Il bestseller del disagio


La solitudine dei numeri primi
Di Paolo Giordano
Milano, Mondadori, 2008

Fin dalle prime pagine, mi sono domandata come questo romanzo possa essere diventato un bestseller venduto persino al supermarket. Sia chiaro, il titolo è originale, la copertina attrae, lo stile è asciutto e scorrevole, ma la trama sconvolge. E sconvolgere è decisamente difficile nel ventunesimo secolo. Potremmo chiamarlo un romanzo del disagio, in cui i due protagonisti, Mattia e Alice, cercano disperatamente di trovare una propria serenità, vietata dai traumi dell'infanzia. A Mattia un violentissimo senso di colpa impedisce di vivere gli affetti con spontaneità e naturalezza, mentre Alice è imprigionata nell’incubo della sua camminata claudicante, causata da un incidente di sci quando era bambina. La prima parte del romanzo intesse tutti i preamboli perché Mattia e Alice si conoscano durante la loro adolescenza, si studino, inizino a puntellarsi l’uno all’altra, tra una illusione di amore acerbo e un’amicizia minata dal timore di concedere fiducia.

Privo di orpelli sentimentali, ma ricco di sentimento, impietoso nel concedere poche pagine a ogni capitolo, Giordano sa esattamente dove affondare il coltello e snidare emozioni scomode a volte, fastidiose, che si fanno quasi tormenti. Per questo non la considererei mai una lettura da ombrellone, nonostante tante copie della Solitudine dei numeri primi siano inzaccherate di sabbia: per quanto si cerchi di prendere le distanze, le storie avvincono e trascinano nella nebulosa delle sofferenze dei protagonisti. Senza lasciar scampo al pathos, ci si ritrova a rabbrividire per l'autolesionismo di Mattia, a temere per i problemi alimentari di Alice, e a desiderare fortemente un buon finale che rappacifichi i sensi. Ma di scontato non c’è proprio niente. Un Premio Strega e un Campiello (opera prima) ben destinati.

GMG

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" Conversazione in Sicilia "


Conversazione in Sicilia
di Elio Vittorini
Biblioteca Universale Rizzoli


“Avevo viaggiato dalla mia quiete nella non speranza, ed ero in viaggio ancora, e il viaggio era anche conversazione, era presente, passato, memoria e fantasia”.

“Conversazione in Sicilia” è un libro della memoria. La parola stessa si fa veicolo del ricordo e della riscoperta di un passato che è allo stesso tempo individuale e collettivo, personale e mitico. Il viaggio iniziatico del protagonista prende le mosse dalla stazione di Bologna per approdare ad una Sicilia offesa e dimenticata, terra che Vittorini - Silvestro aveva lasciato tempo prima, in cui si collocano dei ricordi di infanzia e adolescenza adesso pronti a riaffiorare, nella quale è avvenuta la sua scoperta del mondo; terra fuori dal tempo e dallo spazio (lo stesso protagonista definisce il suo un viaggio in una quarta dimensione). Il tutto prende avvio da un disagio esistenziale. La condizione di Silvestro Ferrauto , la sua angosciosa “quiete nella non speranza” rimanda a quella di tutti gli intellettuali che ,come Vittorini, maturavano la consapevolezza della difficoltà dell’azione negli anni della Guerra Civile Spagnola, anni in cui il fascismo cambiava volto deludendo anche le aspettative di chi aveva aderito al cosiddetto “fascismo di sinistra” credendo nella possibilità di una rivolta a sfondo popolare contro il conformismo borghese. Silvestro parte da questa indifferenza ma lo anima anche la segreta speranza di superare i suoi astratti furori:

“ Mi ritrovai allora un momento come davanti a due strade, l’una rivolta a rincasare, nell’astrazione di quelle folle massacrate, e sempre nella quiete, nella non speranza, l’altra rivolta alla Sicilia, alle montagne, nel lamento del mio piffero interno e in qualcosa che poteva anche non essere una così scura quiete e una così sorda non speranza”).

Il viaggio di tre giorni che lui compie ha valore innanzitutto simbolico, lo porta al contatto con un’umanità offesa e si configura ,appunto, come “conversazione”. L’incontro con le figure simbolo è sempre all’insegna di dialoghi, in genere caratterizzati da iterazioni anaforiche e da un alone di indeterminatezza, che coincidono con delle tappe emotive significative: l’Uomo delle arance e la sua Piccola Moglie afflitti dalla miseria,i burocrati del Regime Coi Baffi e Senza Baffi, il Gran Lombardo, unico rappresentante di un’umanità fiera che aspira alla libertà ed è più “pronta per altri doveri”. È a lui che l’autore affida uno dei messaggi di contenuto etico - politico più incisivi.
E prosegue ancora il viaggio di Silvestro nel mondo della madre e in quello archetipico delle madri (David per primo ha suggerito, a proposito, lo “schema epico della discesa delle madri”) e il tutto è proustianamente accompagnato da ricordi che affiorano tempestivamente in lui: le montagne, lo zolfo, i fichi d’india, l’odore dell’aringa che la madre Concezione (il nome non è certo casuale!) cucinava per lui, il braciere di rame in mezzo alla cucina. La donna conduce una sorta di iniziazione del figlio portandolo con sé nel suo “giro delle iniezioni” ed è qui che Vittorini sa, a mio parere, rendere perfettamente l’idea di un’umanità afflitta restituendoci l’immagine di stanze completamente al buio nelle quali gli uomini siano ridotti a pure ombre e voci, antri quasi sotterranei. Ma oltre a ciò l’autore affida alla madre, così come agli altri personaggi, un messaggio da dare a Silvestro e che, nel caso di lei, si esplica soprattutto nella contrapposizione fra la figura del debole marito ferroviere e attore shakespeariano e quella del padre (il nonno di Silvestro) molto diverso perché fiero e dotato di senso del dovere. E il viaggio si potrebbe ancora commentare attraverso le figure dell’arrotino Calogero, di Ezechiele e di Porfirio, che consegnano nuovi messaggi sul mondo offeso, sulla possibilità di una salvezza, o anche solo di esorcizzare i dolori dell’umanità. Altamente significativa è l’alternanza di immagini ariose e “celesti” come quella dell’aquilone che vola alto nel cielo siciliano ed altre buie ed “asfissianti” come quella della taverna “sotterranea” dell’oste Colombo. Contrapposizioni che, come sempre in Vittorini, hanno valore reale e simbolico assieme.
L’ultima parte del viaggio è dominata da figure inconsistenti, immateriali: spiriti che gli rivolgono dei messaggi indeterminati, allusivi (l’”ehm” del fratello Liborio) e che assieme a lui compiono l’ultima tappa del suo itinerario: la processione alla statua dell’ ignuda donna di bronzo. Il protagonista ha adesso raggiunto la consapevolezza che il suo viaggio sia stato circolare, che lo abbia ricondotto alla posizione di partenza e quindi, forse, non vi sia stato reale superamento delle iniziali istanze: “Questa fu la mia conversazione in Sicilia, durata tre giorni e le notti relative, finita com’era cominciata”.
In tutto questo si legge la riflessione vittoriniana sulla possibilità di una salvezza dall’indifferenza (quel “credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario”, quella “voglia di perdersi, ad esempio,con lui”), di un approdo ultimo che lui ricerca nella letteratura, nell’impegno politico - civile o in fondo in una letteratura come impegno politico - civile visto che, forse mai come nel caso di Vittorini, le due componenti non possono essere scisse e costituiscono i due poli di un’ opposizione che sempre lo animerà, portandolo a contraddirsi e superarsi. Conversazione in Sicilia è stato letto come romanzo “onirico”, come critica al fascismo e alla sua retorica della vittoriosa morte in guerra, come opera di ispirazione “decadente” incentrata sul tema del viaggio “a rebours”. Personalmente ritengo che sia tutto questo assieme e molto altro ancora, che dentro vi siano raccolti tutti i “furori” dell’intellettuale Vittorini che riflette sugli orrori della guerra, sui compiti della letteratura in un mondo in cambiamento, sul ruolo complesso dell’intellettuale nella società contemporanea. E lo fa con il suo tipico “realismo magico”, cioè consegnandoci una storia che è realistico - simbolica e che infatti, in certi passi, ha qualcosa che ricorda il realismo verghiano, ma anche il simbolismo di fine Ottocento. Ma gli echi letterari non finiscono qui: il dialogo secco ed incisivo ricorda anche la prosa di Hemingway e rivela l’influenza che gli scrittori americani ebbero sulla scrittura e sull’immaginario di Vittorini e degli altri che, come lui, coltivavano questo sogno ,letterario e non, di un’ America come terra delle infinite possibilità, del trionfo di una libertà a loro negata e luogo di un possibile rapporto dialettico col reale. Il lettore riesce quasi a percepire con i sensi la Sicilia che l’autore siracusano descrive, a sentirne odori e sapori, a intravederne i tramonti ed i colori, ma allo stesso tempo “ la Sicilia è solo per avventura la Sicilia, solo perché il nome Sicilia mi suona meglio del nome Persia o Venezuela “. Del resto a Vittorini piace immaginare che “ … tutti i manoscritti vengano trovati in una bottiglia”.


Claudia Consoli

Essere "io", essere "Noi"

My (Noi)
di Evgenij Zamjàtin
Lupetti Editore, collana I Rimossi

Il romanzo My (Noi) fu scritto da Zamjàtin tra il 1919 e il 1921. Erano trascorsi pochissimi anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, e l’orrore dei totalitarismi non si era ancora spiegato in tutta la sua potenza distruttiva (dall’una e dall’altra parte: Hitler aveva appena costituito il Partito Nazionalsocialista, Stalin cominciava ad avere i suoi primi attriti con Lenin).
Eppure, questo romanzo colpisce per le sue profetiche intuizioni. Zamjàtin, ingegnere navale e romanziere per passione, comprese subito che quella Rivoluzione che lui stesso aveva appoggiato con entusiasmo stava irrimediabilmente quanto rapidamente deviando verso il regime totalitario. Ne è testimonianza la storia editoriale di questo romanzo: condannato dalla censura sovietica, si diffuse rapidamente nel resto d’Europa, specialmente grazie alle traduzioni inglese e francese (fu proprio quest’ultima a ispirare George Orwell per un altro capolavoro della distopia, 1984); e poté essere pubblicato in Russia, insieme allo stesso 1984, soltanto nel 1988.
La domanda sorge dunque spontanea: cosa contiene “Noi” di tanto sovversivo? L’universo di My, lo Stato Unico dominato dalla misteriosa, dispotica figura del Benefattore, rappresenta l’estrema realizzazione di quegli ideali di razionalità e tecnica propugnati dal regime sovietico (basti pensare agli obiettivi dei Piani Quinquennali). In un futuro non ben identificato in cui le città, cupole di asettica perfezione, sono protette dal resto del mondo da un Muro Verde, l’esistenza degli uomini (non più individualità distinte e consapevoli, ma numeri) si svolge secondo leggi determinate, all’insegna della logica matematica e della trasparenza: le case, le strade, i mobili sono di vetro, ogni cosa avviene (così come nell’Utopia di Moro…) sotto gli occhi degli altri; un po’ di intimità è concessa soltanto per gli appuntamenti amorosi, rigidamente organizzati secondo un sistema di “talloncini rosa”, in cui è possibile abbassare delle tendine.
Un universo pulito, ordinato, apparentemente perfetto: tale appare al protagonista, il “filosofo matematico” D-503, costruttore di un Integrale che porterà tale messaggio di “utopica” perfezione verso altri, più barbari pianeti.
Ma le “magnifiche sorti e progressive” dell’utopia apparente non possono che rivelare la loro inconsistenza: come spesso avviene nella letteratura distopica, è l’amore per una donna a scatenare il dubbio. E qui l’amore si incarna nella sfuggente rivoluzionaria I-330, che rivela a D-503 la sua reale infelicità di uomo che ha un’anima (“un’anima incurabile”, per l’esattezza).
Ma non è l’unico orrore quello di scoprire di avere un “io” (male assoluto in un mondo che ha sacrificato l’individuo alla comunità, l’Io all’incredibile Noi); c’è anche quello, ben più profondo e ossessivo, di ritrovare la propria personalità scissa in due, l’io conformato che ama il suo mondo e lo celebra con esasperata oratoria, e l’“io villoso” che ama I-330, ma desidera innanzi tutto affermare autenticamente sé stesso.
È questo il contrasto fondamentale, che a ben vedere è quello tra felicità e libertà, comune a tutte le distopie “classiche” del Novecento. Una lotta che si realizza in un romanzo dallo stile trasparente e curatissimo, in cui colori e i particolari anatomici sembrano quasi accecare, imprimersi a fuoco nella memoria col loro riverbero: i denti aguzzi di I-330, i polsi paffuti di O-90, le mani “villose” di D-503
Se D-503 è l’uomo scisso e incapace di risolvere questa sua scissione, il segreto messaggio lasciato da Zamjàtin è nell’eroica I-330, che rappresenta chiaramente la forza impetuosa dell’antitesi, per dirla con Hegel, l’energia “in negativo” (la rivoluzione per la riconquista della libertà, dell’individualità, del rapporto con la natura) necessaria affinché la dialettica inarrestabile della Storia possa proseguire:

“Questo non ha senso! È assurdo! Non capisci che quello che voi tramate è una rivoluzione?”
“Sì, una rivoluzione! Ma perché è assurdo?”
“Assurdo perché non può esserci una rivoluzione. Perché la nostra rivoluzione - non lo dici tu, ma lo dico io - è stata l'ultima. E non ci può essere nessun'altra rivoluzione. Lo sanno tutti.”
L’aguzzo, ironico triangolo delle sopracciglia proseguì:
“Mio caro: tu sei un matematico. E in più sei un filosofo matematico: dimmi l’ultimo numero.”
“Cioè? Io... io non capisco: quale ultimo numero? (...) Ma, I, questo è assurdo. Dal momento che il numero dei numeri è infinito, che numero vuoi che ti dica?”
“E tu quale ultima rivoluzione vuoi? Non c'è un’ultima rivoluzione, le rivoluzioni sono senza fine.”

I racconti del parrucchiere, di Elvira Seminara

I racconti del parrucchiere
di Elvira Seminara
Roma, Edizioni Gaffi, 2009

pp. 180
€ 7,50

Volendo a tutti i costi circoscrivere proporzionalmente qualsiasi forma di attività umana che abbia riscontri pragmatici nel cotidie vivere, potremmo (superficialmente?) affermare che il parrucchiere sta alla donna come il calcio sta agli uomini. Non volendo cadere nel più banale sessismo, posso però confermare che noi maschietti difficilmente riconduciamo i nostri piccoli microcosmi a qualcosa che vada al di là delle chiacchiere da bar o del conto da pagare all’interno dello stesso.
Pietrangelo Buttafuoco, presentando “I racconti del Parrucchiere” di Elvira Seminara, tira in ballo le unità spazio-temporali di matrice aristotelica accorpando giustamente ad esse l’unità “phon”.
Pur non cercando di sminuire la divertita creazione di Buttafuoco, dal mio umile e miserrimo punto di vista ritengo che un’altra unità “amica” riscontrabile nel bel libro di Elvira Seminara sia quella dei “caratteri”. Caratteri fatti di carne e sangue, di contraddizioni, di cadute e di risalite. La scrittrice si adopera per portare a galla verità, storie e sofferenze legate a personaggi di finzione le cui storie partano da una base ben stabilita: quella del rito del parrucchiere, del coiffeur, di colui che lavorando sodo fa sì che la cliente torni a casa sostanzialmente animata dalla gioia che scaturisce dalla modifica relativa alla propria acconciatura. Apparire “migliore” rispetto a quando si è entrati nel salone.
È veramente così? Forse all’apparenza, o forse no. Le straordinarie storie della Seminara sono intime riflessioni sul quotidiano che può diventare eccezionale oppure tragico, una routine soffocante che trova nel sedile del parrucchiere la salvezza o, a seconda, la disgrazia. L’autrice, che ha il dono (non comune) di una coerente, gioiosa e piacevolissima fluidità narrativa mescola con leggiadria e sapienza le carte di diverse condizioni umane non sempre felici dando vita a ritratti impietosi ma colmi di dignità. Ecco, con i “I racconti del parrucchiere” ci troviamo davanti alla raffinatezza di una scrittura che sa anche parlare di morte e di tragedia. In un’epoca come la nostra in cui la confusione coinvolge anche la scrittura, direi che non è poco.

Giuseppe Paternò Raddusa

Letteratura estiva


Daniel Chavarrìa

La sesta isola


295 pp. ca

Edizioni Net

7,80€



Estremamente scorrevole. Ho reperito questo libro nell'ennesimo mercatino dell'usato, in piena villeggiatura e subito l'ho adottato (insieme ad un'altra decina di orfanelli) anteponendolo a letture sicuramente più noiose (e non me ne voglia Moravia!). Daniel Chavarrìa, autore cubano e cittadino uruguajo, come lui stesso ama definirsi, racchiude in sé due grandissime qualità per un narratore contemporaneo: l'esperienza e la capacità quasi conseguente ma non sempre scontata di metterla per iscritto, darle un'ordine e senza consumarne l'inchiostro tracciare tutti i ghirigori della propria fantasia. Per il piacere di scrivere, quella penna che sembra agitarsi motu proprio sotto i dettami di un divertimento puramente letterario, tipica di una certa tipologia di letteratura "leggera" e d'intrattenimento, potrebbe essere accostato all'italianissimo Emilio, padre di Sandokan e del corsaro nero, all'anagrafe Salgari. Il condizionale è però d'obbligo: i contesti narrativi sicuramente in un certo qual modo simili (ladri, pirati, picari e forte caratterizzazione storico-ambientale) hanno la clausola dell'esperienza in Chavarrìa lì dove Salgari si limita a studi e fantasia, in un mondo non più reale. Onori ad entrambi gli autori in ogni caso. L'uruguajo ha dalla sua anni passati tra tanti lavori, luoghi ed occupazioni, di cui inevitabilmente risente il suo protagonista. In virtù di questo assolutamente non è un visionario, come spesso lo definiscono. Si avverte poi, impalpabile, ne "La sesta isola" la rinuncia a qualsiasi artificio letterario che possa trasformare queste piacevolissime 295 pagine da letteratura d'intrattenimento proprio e del lettore (immagino che Chavarrìa si sia divertito non poco ad elaborare una simile trama) in carta straccia prodotta in tot pagine (magari a caratteri cubitali) solo in funzione del prezzo di copertina e del nomeautore-titolo-recensione-immaginedicopertina-trama più adatto a spillar soldi. In verità la struttura del romanzo risulta abbastanza caotica, con l'introduzione in parallelo di più fili narrativi tanto in terza quanto in prima persona, con il prevalere di quest'ultima con l'incalzare delle pagine. La trama reale, le informazioni strettamente necessarie che diano un senso all'insieme, sono riscontrabili solo nell'ultima parte di questo libro, riducendo le duecento e passa pagine precedenti ad un corollario non inutile, ma paragonabile ad un pranzo nuziale consumato in attesa della torta con i simpatici sposini di plastica: un qualcosa di preannunciato dalla circostanza, in questo caso dal titolo e dai commenti di copertina (superflui a mio parere), e di cui quasi si inizia a disperare, dato il drammatico ritardo. Un rischio nel leggere questo funambolico volume risiede nel tentare di sottovalutarlo e magari superficialmente andare dritti alla conclusione della vicenda tralasciando che non è importante tanto la meta quanto il viaggio, il modo in cui si giunge ad un approdo sicuro. E tra verità e menzogne, interessanti riflessioni, digressioni teologico-filosofiche ed excursus di viaggi, furti, uccisioni e scorrerie, si potrà apprezzare il sapore di una scrittura limpida e genuina, non eccessivamente elucubrata, dal gusto inconfondibilmente latino-americano, con un occhiolino al mondo classico.

Adriano Morea


Utopie, tempeste e valori: il pluralismo di Isaiah Berlin


Isaiah Berlin
Il legno storto dell'umanità
Milano, Adelphi, 1996

380 p., 30 euro.


Il legno storto dell'umanità è una raccolta di vari saggi di Isaiah Berlin, il grande filosofo liberale inglese, la cui celebre teoria circa la libertà, secondo la quale dobbiamo distinguere una libertà positiva (una libertà di agire, un'autonomia) da una libertà negativa (una libertà da ostacoli, regole, condizionamenti di vario tipo), ha ampliato nel XX secolo l'orizzonte di analisi di questo fondamentale concetto della teoria politica. Queste innovative categorie analitiche, forgiate dalla linea infuocata che divideva il mondo in un occidente capitalistico, individualistico, consumistico, e in paesi socialisti, collettivisti, e in ultima analisi repressivi delle libertà individuali, furono per la prima volta pronunciate durante la Prolusione che Berlin tenne nel 1954 come lezione inaugurale ad Oxford.


I saggi contenuti, invece, ne Il legno storto dell'umanità ci parlano di valori in conflitto, e la lezione di Berlin, come suole ricordare Salvatore Veca, è che nessuna scelta è gratis, che non esistono scelte senza perdite in valori.


Un esempio potrà essere chiarificatore. È un dilemma di ambito economico-politico: il contrasto tra giustizia (equità) ed efficienza. L'esempio è questo: una società che massimizzi l'efficienza può non essere (e generalmente non è), una società giusta, perché spesso l'efficienza si può realizzare solo attraverso la frustrazione degli interessi di alcuni per il benessere di molti. Ma la giustizia, come ci ha insegnato a pensare John Rawls, rifiuta di sacrificare i diritti di chiunque (posto che esista qualcosa come un diritto), per il benessere di un qualsivoglia numero di persone. D'altro canto i diritti, ed anche le istituzioni democratiche, hanno bisogno continuamente di essere ristrutturati, di essere riassestati. Si deve cioè essere consapevoli che la priorità della società sulla politica, il primo antidoto contro i totalitarismi, la necessaria continua aderenza delle istituzioni alle esigenze di società in movimento, cioè, la realtà dei diritti, ha un costo, ed esso è spesso un costo in termini di efficienza. Una società giusta può essere una società efficiente, ma generalmente non è una società che massimizza l'efficienza. La domanda è: fino a quale grado possiamo accettare che un incremento dell'equità intacchi i nostri livelli di efficienza sociale nelle complesse società del benessere in cui viviamo? Si pensi al caso dei sistemi scolastici pubblici o dei sistemi sanitari pubblici: in che misura intaccano l'efficienza del funzionamento di una società? Perché dovremmo accettarli? Non sarebbe meglio ridurli o eliminarli se non sono efficienti? Qual è il loro incremento in termini di giustizia sociale e perché riteniamo che questo incremento sia importante, che valga per noi? Giustizia ed efficienza necessitano di un continuo bilanciamento, sono due valori in contrasto, che non è sempre possibile tenere insieme; per essi convergono interessi, energie intellettuali, politiche, opposti.


Questo primo esempio coinvolge l'ambito macroeconomico delle scelte pubbliche, ma conflitti tra valori, ci insegna Berlin, riguardano anche l'ambito dell'esistenza di ogni singola persona. D'altronde la vita psichica di ognuno è un continuo bilanciamento, e una continua scelta di priorità tra questi valori (John Rawls avrebbe definito Berlin come intuizionista, nella misura in cui il bilanciamento non è regolato da principi, ma si assetta ogni volta in maniera diversa).. Si pensi a due persone che conducono la vita secondo scopi e principi differenti, inevitabilmente verranno a confliggere, se si trovassero a comunicare tra loro. Si pensi che le scelte di priorità alla carriera spesso incidono pesantemente sulla vita familiare di un individuo.


Ma i conflitti tra valori non solo segnano ogni giorno la vita individuale, ma irrorano da sempre la storia del pensiero dell'umanità, o meglio, la storia del pensiero dell'umanità è pensata da Berlin come una storia di valori confliggenti. Nell'interpretazione di Berlin le idee nella testa degli uomini, che inevitabilmente li rendono fanatici, ma d'altro canto li spingono a salpare il mare e cercare nuovi orizzonti, informano, innervano la storia dell'uomo. Così gli ultimi due secoli, e i suoi modelli politici sono un continuo scontro tra Autonomia, che significa indipendenza, ma anche una buona base di incertezza sociale, e Autorità, che significa dipendenza, ma anche una società regolata: si pensi a cosa la lotta tra fascismo e comunismo, entrambi due mostri monoteisti nella visione di Berlin, abbia significato in termini di morti e miserie per il secolo passato.

Così libertà, giustizia, efficienza, equità, carità, creatività, bellezza, conoscenza, e tutti gli altri valori, non possono stare insieme. I valori sono plurali (ma non infiniti), e non tutti possono sempre convivere. Scegliere significa assumersi la responsabilità di una continua perdita in valori.

A questo punto Berlin ci racconta una storia illuminante, che è la storia del pensiero umano, è la storia di un pensiero che da Platone in poi pensa ad un mondo in cui tutti i valori possano convivere pacificamente, è la storia delle Utopie, delle Età dell'oro, dei Paradisi, in cielo o sulla terra, delle Atlantidi o Città del sole, è la storia di una filosofia politica che nel mondo occidentale è sempre stata monoteista. Ma Berlin ci insegna che un mondo siffatto non esiste, che i valori non possono convivere in una medesima società, ma che ci si deve confrontare con la loro pluralità, che una società che imponga i suoi valori, non è una società giusta, ma semplicemente una società monoteista e oppressiva: il pluralismo non è solo un fatto, ma anche un valore che è necessario difendere: esso è il primo baluardo in difesa delle libertà di ognuno, le istituzioni devono conformarmi ad esso. Ma questa storia, la storia lunga di Utopia, il succo del libro, la lascio leggere a chi vorrà iniziare questi saggi, e scoprire qualcosa di più di quel legno storto che, nella definizione di Immanuel Kant, è l'umanità.