Diffido dei romanzi che si presentano come perfetti meccanismi a orologeria, costruzioni impeccabili ma proprio per questo improbabili. Io volevo far sentire la vita, piuttosto, anche nei suoi tempi morti, nelle inerzie, nelle contraddizioni.
Che dopo tutti questi anni di stesura, le letture, le riletture, l’editing, siano rimaste alcune magagne è vero – ma dovete torturarmi, se volete che vi riveli qualcosa di più preciso in proposito.

10. Cosa si aspetta da Rapsodia? Crede di poter conquistare il lettore?
Lo spero. Il lettore va conquistato, in effetti, soprattutto quando si parla di libri che sembrano andare contro ogni moda corrente.
Con Rapsodia su un solo tema volevo innanzitutto condividere un forte interesse per la musica, e scommettere sulla mia capacità di coinvolgere i lettori proprio su un tema così settoriale come la musica colta del Novecento. I primi lettori del romanzo, prima ancora della pubblicazione (mia moglie, gli amici che hanno avuto la pazienza di sottoporsi all’esame del romanzo quando ancora era steso sommariamente), sono stati piuttosto incoraggianti. L’editore Manni per fortuna ha accettato questa scommessa, e ha creduto nella godibilità di Rapsodia.
I lettori successivi hanno confermato: i musicisti si sono divertiti nel riconoscere molti loro tic e hanno apprezzato la competenza; gli ignari di musica hanno retto piuttosto bene fino alla fine.

11. Che progetti ha per il futuro? È già al lavoro con qualche altro scritto?
Ho cominciato a scrivere Rapsodia su un solo tema nel 2005, quando ancora stavo dietro a Le larve – è stato un sollievo, un grande sollievo, mi creda, risalire in superficie e stare un po’ al sole. Questo per dire che sì, sto portando avanti più progetti contemporaneamente – alcuni sono in lettura, vediamo che succede. Romanzi, sempre, molto diversi – amo la forma del romanzo, c’è ancora molto da lavorare lì dentro, c’è ancora tanto da dire, da mostrare e da nascondere. Ma ho preso gusto anche con i racconti, che vivo con sollievo, come piccole vacanze dalle fatiche delle forme più ampie (so che chi scrive racconti non dovrebbe esprimersi in questi termini, ma pazienza).

12. Che consiglio darebbe a un emergente? Cosa non dovrebbe mai mancare in un libro, quali potrebbero essere gli errori più gravi?
Non mi sentirei di dare dei consigli, perché anch’io ho ancora molto da scoprire, e perché la categoria dell’autore emergente è molto flou, e temo, per certi versi, di esserci ancora dentro. Ma stiamo al gioco:
   a. Staccarsi da se stessi, evitare l’autobiografia, difficilissima da gestire (solo i grandi sanno fare della propria vita un soggetto universale, meglio farsi le ossa con altro);
    b. Evitare le mode, e coltivare sempre un’idea di pubblico “alta”; soprattutto, non pensare in termini cinematografici, o peggio televisivi: la letteratura è altro dal cinema, e dal mio punto di vista è decisamente meglio;
    c. Leggere i grandi autori e non smettere di imparare; porsi nella condizione dell’allievo (un po’ alla Prescott); non avere fretta; non smettere di mettersi in discussione;
    d. Imparare a togliere, a sottrarre; allo stesso tempo, non rinunciare alla ricchezza della lingua.
Tutto questo non farà di un emergente un autore di successo, ma almeno lo renderà un rispettabile autore di nicchia. Accettare le osservazioni altrui è fondamentale: scrivere è anche un esercizio di umiltà. È tutt’altro che un atto solitario; se si vuole pubblicare (cioè condividere, attraverso la pubblicazione, qualcosa che si ha a cuore), soprattutto quando la materia è vasta e intricata come quella di un romanzo, i consigli e le critiche sono essenziali, anche se non sono mai indolori.

13. Perché un lettore dovrebbe comprare Rapsodia?
Credo che sia un romanzo che ripaga, in termini di interesse, divertimento, conoscenza, della pazienza che richiede in certe pagine. Bisogna stare al gioco, semplicemente.


Intervista di Michele Rainone a Claudio Morandini