El Divàn del Tamarit


Divàn del Tamarit
di Federico Garcìa Lorca

Dall’ Ermetismo onirico di Gòngora, al Surrealismo freudiano di Breton, dal linguaggio delle corride, all’algebra intellettuale che mette a paragone realtà ideale ed empirica nella poesia arabo- andalusa dell’ XI secolo, il “Divàn del Tamarit”, canzoniere della Huerta de San Vicente, Granada, nasceva nell’ immaginario di Federico Garcìa Lorca dall’ idea di un Eden in terra, di un “ombelico del mondo”, che per i moriscos era già la città dell’ Alhambra dei racconti di W. Irving, e che per il poeta si compendia nell’ immagine del ciliegio fiorito nella bufera invernale.
Il canzoniere è composto di gacelas e casidas, componimenti rispettivamente della Persia del XIII secolo e dell’ Arabia pagana che esprimono, tramite un oggetto emblematico o il descrittivismo fenomenologico, la cristallizzazione di un sentimento. Ma l’ elemento innovativo sta nel fatto che qui Lorca fa tralucere i fantasmi personali dagli elementi tradizionali e folcloristici come raggi attraverso una cortina oscura, fissandoli poi in simulacri atavici, riconducibili alla filosofia delle forme simboliche di Cassirer o all’ inconscio collettivo di Jung. E ciò solo dopo un’ esplosione di pathos: dal “grito” al “planctus” come forme parossistiche del pianto (“llanto”). Il canto solipsistico peculiare dell’Andalusismo, è accompagnato dallo stillicidio delle lacrime come un flamenco gitano potrebbe esserlo da nacchere e chitarra:

Hay muy pocos àngeles que canten,
hay muy pocos perros que ladren,
mil violines caben en la palma de mi mano.

Pero el llanto es un perro inmenso,
el llanto es un àngel inmenso,
el llanto es un violìn inmenso,
las lagrimas amordazan al viento,
no se oye otra cosa que el llanto
.” *

La teoria della tortura- amore di M. Proust è alla base del rapporto con la donna nella narrazione di un disagio intermittente, derivante da un’ oscura forza di attrazione e repulsione, dalla trasgressione dell’ ethos patriarcale sostenitore di un “machismo” e una misoginia propri di varie società agrarie.
Le immagini che fanno trapelare la paura della castrazione nel relazionarsi alla donna fallica, il cui emblema è la Gorgone, sono anche legate all’ idea della morte simboleggiata dalla luna o “muchacha dorada” dagli attributi boomorfi, dall’ acqua e dalle piante acquatiche come alghe e giunchi. L’ identificazione del poeta con un bambino perso in alto mare è segno della volontà di un “regressus ad uterum”, di ristabilimento della condizione prenatale. Al tempo stesso la figura di un secondo bambino affogato fa pensare a “Un amor” di L. Cernuda in cui l’ io lirico si incarna spesso in un annegato. Può sembrare una contraddizione ma è tipicamente spagnolo affermare la morte mentre si cerca la vita. Si tratta della formula del “vivir desviviendo” di cui si appropriò anche Sciascia per definire la visione siciliana dell’ esistenza.
Altre figure sono riprese dalla simbologia ctonica indo- iranica (formiche, scorpioni); dal paganesimo greco- romano (il nocchiero che traghetta le anime e che qui è una sentinella posta a guardia dell’ ingresso alla Luna, creduta dai popoli preellenistici il regno dei morti); dalla mitologia zoroastriana o manichea (la lotta tra Ahriman e Mithra, tra Tenebre e Luce). L’ anelito di Lorca alla “resurrectio carnis” è tradotta nei richiami al mito di Dioniso o a quello egizio di Osiride- Apis ucciso del fratello Seth… la lotta per la sopravvivenza si traduce in quella del sole, incarnato da un toro, ucciso al tramonto nell’ arena del cielo dalle tenebre (il torero) sicchè la metafora ci autorizza a pensare alle stelle come a “banderillas”:

Flor de jazmìn y toro degollado.
[…]
Y el toro es un sangriento crepùsculo que brama.
[…]
Los jazmines tendrìan mitad de noche oscura,
y el toro circo azul sin lidiadores
”.**

Il “Divàn” di Lorca fonde figure archetipiche con incubi degni della pittura di Goya… L’ allucinazione però è forse il metodo associativo più immediato nel contesto di quello che si configura come un “neo- pindarismo” tutto novecentesco.


* “Pochissimi angeli che cantano,/ pochissimi cani che latrano,/ mille violini stanno nel palmo della mia mano./ Ma il pianto è un cane immenso,/ il pianto è un angelo immenso,/ il pianto è un violino immenso,/ le lacrime imbavagliano il vento,/ non si sente nient’ altro che pianto.”

** “Fiore di gelsomino e toro decollato./ E il toro è un insanguinato crepuscolo che brama./ I gelsomini avrebbero una metà della notte oscura / e il toro un’ arena azzurra senza combattenti.”

Appunti su "Se una notte d'inverno un viaggiatore" (prima parte)

Italo Calvino,
Se una notte d'inverno un viaggiatore
Mondadori, 1979

Per la recensione di Gloria M. Ghioni, clicca qui.

Italo Calvino scrive Se una notte d’inverno un viaggiatore nel 1979. Sono passati sei anni dalla pubblicazione del suo ultimo romanzo (Il castello dei destini incrociati, 1973), e in questo intervallo di tempo lo scrittore ha avuto l’occasione di confrontarsi, sul suolo francese, con lo strutturalismo, la semiologia, e soprattutto con gli esponenti di punta dell’Oulipo, l’Ouvroir de littérature potentielle.
L’idea che la libertà narrativa potesse realizzarsi solo a patto di plasmare il “romanzesco” secondo vincoli stabiliti in partenza (conferendo, in sostanza, alla letteratura l’inoppugnabilità della matematica, unica scienza esatta), non poteva che trovare un terreno fertile in una sensibilità artistica interessata sin dai suoi esordi al meccanismo della finzione. In particolare: alla possibilità di dominare la finzione; attraverso questo, la possibilità di dominare il reale. Resta da dimostrare se Se una notte d’inverno un viaggiatore confermi che queste possibilità sono realizzabili o se, al contrario, la scienza esatta non è altro che geometria al servizio del caos.

Ciò che per prima cosa colpisce, nel Viaggiatore, è che questo sia il romanzo del “tu”. Se nel romanzo classico il narratore si rivolge a una schiera infinita di lettori potenziali, Calvino rivoluziona tutto identificando con inequivocabile chiarezza un singolo Lettore, “tu” che verrà investito del ruolo di protagonista. Non si tratta, però, di un riconoscimento alla libertà del Lettore, che da passivo voyeur della finzione narrativa si fa attore “dentro” quella finzione: a ben vedere, la nuova condizione del Lettore è ben più vincolata dalla precedente. Egli si ritrova, innanzitutto, stretto in un’identità inequivocabile: egli incarna il lettore medio, “occasionale ed eclettico” (sono parole dell’autore). Come tutti i personaggi del romanzo, è definito dal suo rapporto col libro. Il Lettore ricerca nella lettura una rassicurazione sull’ordine del mondo; il libro contiene dentro di sé un universo comprensibile, dominabile, e per il semplice fatto che le storie che contiene hanno un inizio e una fine, sono conchiuse nell’oggetto-libro come uno scrigno che ne assicura l’esistenza.
Calvino, con la leggerezza ironica e straniante che gli è propria, tende sistematicamente a sfaldare questa sicurezza. L’espediente è ricavato dalla fusione magistrale dei suoi Libri, le Mille e una notte e l’Orlando Furioso.

Il Lettore – e insieme a lui la Lettrice (“entrata fin dal Secondo Capitolo come Terza Persona necessaria perché il romanzo sia un ro­manzo, perché tra quella Seconda Persona maschile e la Terza femminile qualcosa avvenga, prenda forma, s’af­fermi o si guasti seguendo le fasi delle vicende umane”) – sono coinvolti in una misteriosa serie di sfortunati eventi che non permettono loro di concludere i dieci romanzi che iniziano a leggere. Si innesca così il meccanismo, tutto ariostesco, della quête che spinge i personaggi alla ricerca di oggetti carichi di valore simbolico, e che obbliga il Lettore e la Lettrice ad esplorare tutti i luoghi della cultura. A cominciare dalla libreria, per continuare con lo studio di un professore universitario, passando poi per un gruppo di lettura “impegnato”, l’ufficio di un redattore presso una casa editrice; virando poi verso la casa della Lettrice, e ancora nel rifugio di un prolifico scrittore entrato in crisi; terminando negli antri del complotto della mistificazione letteraria, infine in una biblioteca.
Queste ricerche sono avventurose come quelle dei paladini di Ludovico Ariosto; sono altrettanto multiformi e centrifughe. L’oggetto della ricerca cambia, è sempre un libro diverso: così come Ferraù si distrae dalla ricerca del suo elmo dopo aver visto Angelica, il Lettore vorrebbe leggere il seguito di romanzi sempre differenti l’uno dall’altro. È molto importante sottolineare il fatto che questa ricerca è vana e infruttuosa, come tanto spesso avviene nell’Orlando Furioso: l’Oggetto non viene recuperato, e il personaggio-lettore è frustrato nella ricerca dell’unico strumento capace di assicurargli la possibilità di ordine nel mondo.
Non per questo, però, il romanzo ha una struttura aperta, un finale indefinito nella sconfitta. Con ammiccamento ironico (ma non troppo), il settimo lettore incontrato nella biblioteca dice al nostro Lettore: “Lei crede che ogni storia debba avere un principio e una fine? Anticamente un racconto aveva solo due modi per finire: passate tutte le prove, l’eroe e l’eroina si sposavano oppure morivano. Il senso ultimo a cui rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità della vita, l’inevitabilità della morte”. E i due protagonisti, Lettore e Lettrice, quel “voi” che si è venuto a creare pagina dopo pagina, effettivamente nell’ultimo capitolo appaiono sposati: una virata fondamentale verso la “continuità della vita” nonostante i due abbiano attraversato le torbide acque della mistificazione, della storia che non conclude e della vana ricerca.

L’ironia del finale stempera la consapevolezza che tutto è caos incontrollabile, così come la geometria studiata del racconto “a cornice”, tratta stavolta dalle Mille e una notte. Il libro è chiamato in causa piuttosto scopertamente, con la citazione di un racconto che sembra racchiudere il senso del Viaggiatore:
“Il Califfo Harùn ar-Rashìd – così comincia la storia che, vista la tua curiosità, egli acconsente a raccontare, - una notte, in preda all’insonnia, si traveste da mercante ed esce per le strade di Bagdad. Una barca lo trasporta per la corrente del Tigri fino al cancello d’un giardino. Sull’orlo d’una vasca una donna bella come la luna canta accompagnandosi con un liuto. Una schiava fa entrare Harùn nel palazzo e gli fa indossare un mantello color zafferano. La donna che cantava nel giardino è seduta su una poltrona d’argento. Sui cuscini intorno a lei stanno sette uomini avvolti in mantelli color zafferano. ‘Mancavi tu solo, - dice la donna, - sei in ritardo’, e l’invita a sedersi su un cuscino al suo fianco. ‘Nobili signori, avete giurato d’obbedirmi ciecamente, e ora è giunto il momento di mettervi alla prova’, e la donna si toglie dal collo un vezzo di perle. ‘Questa collana ha sette perle bianche e una nera. Ora ne spezzerò il filo e lascerò cadere le perle in una coppa d’onice. Chi tirerà a sorte la perla nera dovrà uccidere il Califfo Harùn ar-Rashìd e portarmi la sua testa. Per ricompensa gli offrirò me stessa. Ma se rifiuterà d’uccidere il califfo, sarà ucciso dagli altri sette, che ripeteranno il sorteggio della perla nera’. Con un brivido Harùn ar-Rashìd apre la mano, vede la perla nera e, rivolgendosi alla donna: ‘Obbedirò agli ordini della sorte e tuoi, a patto che tu mi racconti quale offesa del Califfo ha scatenato il tuo odio’, chiede, ansioso di ascoltare il racconto.”
Si tratta di un racconto incompleto: come quelli di Se una notte d’inverno un viaggiatore, ma anche come quelli delle Mille e una notte, dove Sheherazade per aver salva la vita interrompe le sue storie al sorgere dell’alba. Gli elementi strutturali (il termine non è casuale) ci sono tutti. Per cominciare, l’uomo (il Lettore) che intraprende un percorso guidato dal fascino di un personaggio femminile; questo personaggio femminile assume diverse identità: ma è sempre sfuggente, da rincorrere, come una chiave con cui aprire il mondo. Non a caso, l’atto sessuale, trattato da Calvino con giocosa disinvoltura, è chiaramente identificato con un ennesimo e più completo atto di lettura: il Lettore e la Lettrice si leggono a vicenda, ognuno “è letto” dall’altro: “Lettrice, ora sei letta. Il tuo corpo viene sottoposto a una lettura sistematica, attraverso canali d’informazione tattili, visivi, dell’olfatto, e non senza interventi delle papille gustative. Anche l’udito ha la sua parte, attento ai suoi ansiti e ai tuoi trilli. (…) E anche tu intanto sei oggetto di lettura, o Lettore: la Lettrice ora passa in rassegna il tuo corpo come scorrendo l’indice dei capitoli.”
Tornando al racconto delle Mille e una notte: “le parole con cui la narrazione s’interrompe ti sembra esprimano bene lo spirito delle Mille e una notte. Ma “chiede, ansioso di ascoltare il racconto” esprime altrettanto bene lo spirito del Viaggiatore: cos’altro incarnano il Lettore e la Lettrice, se non l’ansia del lettore medio, la voglia innocente di “vedere come va a finire”? “L’oggetto della lettura che è al centro del mio romanzo non è tanto ‘il letterario’ quanto ‘il romanzesco’, cioè una procedura letteraria determinata – propria della narrativa popolare e di consumo ma variamente adottata dalla letteratura colta – che si basa in primo luogo sulla capacità di costringere l’attenzione su un intreccio nella continua attesa di ciò che sta per avvenire. (…) L’aver fatto dell’interruzione dell’intreccio un motivo strutturale del mio libro ha questo senso preciso e circoscritto.” (Calvino, Se una notte d’inverno un narratore, 1979).
L’ansia del Califfo e il desiderio insoddisfatto del Lettore coincidono: si tratta dell’urgenza, più che umana, di ricevere risposte alle loro domande sul mondo.

Presto la seconda e ultima parte!

Parole nel Tempo



Anche Critica Letteraria sarà al Castello di Belgioioso, oggi e domani dalle 10.00 alle 20.00! Come ogni anno, i piccoli editori saranno in mostra con le loro proposte editoriali, presentazioni di autori emergenti o di interessanti uscite saggistiche.
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La gratuità di un dono: la poesia del “Diario postumo”

Diario Postumo, Eugenio Montale
Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1995
ed. a cura di Annalisa Cima

In un saggio del ’51 dal titolo Quelli che restano, poi incluso in Auto da Fè, Eugenio Montale sottolineava (ironicamente, ma non troppo) che il poeta morto gode di un importante vantaggio rispetto al poeta vivo: le sue opere sono, infatti, affidate completamente all’esercizio esegetico dei lettori; non potranno più esser chiesti chiarimenti o glosse al suo enigma poetico.
Tale destino, di orgogliosa e sorniona libertà, è toccato all’ottava e ultima raccolta del poeta ligure: il Diario Postumo. Già il titolo ci informa della sua natura diaristica, e del particolarissimo destino di dono poetico post-mortem progettato sin nei minimi dettagli dal suo autore.
Le 66 poesie (scritte su foglietti colorati di carta di riso, su buste usate o sul retro di cartoline) furono distribuite in 11 buste sigillate nel 1979, e affidate alla Fondazione Schlesinger con il compito di pubblicarle a poco a poco, dopo la sua morte, con scadenza annuale. Le indicazioni del poeta furono seguite alla lettera: e dal 1986 cominciarono ad comparire sugli scaffali delle librerie plaquettes contenenti Poesie inedite di Eugenio Montale, con l’inevitabile sorpresa di ritrovarsi di fronte a un Montale, ancora una volta, diverso. Le poesie del Diario Postumo, infatti, si inseriscono sulla scia dell’ultima produzione montaliana, volta alla conquista di una colloquialità intessuta di sempre più scarnificato, satirico nichilismo; ma da questa scia si discostano, nella ripresa disinvolta di modi e temi della prima produzione, ma soprattutto nel superamento, in barlumi, di quel nichilismo che avremmo detto la cifra poetica più evidente di Montale:

In giorni come questi, spesso
la tetraggine m'assale
e il vivere d'ora in ora

mi tortura. Ma arrivi tu

che sconfiggi la noia

coi tuoi discorsi variopinti.
Anche oggi cercheremo una breccia.

Una parola che ci possa salvare

e che ci tenga in bilico

sul confine ideale tra realtà

e fantasia potrà, anche

se per poco, cangiare l'esistenza.


A differenza dell’ormai antica In limine (“Se procedi t’imbatti/ tu forse nel fantasma che ti salva … Cerca una maglia rotta nella rete che ti stringe, tu balza fuori, fuggi!”) la salvazione non è possibile solo per l’Altro, ma anche per il poeta.
Il destinatario di questo componimento è la poetessa Annalisa Cima (ritratta in foto con il poeta), dedicataria dell’intera raccolta; all’interno di questa, almeno 34 componimenti sono proprio pensati per lei, che occupa il posto, impegnativo e rinnovato, di ultimo visiting angel della produzione montaliana. Annalisa è “anima viva”, “imperatrice”, “agile messaggero”, “guerriero”, “smarrito adolescente”, “animatrice di parole”: vagheggiata come figlia e riconosciuta come sensibilità poetica affine. Accanto a lei, e alle epigrammatiche riflessioni filosofiche, si trovano poi gustosissimi ritratti di amici e personalità di grande spessore intellettuale che in quegli anni ruotavano intorno al Poeta: tra questi, Andrea Zanzotto, Cesare Segre di cui ci lascia uno splendido bozzetto balneare ne Il filologo:

Con calze bianche e berretto di tela
ecco che giunge, in veste estiva,

il nostro maestro di filologia.

E se la luce tende a sfuocare

quel suo alone di mistero, egli
lo difende con lenti affumicate.

Così celato, sembra voler scrutare

il futuro ignoto a tutti.

I suoi gesti,esitanti, nascondono
paure,
rivelano il timore
dell’oscuro male dell’universo.


Il componimento prosegue con l’apparizione salvifica dell’angelo, Annalisa, mentre i due intellettuali, il filologo e il poeta, restano “entrambi in ammirazione / mentre il sole rinnova l’incanto / rigeneratore che ferma il tempo”.
E tale potrebbe essere, forse, una bella definizione per tutto il Diario Postumo; un incanto che ferma il tempo: che, in piccole, affettuose istantanee, cattura l’amica-figlia Annalisa nell’entusiasmo poetico dei suoi trent’anni; che, con la rabbia del poeta che si sente ormai “etichettato” (così scriveva a Dante Isella nel 1969), scaglia le ultime invettive contro i “mini-professori” e gli invidiosi; e che, infine, lancia un ultimo sguardo alla vita in una prospettiva ad posteritatem. “Il significato del suo piano prestabilito è forse un desiderio di eternità, di un futuro da opporre all’approssimarsi della morte. Da vecchi non si può vivere solo di memorie, Montale voleva ‘una morte che vive’; e la cercò attraverso una lente arbitraria, per poter mettere a fuoco le ombre usò una fotografia rovesciata, per dare al dopo il sapore del presente. (…) È questo il suo ultimo atto d’amore alle verso le persone a lui care.” (Annalisa Cima)

Laura Ingallinella

Progetti divini ed ostacoli umani


Il muro

Jean-Paul Sartre

pp.186




Nel 1939, un anno dopo "La nausea" e quattro anni prima de "L'essere ed il nulla" che consacrerà l'autore francese alla storia della filosofia, viene pubblicato da Sartre un libricino di cinque racconti, "Il muro". Si tratta di un modo, parafrasando Vico e la sua età mitica del verso, di esporre in prosa narrativa concetti che rientreranno in una più approfondita speculazione filosofica in seguito. La forma del racconto, nella sua economia di pagine, privilegia una fine dialettica di pensieri e riflessioni scansando eccessivi orpelli decorativi ed obbedendo ad un preciso progetto di chiarezza. Una dialettica onnipresente, nella contrapposizione di ciascuno dei singoli personaggi di una storia tra di loro e con i coinquilini delle pagine seguenti; in un confronto alla pari tra i due sessi (Simone de Beauvoir vi aleggia) nella perenne ricerca di una possibile alternativa, concretizzatasi in un percorso ricco di vicoli ciechi e spalle messe al muro: da queste ultime situazioni, risolte in una maniera o nell'altra, si voglia leggere l'allusione del titolo. Ad interrompere il dialogo, il movimento dialettico di cui prima, interviene un motivo od un altro che tenta di costringere ed incanalare l'individuo in una direzione ben precisa. L'uomo è un essere che progetta di essere dio e che strada facendo si rende conto dell'ineludibilità di rimanere sempre un dio-fallito, il preludio alle concezioni de "L'essere ed il nulla".
Ed allora il muro, con cui le tipologie umane delineate da Sartre si confrontano in uno scontro impari (quasi come un'ideologia e la sua realizzazione), prende forma morbida o spigolosa, liscia o ruvida, a seconda dei casi. Può essere tutto comandato da un gioco ironico del caso, come nel racconto che dà il titolo alla raccolta, nel quale rivelare il nascondiglio di Ramòn Gris potrebbe salvare al protagonista la vita: la sfasatura tra ciò che egli pensa e ciò che succede in seguito insaporisce la parsimonia stilistica.
Andando avanti ci si imbatterà ne "La camera", vivace opposizione di due generazioni, due coppie antitetiche accomunate dalla malattia di un membro e dalla sua costrizione tra le quattro mura d'una camera. A simposio quindi andranno da una parte una formalità fredda, condita da un perfetto razionalismo e una sofferenza repressa e rateizzata ad ogni ricongiungimento coniugale, dall'altra la perfetta follia dell'amore iterata fino all'ipotesi, quasi sublime, dell'omicidio.
Il delitto di sangue fa da sfondo ad "Erostrato", tanto preoccupato di passare alla storia, più nel male che nel bene, da non riuscire a metabolizzare la propria natura umana e non compiere l'ultimo passo verso l'immortalità, ossia il suicidio.
Un amore libero, poi, da implicazioni sessuali fa da sfondo ad "Intimità", dove il condizionamento dei conoscenti non arriva a portare a termine il cambiamento, la metabolè tanto agognata dalla frigida Lulù per poi essere rinnegata dal gioco degli affetti nel letto del marito impotente.
Ultimo, lungo una settantina di pagine senza interruzioni di alcun tipo, si profila "Infanzia di un capo", un Bildungsroman in miniatura. Il sostantivo infanzia ingloba l'adolescenza del futuro capo, erede della fabbrica paterna ed alle prese con le esperienze più disparate (tra cui droga, pederastia ed antisemitismo), nell'ottica della preponderanza del tragitto percorso sulla meta.
La raccolta offre così un'interessante dissertazione sociale e psicologica, rasentando la perizia psicanalitica, a lambire le congetture con cui l'uomo si difende in un certo senso dal cielo aperto, alla luce artificiale del suo mondo, al chiuso delle sue relazioni; alla scoperta di quei temi che caratterizzeranno l'intero XX secolo.

Adriano Morea

Il 63° Premio Strega tra i muri di un orfanotrofio veneziano settecentesco




Stabat Mater
Di Tiziano Scarpa
Torino, Einaudi, 2008

pp. 144
€ 17.00

Stabat Mater doloròsa” sono le prime parole di una preghiera medievale, attribuita a Jacopone da Todi, dedicata alla Madonna sofferente per il Figlio in croce. Stessa solennità e dolore che vengono ripresi dal libro di Tiziano Scarpa, in cui l’invocazione alla “Signora Madre” apre le lettere che la protagonista, Cecilia, indirizza dall’Ospitale veneziano alla madre sconosciuta e assente. «Ma sono lettere, queste?», s’interroga la stessa Cecilia, «A me sembrano un abbraccio che si sporge alla finestra su un cortile vuoto, sono calci e pugni dati alla cieca, per aria, in solitudine» (p. 43). In effetti, più che vere missive, sulle scale buie dell’orfanotrofio Cecilia salva brevi lacerti di riflessioni, interrogativi, accuse verso quella madre che l’ha abbandonata dopo la sua nascita:
«Avete ceduto all’amore o al capriccio, povera Signora Madre? O forse è stato l’assalto di un uomo violento. Non illudetevi, non basta questo a perdonarvi, non basterà mai nulla» (p. 20).
Nonostante questo comprensibile odio, Cecilia continua visceralmente a sperare che la madre, pentita, torni a cercarla, per poi cedere di continuo al dato di fatto, crudele, di essere lì rinchiusa.
Come compagnia, di tanto in tanto la Morte, personificata, instilla dubbi e apre veri e propri dialoghi, che interrompono la scrittura di Cecilia. Contrariamente alla visione tradizionale, la Morte non conserva nulla dell’iconografia spaventosa e terribile: al contrario, è una compagna a volte silenziosa, a volte beffarda, a volte invocata, ma mai vissuta da Cecilia, che sceglie di rimandare il vero incontro. La Morte dichiara, piuttosto, di essere l’unica vera madre di Cecilia, l’unica che non l’abbandonerà mai veramente, colei a cui fin dalla nascita ognuno è affidato. Ma forse, se Cecilia decide di non accettare quell’abbraccio fatale, è per la passione per la musica, che coltiva dalla sua infanzia: nell’Ospitale, le più talentuose suonano e cantano. Sul violino, lungo le corde, Cecilia trova la pace e placa le voci che la scuotono di notte, specialmente da quando all’Ospitale giunge il nuovo compositore, don Antonio, che altri non è che il celeberrimo Vivaldi.
Pur commettendo deliberati anacronismi (che lo scrittore confessa in una nota alla fine del libro), nell’Ospitale Vivaldi compone alcune tra le sue più famose opere, tra cui le Quattro stagioni. E Cecilia è la violinista preferita, colei che può interpretare tanto bene da suscitare anche l’invidia del grande musicista. Solo da questa esperienza, Cecilia potrà affrontare la sua vita, liberandosi dai fantasmi, o, forse, rincorrendoli.

Stilisticamente asciutto, interrotto di continuo, ripreso in modo talvolta ossessivo per l'iterazione di formule, il libro si inserisce bene nella vena narrativa contemporanea, immaginosa e a tratti quasi surrealista (si vedano ad esempio le prime pagine), tra visione, fantasia e realtà. La trama, di per sé accattivante, è disgregata in paragrafi brevissimi, mescolati, ma non disordinati. Anzi, sembrano rispettare il capriccio dell’autore che, di tanto in tanto, introduce riflessioni slegate dal contesto, talvolta di carattere sentenzioso, spesso esistenziali.

Interessante e molto personale è la scelta di inserire in coda all’opera la già citata nota autoriale, in cui Tiziano Scarpa cita da sé le fonti su cui s’è basato per il suo lavoro, la musica e autodenuncia le possibili obiezioni critiche al testo: una premura tanto accurata quanto sospetta.
Vincitore del Premio Strega, Stabat Mater è un libro degno di lettura, non una grande opera letteraria, ma senza dubbio parole ben costruite.

GMG

Qualcuno con cui correre

Qualcuno con cui correre
di David Grossman
Milano, Mondadori, 2002


Pubblicato nel 2002, si tratta di uno dei romanzi di maggiore successo dello scrittore israeliano David Grossman, che sceglie la sua Gerusalemme per raccontare una storia che ha per protagonisti degli adolescenti, e che sa, senza essere mai banale, toccare tematiche universali quali la crescita dei giovani, l’amicizia e l’amore, il rapporto genitori – figli, il flagello della droga nel mondo contemporaneo e, ancora, l’arte, le passioni, i sogni. La protagonista indiscussa della storia è la cagna Dinka, sorta di “filo rosso” che porterà i personaggi a trovarsi, scoprirsi ed unirsi. È accanto a lei che il timido Assaf si lancia in una folle corsa per le vie di una città brulicante e viva. La sua è una ricerca in divenire: non sa esattamente cosa o chi stia cercando, ma Dinka lo porta progressivamente a scoprire, tramite l’incontro con i più vari personaggi, l’esistenza di Tamar, una ragazza dal carattere forte e deciso che sta cercando un modo per salvare il fratello tossicodipendente e per portarlo via dall’inferno della “Casa degli artisti” di Pessah, il quale, in realtà, sfrutta dei giovani artisticamente dotati e lontani da casa. Senza sapere come, Assaf inizia ad indagare la vita di Tamar, a scoprirne i segreti più nascosti, correndo anche dei pericoli ed entrando in contatto con un mondo di malaffare, droga e violenza, senza con questo mai dubitare di voler “continuare a correre”. Travolto da un qualcosa di inizialmente estraneo a lui, il giovane sente di essere sempre più coinvolto in tutto ciò, di avvertirne il bisogno: Tamar lo cattura ancor prima di averla conosciuta. La ricerca e la conoscenza della ragazza diventeranno un modo per trovare e scoprire se stesso. I due personaggi principali, dotati di una rara sensibilità e di grande capacità di osservazione, rappresentano, secondo me, la lotta e la resistenza a un mondo che può terribilmente schiacciare e cancellare ed è proprio nei momenti di maggiore fragilità che appaiono più che mai forti e coraggiosi. Tamar ha una forza interiore che le permette di offrire tutta se stessa al fratello Shay, anche a costo di sacrificare le proprie aspirazioni e di affrontare un arduo percorso di crescita, rischiando costantemente. Assaf ,invece, ha il coraggio di proseguire la sua ricerca fino in fondo, animato dalla voglia di “correre” per qualcuno e con qualcuno. In due modi diversi cresceranno, non si lasceranno vincere dall’indifferenza o dalla rassegnazione e scopriranno nell’altro quello che mancava loro prima di questa avventura.

Grossman è abile nel descrivere il degrado in cui molti giovani vivono, afflitti da dipendenza, miseria, solitudine e distanza dagli affetti (Shay, Tamar, Shelley sono prima di tutto emotivamente distanti dalle proprie famiglie che hanno preferito chiudersi nel silenzio piuttosto che cercare di salvarli) e i luoghi in cui li fa muovere rispecchiano profondamente la loro condizione interiore.
Ma accanto a tutto questo l’autore ci offre esempi di vero amore, devozione, sacrificio: la forte Leah che sa essere vicina a Tamar con piccoli e grandi gesti, la suora Theodora che per salvare i due giovani affronta coraggiosamente il mondo esterno dopo aver trascorso la vita chiusa in una torre e, soprattutto, Dinka che sa comunicare con gli uomini molto più di quanto loro spesso riescano a fare.
Ma c’è ancora un altro “personaggio” essenziale: la Musica. Questa si fa correlativo oggettivo all’interno della vicenda, rispecchiando prima di tutto le condizioni emotive dei giovani artisti di strada e l’autore ha una capacità non comune: quella di restituircela pienamente tramite le parole.
La costruzione del romanzo rimanda al caos che è la realtà e per questo Grossman intreccia i fili della vicenda presentandocela in modo non lineare e sovrapponendo continuamente i piani temporali. Sta al lettore mettere assieme i pezzi del mosaico e ricostruire il tortuoso percorso che i personaggi hanno compiuto. Nonostante la scrittura dell’autore israeliano appaia limpida e oggettiva, non si mantiene mai al livello superficiale, ma si fa espressione delle paure e delle emozioni più profonde, innanzitutto perché reali. Proprio questo (oltre che la storia avvincente) contribuisce a rendere molto godibile il romanzo. L’impressione che ho avuto subito dopo la lettura è che si tratti di una fiaba contemporanea: Assaf come un principe-guerriero deve salvare la principessa in pericolo e lo fa grazie ad alcuni aiutanti (primo fra tutti il cane) e lottando contro degli antagonisti, o ancora che si tratti di un moderno romanzo di formazione che non interessa solo i giovani che come Tamar e Assaf affrontano ogni giorno problemi immensamente più grandi di loro, ma tutti coloro che faticosamente maturano in un mondo in cui crescere realmente è sempre più complesso, provando sulla propria pelle quanto sia difficile relazionarsi con delle famiglie e con delle società cieche di fronte ai loro bisogni, sorde di fronte alle loro richieste di aiuto.

Quella che Grossman racconta è però, anche e soprattutto, una storia a lieto fine, che si conclude con il ritorno a casa di un figlio che riabbraccia i genitori e con un dolce sguardo fra due giovani che non hanno bisogno di parole (“ Quasi non parlarono. Tamar pensò che non aveva mai incontrato nessuno con cui si sentiva tanto bene tacendo”). Due immagini che da sole riescono a restituire il messaggio del romanzo nella sua interezza: cioè che alla fine sono i legami più veri a salvarci dalla dissoluzione e che non è mai troppo tardi per cominciare a correre se hai qualcuno accanto.

Claudia Consoli

Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia



Candido. Ovvero un sogno fatto in Sicilia
di Leonardo Sciascia
Adelphi, Milano 1990
134 pp.

1^ edizione: 1977


Come ricorda Montesquieu “un’ opera originale ne fa quasi sempre nascere cinque o seicento altre”… ed ecco che, dal “Candide” di Voltaire, L. Sciascia ricava come un corollario dalla dimostrazione della relativa tesi, il suo “Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia”.
Certo, gli stimoli sono plurimi ed i rimandi intertestuali rivelano echi stendhaliani oltre che un’ impostazione da “conte philosophique” e allusioni a Dostoevskij, Hugo, ( “I Miserabili”), ed a Bonnefoy nella ripresa esplicita del titolo della sua opera, “Un sogno fatto a Mantova”.
Il Candido è un libro che nella semplicità della lingua e del mezzo espressivo cerca di contenere una complessità traboccante di contenuti e che, in tanta pienezza di fatti, vorrebbe sintetizzare la storia italiana dallo sbarco americano sulle coste siciliane nel 1943 al dopoguerra ed al sogno comunista. Di fatto Candido tracima, straripa, esplode di eventi ma è come se, mentre la storia si costruisce davanti agli occhi dell’ autore quasi come un film davanti all’ obiettivo di una cinepresa, questi si distraesse e cominciasse a riprendere un personaggio che si muove sullo sfondo, eccentrico e distratto quasi quanto l’ autore!
Candido, (di nome e di fatto), è il personaggio “senza macchia e senza paura” che viene come catapultato in una storia da cui è condannato a restar tagliato fuori proprio per l’ eccessiva purezza del suo sguardo e delle sue intenzioni e che pure, per gli altri personaggi (superstiziosi, corrotti, ottusi, fanatici dell’ ideologia), divengono altrettanti motivi di biasimo ed esecrabilità nei confronti del protagonista. Quest’ ultimo viene inquadrato dal punto di vista degli altri personaggi e per questo ne deriva al lettore un’ immagine straniata. L’ironia già implicita nel modello voltairiano, (in cui le disavventure del protagonista smentivano ad ogni passo la tesi leibnitziana per cui noi vivremmo nel migliore dei mondi possibili), viene qui accentuata da una vicenda tanto più tragica quanto più si avvicina al reale: non si tratta di pura invenzione ma di osservare di scorcio, e con qualche concessione al romanzesco, una serie di fenomeni socio- politici e religiosi che hanno avuto un decorrimento effettivo nel passato della nostra penisola. Così tra preti spretati che fanno i comunisti; generali eroi delle guerre fasciste divenuti democristiani, repubblicani e quindi antifascisti; soldati americani legati al mito edipico- shakespeariano di Amleto; donne “full of grace” come la Maria Grazia, madre di Candido, che concepisce un figlio in grado di scandalizzare per la sua innocenza e che sembra esser stato concepito senza l’ apporto paterno, Sciascia costruisce una Babele di fatti e fatterelli che si intrecciano sul grande affresco storico. A ciò si aggiunga un contorno di servette isteriche, amanti infedeli e ladre sulle quali sfogare “un’ amore che trabocca nel disprezzo”, uomini di potenti relazioni sempre legati a “un passato che non era passato, e per un presente che somigliava al passato”. E per di più segretari del PC che rifuggono le proposte di donazione o proprietà comune dei mezzi di produzione ai contadini da parte di un moderno latifondista quale è Candido! Tra l’ utopico e il paradossale…

Esposto Ultimo Eva Maria

L'amore irreparabile di J. Hart


Il danno
di Josephine Hart
Milano, Feltrinelli, 1991

€ 7.00
pp. 167

«Non sono morto nel mio cinquantesimo anno. E ora poche persone, tra quelle che mi conoscono, ritengono che questa non sia stata una tragedia» (p. 6). Si apre con il paradosso questo agile romanzo di Josephine Hart, edito nel 1991 e prontamente tradotto in Italia da Vincenzo Mantovani. L'io narrante, un carismatico medico e uomo politico, traccia le tappe fondamentali della sua vita con uno sguardo disincantato. Fino a cinquant'anni, tutto è normale, calcolato, equilibrato: il matrimonio con la ricca e affascinante Ingrid, più amica affettuosa che moglie, i due figli Sally e Martyn, una reputazione irreprensibile, una casa borghese. Niente, nella vita del protagonista, sembra mancare, almeno fino all'arrivo di Anna, la donna che sta frequentando Martyn, una donna segnata da un passato pieno di sofferenza. E, come ripete più volte, «le persone danneggiate sono pericolose. Sanno di poter sopravvivere» (p. 66). Anna rappresenta per il protagonista un risveglio dal torpore della sua onesta e noiosa quotidianità, diventa la principessa e la schiava di un universo erotico in cui non esistono limiti. La donna garantisce al protagonista di avere "tutto, sempre", e glielo ricorda quasi ossessivamente.

Neanche la relazione con Martyn argina nel protagonista il desiderio, fin dall'inizio rovinoso perché accecante e irrinunciabile. D'altra parte, la donna non fa niente per tirarsi indietro, perché il rapporto con il futuro suocero non è deciso, ma voluto da altre "forze":
«So sempre riconoscere le forze che plasmeranno la mia vita. Lascio che facciano il loro lavoro. A volte investono la mia vita come un uragano. A volte mi spostano semplicemente la terra sotto i piedi, cosicché mi trovo in un posto diverso, e qualcosa o qualcuno è stato inghiottito. Ritrovo l'equilibrio, durante il terremoto. Mi sdraio, e lascio che l'uragano passi sopra di me. Non combatto mai. Dopo mi guardo intorno e dico: 'Ah, dunque mi resta almeno questo. Ed è scampata anche quella persona cara.' Sulla tavola di pietra del mio cuore incido silenziosamente il nome che se n'è andato per sempre. È una cosa straziante. Poi riprendo la mia strada» (p. 67)

Dunque non resta che l'abbandono all'inevitabile, l'assieparsi delle bugie da raccontare alla moglie Ingrid, il senso di colpa verso il figlio Martyn e la totale disposizione a farsi cambiare l'esistenza. Ben presto, davanti ai racconti della moglie, il protagonista si accorge che «un uomo innamorato non ascolta le storie dell'infanzia dell'amata con un simile distacco. E non guarda con un occhio così freddo la casa che le ha dato asilo» (p. 99). Dunque, una presa di coscienza continua, silenziosa, una verità mascherata da impegni di lavoro, stanchezza e problemi personali. Fino all'inevitabile scoperta e al declino feroce, a cui non resta che rassegnarsi.
Nonostante la violenza della filosofia sottesa, segnata da una scrittura quasi di denuncia, l'egoismo e il falso perbenismo di certi valori familiari, si tratta di una "storia d'amore", così come viene ribadito in ultima battuta. Una storia d'amore forte, non convenzionale, assoluta, e come tale pronta a sacrificare tutti gli altri affetti, per spodestare egoisticamente persino se stessi.

GMG

Si ricorda che, dal libro di J. Hart, Louis Malle ha tratto l'omonimo film nel 1992, con attori di fama internazionale quali J. Irons e J. Binoche.

Il romanzo del fuoco


Ray Bradbury,

Fahrenheit 451 (1953)
Oscar Mondadori

Guy Montag è un fireman. Porta sulla sua uniforme tutti i simboli del suo mestiere: la salamandra trapunta sul braccio, e la misteriosa cifra 451 sull’elmetto. E, come tutti i firemen, i “pompieri” del mondo creato da Ray Bradbury in Fahrenheit 451, il suo compito non è estinguere incendi, ma appiccarli. “Era una gioia appiccare il fuoco. Era una gioia speciale vedere le cose divorate, vederle annerite, diverse.” L’obiettivo dei firemen, nello specifico, è semplice e terribile: bruciare i libri. “È un bel lavoro, sapete. Il lunedì bruciare i luminari della poesia, il mercoledì Melville, il venerdì Whitman, ridurli in cenere e poi bruciare la cenere. È il nostro motto ufficiale.”
In realtà, in Fahrenheit 451 la gente non ha più bisogno di libri, eppure è necessario ditruggerli. Perché? Il motivo ci suona tremendamente ovvio: nel mondo in cui la parola “intellettuale” è diventata “la parolaccia che meritava di diventare”, il libro “è un fucile carico, nella casa del tuo vicino”, fomite di diversità e libero pensiero, distruttore di felicità:
“Almeno una volta, nella sua carriera ogni milite del fuoco sente un prurito: che cosa dicono i libri? si chiede. Oh, la voglia di grattarsi. Per amore di quel prurito, eh Montag? Ebbene ti do la mia parola Montag, ne ho letto qualcuno, ai miei tempi, per sapere che cosa dovessi combattere, e ti posso assicurare che non dicono nulla! Nulla che tu possa credere o insegnare. Parlano di persone che non esistono, frutto dell’immaginazione, quando si tratti di narrativa. E se non si tratta di narrativa, sono cose ancora peggiori, diatribe tra professori che si danno reciprocamente dell’idiota, urla di filosofi alla gola uno dell’altro. E tutti corrono affannati qua e là, a spegnere le stelle e ad offuscare il sole. Ne esci, alla fine, perduto.”
Cos’altro si può insegnare in una società di massa che non desidera più nulla? C’è la televisione a tre pareti, “la famiglia”, che riempie le giornate e ottura le coscienze con i suoi programmi-spazzatura interattivi; ci sono le “conchiglie” delle micro cuffie musicali, che incanalano verso menti sempre più insensibili i rilassanti suoni dell’oceano o della musica sintetica; e ci sono le corse in automobile, con cui sfidare ogni volta la morte ad alta velocità. Mildred, la moglie di Montag, ingerisce dosi mortali di sonniferi ma, il giorno dopo, di chiara a gran voce di essere felice, e “fiera di esserlo”.
Ma il problema della felicità è complesso, e Montag comincia a capire che c’è qualcosa al di là della superficie: l’incontro con una ragazzina dal viso luminoso “come neve al chiaro di luna”, le sue domande; la contemplazione, seppure sfuggente, di un’alterità possibile innesca in Montag un cambiamento irreversibile. Forse non vale la pena di ridurre in cenere tanta letteratura, forse “ci dev’essere qualcosa di speciale nei libri, delle cose che non possiamo immaginare”; il passo è breve dalla scoperta che “dietro a ogni libro c’è un uomo” al fatto che, forse, è bene proteggere ciò che altri tentano, con orribile sistematicità, di cancellare dal mondo.
Insieme alle Martian Chronicles, Fahrenheit 451 è il romanzo più noto di Ray Bradbury: uno tra gli autori, tra fantascienza e letteratura utopica, più letterari ed elegiaci. Come si proteggono i libri dalle fiamme? Addomesticando il fuoco, pagina dopo pagina, da nemico a fratello. E dall’oblio? La soluzione, quando l’orizzonte è solo distruzione, è la più semplice e antica del mondo: il ricordo.