Il mare in fondo alla strada



Il mare in fondo alla strada
di Marco Bernini
Firenze, SEF (SocietàEditriceFiorentina), 2008

pp. 88
€ 10.00

Capita di affezionarsi ai personaggi, come capita di voler sapere qualcosa in più sul loro passato, sulla strada che li ha portati a diventare quasi nostri amici. E Marco Bernini risponde alla curiosità di chi ha letto I racconti della balaustra, e s'è specchiato nelle stesse onde del gruppo di ragazzi livornesi.
In particolare, è una Livorno assolata dalle avventure estive, adombrata solo dalle turiste che portano altri pensieri nelle menti dei ragazzi, appena entrati nell'adolescenza. Questa raccolta di avventure accompagna infatti gli amici dalla fine delle scuole medie fino alle superiori inoltrate, stagione per stagione. Come nell'altro libro, abbiamo una struttura che procede per episodi, sempre accompagnati da una traccia musicale che potremmo quasi considerare il vero titolo di ogni capitolo.

Il percorso di crescita del protagonista, Marco, è in particolare segnato da una passione contrastata per Lei (non una lei generica, ma l'essenza stessa della Donna): bella, ambita e, come prevedibile, menefreghista verso i suoi corteggiatori. Nonostante le tante piccole étoiles che costelleranno le avventure degli amici, sempre pronti a nuove conoscenze, Lei resterà per quasi tutto il libro l'unica da conquistare veramente per Marco. Ci saranno incoraggiamenti e frustrazioni, regali da innamorati, e cocenti delusioni... Perlomeno, fino alla presa di coscienza che porterà a un Marco più cresciuto, ancora attratto ma conscio di quanto Lei sia sentimentalmente instabile.

Non si pensi che questo sia un romanzo fatto di drammi: al contrario, mancano neanche qui le risate; anzi, se vogliamo, la tenera età dei personaggi porta spesso a un'ironia addirittura gustosa, smentendo quindi la tesi (molto spesso ahimé veritiera) che i sequel non siano mai pari al primo libro.
Vediamo come Marco Bernini abbia ancor più dimestichezza con i suoi personaggi, che sembrano così muoversi autonomamente, al denominatore comune - tra sorrisi, pianti, agitazioni, attese, meraviglie, scoperte - di una parola: crescere.

GMG

Volete scoprire qualcosa in più di Marco Bernini? Leggete la nostra intervista o cercatelo sul sito della SocietàEditriceFiorentina!

I figli africani di Dante

I figli africani di Dante
a cura di Giuseppina Commare
c.u.e.c.m. - 2006
pp. 182, 13 €


“Non sono africana. L’Africa è in me ma non posso tornare.
Non sono taìna. Il taìno è in me ma non c’è ritorno.
Non sono europea. L’Europa vive in me, ma la mia casa non è là.”

(Aurora Levin Morales)

“Se vuoi sapere chi sono
Se vuoi che ti insegni ciò che so
Cessa momentaneamente di essere ciò che sei
E dimentica ciò che sai.”

( Bakar Salif)


Non tutti probabilmente sanno che la carta geografica che normalmente utilizziamo è la proiezione di Mercatore, adottata convenzionalmente come rappresentazione della superficie terrestre perché più agevole nella navigazione. Ma la carta che raffigura i Paesi del mondo in proiezione equivalente alla loro superficie è quella di Peters: in essa la Groenlandia diminuisce di dimensioni, l’ Africa cresce in estensione e l’Europa, che una volta patchwork di imperi coloniali aveva portato avanti una prospettiva eurocentrica, si ritrova relegata ad una posizione più marginale… La carta di Peters dà la vera dimensione di un mondo che si avvia verso un processo di creolizzazione su larga scala ed in cui presto non vigerà più la supremazia di un unico centro bensì un sistema di potere multipolare.
“I figli africani di Dante” è la raccolta, antologizzata e commentata da Giuseppina Commare, degli scritti di alcuni dei cosiddetti “migrant writers”, coloro che, giungendo dall’estero, hanno scelto la lingua italiana come veicolo di idee e strumento di confronto sulle implicazioni del “racial mix”.
I titoli delle varie sezioni (capitoli e singoli paragrafi) ricalcano i temi affrontati e perspicacemente analizzati dall’autrice la quale spesso accosta e raffronta la loro poesia e prosa a quella degli autori italiani, e più in generale europei, del canone. Per quanto concerne i brani di letteratura migrante si tratta di testi tratti da “I sommersi” ed “Inverno” di Imed Mehadheb (Tunisia), “Pagine di diario” di Gertrude Sokeng (Camerun), “Imbarazzismi. Quotidiani imbarazzi in bianco e nero” di Kossi Kombla Ebri (Togo) ed infine “Questa pelle è pulita. Diario di uno straniero in carcere” di M. (Senegal).
Problematiche che toccano la vita della gente comune: dall’ immigrazione clandestina all’ adozione, dalle professioni degli stranieri in Italia alle false accuse contro di loro, la vita nelle carceri, l’approccio dei bambini negli istituti per l’infanzia.
Così Walcott, poeta della remota St. Lucia e Nobel della letteratura caraibica, parla della sua condizione di “figlio di simbiosi”:
“Io sono solamente un negro rosso che ama il mare,
ho avuto una buona istruzione coloniale,
ho in me dell’olandese, del negro e dell’inglese,
sono nessuno, o sono una nazione.
[…]
Dove mi volgerò, diviso fin dentro le vene?”

Ed aggiunge:

“Si diventa altri altrove.
[…]
Io sono l’ uomo nuovo.
Un ibrido non può mutilare, perché lui stesso è nato da
Tante culture che si sono mutilate tra di loro.”

Un libro per far riflettere sul fatto che i nostri non sono più tempi maturi per la mera tolleranza bensì per un’ accoglienza scevra da pregiudizi.

Esposto Ultimo Eva Maria

Sfera pubblica e democrazie


Sfera pubblica e democratizzazione.

Walter Privitera, 165 pg.

"Ma se questo era ciò che gli antichi chiamavano libertà, essi ritenevano compatibile con questa libertà collettiva l' assoggettamento completo dell' individuo all' autorità dell' insieme"
Benjamin Constant, Discorso sulla libertà degli antichi.
"Al contrario, che un pubblico si illumini da sè è ben possibile e, se gli si lascia la libertà, è quasi inevitabile".
Immanuel Kant, Risposta alla domanda che cos' è l' illuminismo.
“Democratizzazione e sfera pubblica” è uno studio sociologico che analizza temi di stretta attualità e interesse. Il testo ruota attorno al concetto di sfera pubblica, e quindi fa precisamente riferimento ai contributi filosofici di Jurgen Habermas. Il concetto di sfera pubblica viene analizzato secondo ogni angolatura e prospettiva: nella prima parte del libro da un punto di vista genetico, mostrando, anche attraverso riferimenti a studi non riferibili direttamente ad una corrente habermasiana, come la sfera pubblica sia una conquista della modernità, perchè essa per radicarsi necessita di un compendio di diritti individuali, cioè di un' emancipazione della vita personale e privata, della scoperta di una dimensione soggettiva dell' io, cioè di una coscienza, non più considerata, come per le società antiche (anche per quella greca), come adesione alla totalità sociale, dunque al suo ethos di norme e tradizioni codificate, ma come istanza irrinunciabile del singolo. In questo senso all' ethos delle società antiche, che controllava l' intera vita del singolo (Roma non aveva un esercito, Roma era il suo esercito: per la civiltà romana il servizio militare era obbligatorio e strettamente legato all' attività pubblica, Roma cioè chiedeva i corpi dei suoi cittadini per riconoscerli come tali), si deve sostituire il diritto, come problematizzazione razionale dell' ethos, cioè come “dissoluzione fluida del potere” per via discorsiva, e come riconoscimento dell' indipendenza del singolo dal complesso sociale, cioè come garanzia dei suoi diritti. Per questa sostituzione del diritto all' ethos Privitera cita uno studio che mostra il contributo importante della codificazione del diritto canonico, nei primi secoli del medioevo, e come questa codificazione, dovendo opporsi al potere locale, non codificato, de facto, dei nobili e feudatari, non possa che fondarsi per la prima volta su un principio universale, cioè la Bibbia, e precisamente il principio per cui ogni uomo è uguale di fronte a Dio, genesi del suo concetto secolare dell' uguaglianza di fronte alla legge, sostituendo un diritto de facto, con un diritto razionale, cioè introducendo per la prima volta nella storia un punto di critica radicale esterno alle consuetudini sociali. Per le società antiche, da cui per prime germoglia l' importanza di una dimensione pubblica dell' agire, si può parlare di spazio pubblico (l' agorà, il foro come luoghi fisici delimitati),in contrapposizione ad una sfera pubblica che si realizza nella modernità, attraverso un' emancipazione dell' io, un distacco dall' ethos costituito, attraverso rivolgimenti epocali, come il rinascimento e la riforma protestante, attraverso la razionalizzazione e la distinzione di sfere come l' economia e il diritto. La sfera pubblica come conquista è un' astrazione dello spazio pubblico Nella seconda parte del testo viene analizzata per sommi punti la teoria habermasiana dell' agire comunicativo. Essa tematizza il ruolo fondativo della sfera pubblica per le democrazie della rappresentanza, distingue l' opinone pubblica dalla sfera pubblica, come luogo astratto di espressione dell' opinione pubblica, procede ad una mappatura del bios dei sistemi politici delle democrazie rappresentative, costituite da un centro, dotato di poteri decisionali formali, e di periferie più o meno legate al centro. La bontà di un sistema politico è la sua adesione alla dinamica per cui dalla periferia vengano le istanze e non dal centro, in caso contrario si può parlare di una manipolazione della sfera pubblica. In questa parte del testo i meccanismi decisionali delle democrazie vengono analizzati con precisione e criticamente. Nell' ultima parte del testo, Privitera, indipendentemente dalla teoria di Habermas, analizza un problema di stretta attualità: la perdita di sovranità popolare delle democrazie occidentali. Essa è legata a fenomeni come la globalizzazione del mercato finanziario, il ruolo della ricerca scientifica per lo spostamento del potere decisionale dagli organi preposti, il problema della governance, il ruolo delle Ong e dei movimenti, come portatori di istanze non rappresentate. Un ottimo testo analitico che offre spunti e prospettive di ampia portata.

Il Salotto: intervista a Susanna Trossero


Ciao Susanna, innanzitutto grazie per aver accettato la proposta di raccontarci un po’ di te. E inizierei proprio lasciandoti un po’ di spazio per qualche notizia biografica: sentiti libera di dire ciò che preferisci.
Ciao a tutti, sono Susanna, scrivo da sempre e da sempre amo leggere; pensate che già dagli anni delle scuole elementari mi dilettavo a scrivere storie per gli altri bambini; i temi erano allora sempre gli stessi: orchi, fate, castelli stregati, tutti argomenti cari ai bambini ma la differenza stava nel fatto che io li raccontavo piuttosto che farmeli raccontare. Poi ho cominciato ad osservare le persone e ad immaginare le loro storie, e i temi sono cambiati, o meglio, si sono alternati in qualche modo. Non ho mai smesso di scrivere ma – crescendo - per molti anni ho continuato a farlo solo per un mio piacere personale, per seguire un istinto che mi portava a riempire le pagine bianche quasi come se non si trattasse di una creazione deliberata, evitando però la condivisione con altri a causa di una sorta di pudore che mi impediva di far leggere quelle che definivo le mie cose, pudore che ho scoperto essere più frequente di quanto supponessi. Mi pareva di denudarmi, di trasformare un mio momento privato in qualcosa di pubblico; in realtà ho scoperto nel tempo che scrivere è anche donarsi, e sono stata fortunata perché - nel momento in cui ho cominciato a mettermi in gioco - ho ottenuto buoni riconoscimenti e un’ottima accoglienza nel mondo dei libri.

Abbiamo recentemente letto il tuo Nella tana dell’orco: quanto hanno inciso le leggende su questo tuo scritto?
Parecchio, almeno per quanto riguarda il racconto che apre la raccolta e che le dà il titolo. Sono sempre stata affascinata da miti e leggende della mia terra, la Sardegna; dopotutto i nostri nuraghi sono uno dei più grandi misteri legati all’archeologia. Pensate che esiste una teoria ritrovata in diversi trattati, che sostiene fossero opera della civiltà di Atlantide! Se poi considerate che esiste un’ipotesi tutta italiana che dice che Atlantide sarebbe proprio la Sardegna! Si parla di teorie, di ipotesi, ci tengo a precisarlo, ma sono molto più intriganti e stimolanti delle risposte che ci hanno dato a scuola, o che troviamo su testi “seri”. Dunque, nel mio racconto, ho volutamente lasciato spazio - usando uno stile spesso surreale - al mistero, magari alimentando le leggende, modificandole a mio piacimento, giocando con la fantasia. Devo dire che è stato divertente.


Hai avuto qualche modello, per quanto riguarda i racconti più d’impatto, come “Gli scarafaggi”?
Si attinge sempre da qualcosa o da qualcuno, anche involontariamente. Io ho sempre amato Stephen King, Edgar Allan Poe, ho apprezzato i primi film di Dario Argento, ho tutta la collezione dei fumetti di Dylan Dog. Capita che una frase, un’atmosfera, un particolare, mi si incollino addosso per un po’ e mi stimolino influenzando la mia scrittura. Ma è un discorso che abbraccia anche altri generi perché sono una che spazia, in quanto ad ambientazioni o argomenti trattati. Ho bisogno di cambiamenti radicali nei temi che affronto, di non avere limiti di nessun genere; lo trovo più stimolante, più… corroborante.


Dai tuoi racconti emerge spesso, come abbiamo visto, il rapporto tra l’uomo e la natura: cosa ne pensi? Credi nella possibilità di rientrare in equilibrio con la natura, messa in secondo piano in questi ultimi decenni?
Ahimè no, non ci credo. E lo dico con la mia parte razionale, non con quella del “cantastorie”. Purtroppo l’uomo è stupido, tende all’autodistruzione senza neppure avvedersene. La natura in fondo siamo noi, ma ci siamo creati un modo di vivere che non ci tutela e credo sia impossibile oramai tornare indietro. Abbiamo fatto scempio di beni preziosi ed è come se la natura – dopo vari moniti – si sia seduta a guardare ironizzando sulla nostra ignoranza e ingenuità. È scomodo fare passi indietro, abbiamo raggiunto il punto di non ritorno e diventa più semplice andare avanti, nonostante tutto. Ecco perché, nei miei racconti (in particolar modo nel “Il Dio degli alberi”), ho immaginato una natura che da spettatrice e vittima diviene carnefice. Temo sia la sua unica possibilità di salvarsi…


Sul retrocopertina si legge che hai partecipato e vinto concorsi di poesia e di narrativa. In quale delle due dimensioni ti rispecchi di più? E perché?
Questa domanda mi è stata fatta di recente in un’altra intervista e mi ha fatto riflettere. Io ho pubblicato molte mie poesie negli anni e mi sono resa conto che - nel momento in cui arrivavo alla pubblicazione - vivevo la cosa con un certo disagio. La poesia è un fatto intimo, personale, e se scaturisce da momenti significativi della tua vita è un po’ come esporre l’anima. Dunque la leggo, la cerco, la amo, ma non riesco più tanto facilmente ad espormi con dei versi. Li tengo nei miei cassetti, in quei deliziosi quadernini piccoli piccoli che riapri quando hai voglia di guardarti dentro, o di ricordare, quando ti fai domande o cerchi risposte. La poesia è un attimo, una sensazione, è con la prosa che passo più tempo, sia come autrice che come lettrice.


Proprio tra poche settimane (e questa è una bella anticipazione!) ci dedicheremo a una nuova rubrica di poesia. Vogliamo chiedere anche la tua impressione: cos’è la poesia oggi? La consideri ancora spendibile o è per lo più momento privato?
Credo di avere, almeno in parte, appena risposto. Ma devo aggiungere che sono felice che non tutti coloro che scrivono poesie abbiano questa sorta di pudore, perché leggerne può aiutarci a dar voce a cose che anche noi proviamo, e che magari avremmo voluto saper dire. Accade così da sempre, ci si riconosce nelle parole di qualcun altro: chi non ha copiato versi sull’agenda facendoli suoi? Sono felice della vostra iniziativa, perché se è vero che le raccolte di poesie risultano quasi invendibili è anche vero – benchè sia un controsenso – che sono in tanti a leggerne o a scriverne.


Sappiamo che un tuo nuovo libro è in uscita (n.d.r. e presto lo recensiremo!): ce ne vuoi parlare?
È stato pubblicato di recente dalla Graphe.it Edizioni di Perugia, e si intitola “Lame & Affini”. Come ho detto, mi piace girovagare, andare laddove mi porta la fantasia, amo spaziare, affrontare vari argomenti, e questo è un libro che racconta di passioni, di sentimenti tutt’altro che surreali, di trasgressioni terrene, di scelte controproducenti; un’antologia di racconti dunque totalmente differente dalla raccolta precedente, che scava nella parte “scomoda” dell’uomo, quella vulnerabile e giudicata amorale, spesso condannata dai più ma che è insita nell’animo umano. Rinnegata, certo, ma potente, a volte predominante, che ci conduce verso strade dissestate lusingando la nostra vanità. In queste pagine si può trovare sia una cruda assenza di sentimenti che l’esaltazione dell’Amore eterno. Insomma, ce n’è per tutti.


Dunque, argomenti molto diversi da quelli che abbiamo letto Nella tana dell’orco: sono aspetti che si conciliano nella tua personalità di scrittrice, o possiamo considerare un’evoluzione del tuo pensiero e del tuo stile?
Credo si tratti più della mia personalità di scrittrice. La scrittura, per me, è la vera libertà. Attraverso la penna io posso essere chiunque, come spesso dico, posso andare ovunque, posso vivere le più disparate situazioni. Niente è impossibile, non ci sono regole, freni, dunque è come volare senza alcuna meta con il solo scopo di liberare la fantasia. A volte chi viene a trovarmi si stupisce dei paradossi della mia libreria, perché accanto a poesie di Montale, Prevert, del meraviglioso Quintana o altri, puoi trovare le biografie di serial killer; accanto alle introspezioni di Moravia, alla toccante Emily Dickinson o ai libri di fiabe dei Grimm, puoi trovare degli horror o dei romanzi ricchi di passione come “Le relazioni pericolose” di Laclos o “Follia” di Mc Grath. Leggo e scrivo allo stesso modo. Senza un filo logico, un genere, ma seguendo un istinto, un desiderio, un’idea.


Per ringraziarti della cortesia, ti lascio lo spazio per dirci qualcosa a tua scelta.

Voglio ringraziare tutti coloro che mi stanno leggendo e apprezzando, perché il libro cessa di essere di chi l’ha scritto nel momento in cui è tra le mani di chi lo sta leggendo. Dunque ogni singolo apprezzamento è per me degno di nota e non farà mai parte di un insieme, bensì parte integrante e fondamentale di ciò che i miei lettori mi stanno dando: la voglia di continuare, lo stimolo di fare sempre meglio. Richard Bach ha detto: "Uno scrittore professionista è un dilettante che non ha mollato".

Grazie e alla prossima con Lame e affini!
Gloria M. Ghioni

La grande Truffa

La grande Truffa
Gabriele Capolino, Fabrizio Massaro, Paolo Panerai
Pagine 367

30 sono gli anni che trascorse alla ribalta sulla scena economico-finanziaria italiana. 15 quelli in cui continuò a mostrare un serafico sorriso, nonostante il monumentale e disastroso sistema messo in atto. 6 erano i proprietari principali, ma solo in 3 pesavano per ben il 71%. 14,5 sono i milioni di euro cui ammonta ufficialmente la “truffa di tutte le truffe”.
Gli autori presentano il crack Parmalat nei minimi dettagli, ma con un linguaggio comprensibile anche a coloro che non possiedono nozioni di finanza o di economia. Intento dichiarato, infatti, dallo stesso Panerai è che attraverso questo libro “i cittadini truffati o che hanno schivato la truffa abbiano l’opportunità di capire e di imparare; perché la si smetta di dire che la finanza, gli investimenti, in quanto complessi, possono esser non capiti dalla gente comune”. In questo senso in appendice sono presentati anche alcuni consigli pratici per evitare eventuali altre truffe o “riparare”, se fosse possibile, a questa.
Ciò che Calisto Tanzi e la sua “gang” sono riusciti a realizzare appare assurdo e irrazionale, dalla prolungata e menzognera dichiarazione dell’esistenza di utili, alla falsificazione di fatture ed estratti conti di famose banche (una per tutte la Bank of America), per non parlare della creazione di società Buconero ove scaricare le perdite. E se lo stesso governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, dichiarò pubblicamente che “il sistema bancario italiano non avrebbe mai dovuto consentire a Tanzi di gonfiare il crack fino al livello record di 14,5 miliardi di euro”, come mai si è dovuto aspettare l’approdo di Lamberto Cardia (alto magistrato della Corte dei Conti) alla presidenza della Consob, per scoprire o meglio palesare a tutto il mondo l’esistenza di una truffa così gigantesca? La ragione molto probabilmente va ricercata nella connivenza della politica – non è certo un mistero, ad esempio, l’appoggio sfrontato da parte dell’ex segretario della Dc, Ciriaco De Mita, al Cavalier Tanzi. La fama di uomo pio e devoto ha consentito sempre al “nostro” di contare anche sulla disponibilità e protezione di membri di organizzazioni più religiose che laiche, tra i quali spiccano esponenti dell’Opus Dei come il banchiere Gianmario Roveraro, senza il cui intervento Parmalat non sarebbe mai stata quotata in borsa (e insieme non avrebbe mai gonfiato così tanto il crack).
In sedici capitoli gli autori e collaboratori di “Milano e Finanza” hanno cercato di ricostruire, servendosi anche dei verbali (pubblicati anch’essi in appendice al libro), la storia di un’impresa, fondata su uno dei prodotti più poveri della filiera alimentare, il latte, ritenuta redditizia e mantenuta in realtà in vita per anni solo artificiosamente. Il fatto di essere una delle pochissime multinazionali italiane, coadiuvato dall’inarrestabile avanzata del processo della globalizzazione, ha certamente contribuito a far convogliare danaro nelle tasche della Parmalat e quindi (ma perché se li è intascati) del suo patrono, con la complicità del suo team.
Una lettura che richiede, più che conoscenze, interesse e curiosità e capacità di vedere in modo prospettico. Insomma, una lettura attualissima.

L' ideal-tipo del romanzo giallo


La morte nel villaggio (The murder at the Vicarage)
di Agatha Christie
1930
Ed. Mondadori, 192 pg.
Prezzo: 7,80 euro

A St. Mary Mead, come in ogni villaggio annegato nel profondo della campagna inglese, la vita si svolge lenta e morbosa nell' accadere dei giorni, e così pure le vecchie vedove o zitelle del paese tessono le trine e i merletti delle maldicenze sottili e delle calunnie, tra l' apparecchiatura di un thè con biscotti e porzioni di torte fintamente gentili, e la potatura di rose e freschi gelsomini. Non esistono luoghi del genere perchè sono luoghi morti, in cui nulla si muove, i cui abitanti dispiegano la loro vita seguendo un tracciato che sempre è identico e sempre si ripete, che conduce dall' abitazione alla chiesa, o al palazzo delle istituzioni, al lavoro e poi ritorno. Un mondo rassicurante, da caminetti, scialli e boccate di pipa, che dovrebbe essere sincronizzato fin nelle minuzie, e noioso, “un luogo morto e fermo come uno stagno”, come avrà a dire un personaggio di passaggio del libro. Eppure Miss Jane Marple, che davvero è una fine osservatrice e giudice dell' animo umano, coadiuvata in questo interesse dalla sua implacabile memoria e dalla sua scientifica catalogazione dell' umanità per “tipi ideali”, come si etichetterebbero le specie degli uccelli, porge, come servendo una fetta di torta avvelenata, un' acuta osservazione, per la quale chiunque abbia dimestichezza con un microscopio sa bene che in uno stagno, visto da vicino, da morbosamente vicino, pullula una vita batterica e primordiale inaspettata alla visione superficiale dell' occhio nudo. Ed in effetti molto si muove a St. Mary Mead, e non si tratta delle salutari passeggiate delle vecchiette alla chiesa o attraverso i boschetti, né degli spostamenti delle serve ai mercati, questa volta si tratta di un delitto. Qualcuno ha ucciso il colonnello Protheroe, un uomo protervo e inviso a chiunque, e lo ha fatto nella canonica del paese, con un colpo di pistola. Tutti nascondono qualcosa, e nessuno è puro o innocente. Non il vicario, non le vecchie malevole, non le giovani adultere o maliziose, non i truffatori, non chi è avido di potere, né chi ne abusa, non chi è frustrato o fintamente ingenuo, ognuno avrebbe un motivo per uccidere. E di questo Miss Marple è perfettamente consapevole, perchè, come l' autrice del romanzo, ha una visione pessimista e algidamente cinica della natura umana, così come sa che basta saper attendere, e affilare il coltello lucido delle deduzioni, perchè il topo caschi fatalmente nella trappola approntata per lui. Il romanzo di esordio del personaggio più famoso di Agatha Christie, un alter-ego dell' autrice e il contrappunto muliebre di Poirot, è un classico della letteratura di genere per l' architettura solidamente razionale del plot, per la caratterizzazione dei personaggi, asciutta, sfumata e precisa e per la descrizione di un' atmosfera così intimamente british, che, evocando il decadimento della borghesia e del mondo valoriale vittoriano nei primi decenni del novecento, scandaglia le pieghe della società mettendone in luce le distorsioni disumane del quotidiano e delle istituzioni sociali, come la famiglia. Un' ottima lettura invernale per le bigie e nevose notti natalizie.
Vivamente consigliata la postfazione di Claudio Savonuzzi, sconsigliata la versione cinematografica del 1988.

Invito alla presentazione di "Notte di nebbia in pianura" di A. Ricci


Cari amici,
MERCOLEDI' 17 DICEMBRE, alle ore 19.00

nel famoso (per i pavesi) Caffé Sottovento
in via Siro Comi, n. 8, a Pavia.


Angelo Ricci e io chiacchiereremo sul suo
NOTTE DI NEBBIA IN PIANURA


Siete interessati o volete qualche informazione in più? Date uno sguardo alla nostra recensione e all'intervista.
Siate numerosi!

GMG

Invito alla lettura di "Nineteen Eighty-Four": un monito contro il totalitarismo

Titolo: Nineteen Eighty-Four (1984)
Autore: George Orwell
Anno di pubblicazione: 1949

Difficile da dimenticare, il dystopian novel di George Orwell che, pubblicato dopo la fine del secondo conflitto mondiale, è stato riproposto negli ultimi anni all'attenzione del grande pubblico televisivo per aver fornito il titolo a un famoso reality, il “Grande Fratello”.

Il riferimento non è semplice aneddotica, perché l'equazione 1984 = romanzo del Grande Fratello va rivista alla luce di più profonde considerazioni. Laddove il reality “svilisce” l'onnipresenza del Grande Fratello in un compiaciuto voyeurismo offerto ai telespettatori, il romanzo presenta in tinte ben più tetre e inquietanti la realtà di un “futuro possibile” (il 1984) dominato da un totalitarismo oppressivo. La “presenza” del Grande Fratello si esprime attraverso la continua trasmissione sui teleschermi di un volto virile vistosamente assimilabile a Adolf Hitler, ma soprattutto a Iosif “Stalin” Vissarionovič Džugašvili (della sua profonda avversione nei confronti della degenerazione del socialismo Orwell aveva già dato prova nell'allegorico The Animal Farm). Il Grande Fratello è e non è, come una misteriosa divinità della cui reale esistenza nulla è possibile sapere: un feticcio di odio e morte da adorare senza chiedere spiegazioni.

Il mondo di Nineteen Eighty-Four è il regno dispotico della non-verità, il regime della falsificazione: lo stesso protagonista, Winston, ne è in un certo senso il sacerdote. Il potere del Partito controlla le vite degli uomini, distorce le loro aspettative: i tentacoli dell'Ingsoc (Socing) si insinuano nel presente, nel futuro e nel passato, modificandolo irrimediabilmente. Orwell si spinge ancora oltre le prove di mistificazione offerte dai totalitarismi “storici” (nazismo, stalinismo, e il “totalitarismo imperfetto”, il fascismo): la distorsione del passato è attuata con spaventosa, scientifica sistematicità. Le informazioni sono trasformate secondo le esigenze del partito e gli uomini, gli “omuncoli-scarafaggio”, sono educati a convivere con queste continue incoerenze tra il passato “ufficiale” e i loro personali ricordi tramite la tecnica del double-think (bipensiero). “In generale, più si sa, più grande è la delusione: il più intelligente è anche il meno sano di mente.” Questo il principio che dovrebbe legittimare il double- think, il mostruoso sistema di pensiero la cui ortodossia viene tutelata dalla thought-police (psicopolizia) e dal monitoraggio incessante effettuato ad opera dei teleschermi, che trasmettono e ricevono simultaneamente, (che possono essere oscurati ma mai spenti del tutto), registrando, scrutando, riprendendo ogni gesto, parola o sguardo ma anche interpretando un tic poiché “even a back can be revealing”. All'individuo, in Nineteen Eighty-Four, non è permesso esistere, pensare, sognare, tanto meno tentare di realizzare se stesso: la pena di qualsiasi anelito alla libertà è l'annullamento, la regressione allo stato di nonperson (nonpersona), la morte per vaporization (vaporizzazione) e una damnatio memoriae che è il più temibile effetto della manipolazione del passato.

E' questa la vita gloriosa cui alludono i nomi di Victory Mansion, Victory Cigarettes ed i piani triennali che registrano continue sovrapproduzioni nella capitale dell’Oceania: London, Airstrip one (“base aerea uno”). Ma se gli incrementi produttivi sono davvero tali perché il cibo, i beni di prima necessità, la luce elettrica vengono continuamente razionati? Perché le impiccagioni di coloro che vogliono rovesciare il potere, il cinema sempre violento, le denunce da parte degli stessi figli nei riguardi di genitori, traditori del partito? Perché il mondo scivola verso l’oblio nel bisogno impellente di un gin con chiodi di garofano mentre le tue stesse ossa ti dicono che non può essere stato sempre così?

Winston Smith (il nome ricorda i patriottici appelli di Churchill, mentre il cognome è tipicamente inglese - e non a caso quello del suo antagonista, O’ Brien, è peculiarmente irlandese a rimarcare l’ impossibilità di cancellare atavici rancori), è una figura fragile la cui salute è minata da un’ ulcera alla caviglia: il fisiologico ribadisce il messaggio metaforico: la persona non si regge in una società in cui vengono tolte la libertà, la ragione e la serenità.

Così i tre slogan “WAR IS PEACE, FREEDOM IS SLAVERY, IGNORANCE IS STRENGTH” (GUERRA E' PACE, LIBERTA' E' SCHIAVITU', IGNORANZA E' FORZA) riecheggiano tristemente rivelando i veri scopi del partito: la guerra con Eurasia ed Estasia, il metus hostis, per distogliere l’attenzione dai problemi interni, la xenofobia per tacitare l’odio verso le gerarchie; la libertà entro la misura stabilita dal fantomatico Big Brother, libertà di essere come gli altri ti impongono di essere; l’inconsapevolezza come forza dei gerarchi.

Ovviamente le restrizioni valgono per tutti meno che per i proles (prolet), trattati alla stregua degli animali perché subalterni al punto da non essere considerati nemmeno umani… eppure dalla massa proletaria deve, secondo Winston, venire la riscossa. In attesa che qualcosa cambi il solo modo per non dimenticare, per trattenere qualche frammento dilaniato di una storia “a brandelli” è scrivere. La scrittura come “emorragia dell’anima” che fa riaffiorare da uno stato comatoso memorie a lungo sopite e con esse dubbi “principi di certezza”. La prosa del protagonista diventa quasi maniacale, compulsiva, tralasciando maiuscole e punteggiatura nell’urgenza di esternare la rabbia, nel più distopico degli stream of consciousness. E se Winston diventa nel corso del romanzo un dead man walking, il suo assassinio un vero e proprio processo di annichilimento, in cui la persona rinnega sé stessa per amare un Big Brother che non conosce il perdono.

Si tratta di un romanzo che è al contempo storia dell'orrore e allarme per il futuro, e potrebbe essere tranquillamente accostato a Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt in un'ipotetica biblioteca della libertà. Un romanzo che, per dirla con Jonas, può educare a una “euristica della paura” che ci spinga ad evitare estremismi, oppressione, e qualsiasi forma di ottusità mentale.


Laura Ingallinella & Eva Maria Esposto Ultimo

Nuovi misteri d'Italia


Nuovi misteri d’Italia.
Carlo Lucarelli (I casi di Blu Notte)
Einaudi. Pagine 213.

Nove diversi casi. Stesso fil rouge: tragici eventi che stravolgono vite spesso innocenti, ma anche alcune inveterate abitudini di una popolazione, quella italiana, che pure si ritrova a lottare (ancora oggi) contro quello “zoccolo duro”, fatto di omertà e contraddizioni. Caso eclatante in questo senso è certamente il comportamento dei vari reparti delle forze armate, che si adoprarono in depistaggi ai danni gli uni degli altri pur di non risolvere (se così si può dire) il giallo che circonda tuttora la strage di Usitca.“La verità è lì, potremmo prenderla, guardarla, toccarla, leggerla, ma sopra c’è qualcosa, una menzogna, una deviazione, una bugia che ce la nasconde, la fa sparire, la rende segreta”. Queste sono le prime righe di un libro, in cui il conduttore del ciclo televisivo “Blu notte” riesce ad indagare, in un freschissimo stile giornalistico, alcuni dei casi che più hanno scosso l’Italia tra gli anni Cinquanta e Ottanta del secolo scorso. Carlo Lucarelli riesce ad ipnotizzare il lettore, quasi costringendolo a scorrere parola per parola i casi da lui proposti; è in grado di trasformare ogni minimo e familiare contesto nel più feroce dei particolari. È così che una apparentemente ruotinaria attesa in una stazione ferroviaria diventa oggetto di una descrizione tremenda, lapidaria, veloce come l’esplosione dei diciotto chili di nitroglicerina per uso civile e cinque chili di Compound B, che hanno lasciato prima attonita e poi disperata un’intera città e non solo: “Sala d’aspetto di seconda classe. 2 agosto 1980. Ore 10,25”. Così prese avvio la strage di Bologna. E la precisione chirurgica, di chi non lascia nulla al caso, è chiaramente riservata anche a quelle descrizioni di dinamiche di delitti efferati e spietati come quello del Mostro (o mostri?) di Firenze.
Misteri irrisolti, che pure, dicevamo, incisero sui costumi e sullo stile di vita degli italiani, che con il “delitto” (o forse è stata vittima di un malore in seguito ad un pediluvio? …) di Wilma Montesi presero ad usare correntemente i termini “scandalo” e “memoriale”; oppure che esclamavano: “Ma è giusto far finta di uscire, io e mio marito, andar al cinema e lasciare la casa ai nostri figli?” perché il “Mostro aveva” davvero “cambiato la cultura, le abitudini”.
Lucarelli riesce a rendere con estrema lucidità uno spaccato di circa trent’anni, informando e al contempo insinuando dubbi nel lettore su eventi tragici che per alcuni, purtroppo, rimangono ancora ferite aperte. Il Bandito Giuliano, Wilma Montesi, Alceste Campanile, Antonino Agostino ed Emanuele Piazza, Beppe Alfano: tutti personaggi scomodi che per un qualche motivo andavano eliminati fisicamente e poi moralmente (la tattica della mafia, come sottolineò Sonia Alfano, però, quel che è peggio, forse anche con la collaborazione dello Stato). E poi le stragi che si sarebbero dovute evitare: Ustica e Bologna, che in comune con la vicenda del Mostro/i di Firenze hanno l’insensatezza e l’efferatezza.

I dimenticati: Ardengo Soffici, Arlecchino

Arlecchino
di Ardengo Soffici
Edizioni di Lacerba, 1914


Libro che Simonetti definisce «arcadico, ispirato ad un mondo che la società contemporanea considera al di là del tempo e della storia».
Benché pubblicato per le edizioni di Lacerba, è ancora connesso al bozzetto toscano, dove c’è ancora elegia, con collegamenti a Renato Fucini (macchiaiolo, ma in Arlecchino i personaggi anagraficamente connotati) e a Giuseppe Giusti (per quanto riguarda il retroterra storico e culturale della società fiorentina).

L'opera è divisa in 9 parti, narrate sempre in PRIMA PERSONA:

PRIMAVERA – già uscita sulla «Voce» tra 1910-11, contiene la premonizione delle successive scelte artistiche: vuole risolvere nell’allegria il dramma spirituale e artistico (diverso dal Lemmonio Boreo, opera del 1912). La vita viene infatti vista come una combinazione di IRONIA e FATALITA’.

Io, Menalio, disgraziato delle tre tragedie – filosofica, sentimentale e finanziaria – ho visto stamani il viso della felicità. Il sole che finalmente ha sbaragliato e respinto di là da i monti la sporca nuvolaglia di l’altro giorno, mi batteva in pieno sugli occhi quando mi son destato, e io sono uscito.
[da Primavera, p. 5]


UNA SERATA IN FAMIGLIA – Dissacrante critica alla religione popolare; dialoghi su questioni contrastanti, tutte scandite dalla nenia delle preghiere, ripetute meccanicamente, con toscanismi e adattamento latineggiante.
Rinuncia finale al suicidio in nome di un amore per la vita. P.19

ELETTRA - amore giovanile, raccontato per frammenti. Sono moltissimi i toscanismi, che rispecchiano il gusto per la descrizione fisica e morale. Cambia intanto la concezione della DONNA: diversamente dal Giornale, la donna non è tentazione, sgualdrina, infedele, oggetto di desiderio.

LA VITA DEGLI UOMINI – carrellata di ricordi a cui l’autore assiste, spettatore del racconto.

IMPRESSIONI – Suggestivi squarci bozzettistici, in cui è il paesaggio toscano a far da padrone. Una vera tavolozza di colori.

ARLECCHINO – lo scritto è diviso in vari paragrafi. Compare qui l’importante concezione d’affrontare la vita e il dramma con allegria, cosa che manca nel Lemmonio Boreo del 1912. Torna la tematica della rinuncia come atto d’amore:
Io sentii allora che potevo amarla, che forse l’amavo; che sarebbe bastato prender la sua piccola mano posata sulla ringhiera e metter su quella mano un bacio muto – ma non dissi nulla e non mi mossi. A che pro? Tutti gli amori finiscono così male, che l’atto più profondamente amoroso è forse di nascondere agli esseri amati i palpiti del nostro cuore.

anche in Giornale di bordo si legge:
18 febbraio
Tutti gli amori finiscono così male che l'atto più profondamente amoroso è forse quello di non farsi amare da colui che amiamo.


FIRENZE-PARIGI
– è questa una delle parti più apprezzate dalla critica: si tratta di un vero e proprio diario di viaggio, dove l’autore riesce ad astrarsi, per carpire e registrare tutti i particolari del viaggio. Si ritrova uno straordinario interesse per le osservazioni paesaggistiche e realistiche che spesso innescano RICORDI e IMMAGINAZIONI.
Non mancano le lodi della Francia, paese amatissimo dove, ricordiamo, Soffici ha trascorso parecchi anni della giovinezza, e ha mantenuto rapporti fino alla fine della Prima Guerra.
Si conclude con un destinatario ben preciso: è una donna appena conosciuta che diventa referente privilegiata.

Beura
Come tristi e belli dolorosamente tutti questi villaggi solitari rincantucciati a piè delle rocce, bigi col loro tetto nero, non rallegrati da nessun colore. Non fossero alcune pertiche cariche di spighe di granturco, giallissime, a una terrazza.

Quattro donne un po’ gozzute e vestite di colori cupi vanno per una strada tortuosa, curve sotto grandi gerle piene di scappie fino all’orlo, e dall’orlo in su ricolme di pezzi da catasta – le mani alle cinghie e la faccia terrea, abbrutita completamente.

[p. 73]

TRE BACI PERDUTI – sono stralci di dialoghi in situazioni comunicative molto diverse, tra battute asciutte, mai introdotte da verbi di dire o raccontare. Non mancano interessanti descrizioni.
- Parti volentieri?
- Per la madonna!
- Allora niente paura?
- Uhm! Se si torna, si torna – che ore sono? Bisogna che prenda il tram: alle dieci devo essere in caserma.
Era un soldatino giovane, bianco e rosso come una bambola, i baffettini neri arricciati, e il sorriso luminoso d’una ragazza.
Guardavo i suoi occhi lucenti come i bottoni della sua giacca, profondamente aperti sulla vita, senz’ombra e senza incertezze; e quando mi tese la mano, al pensiero che quegli occhi si sarebbero forse chiusi fra pochi giorni per sempre, che quella carne fresca sarebbe imputridita chi sa dove per l’oscura volontà di qualcuno cui egli obbediva senza neanche saper perché avrei voluto stringerlo al petto per la prima e per l’ultima volta perché portasse almeno con sé quel ricordo di simpatia che poteva fargli del bene, chi sa?
Ma gli amici eran lì, il tram partiva, e mi contentai di augurargli, come gli altri, buon viaggio e buona fortuna.

[pp. 86-87]

CHIACCHIERE – Scambio di dialoghi tra il narratore e una sua vecchia amante. Tutto il discorso è teso a dimostrare che anche la donna mentiva e non provava veramente amore. Si percepisce tutto il turbamento nascosto dietro alle risposte evasive e poco convinte della donna: la comunicazione è qui asservita alla volontà di compiacere l'altro.

Quel che colpisce dell'intera opera è il grado di modernità che ancora ricopre: sia per tematiche che per stile, Soffici è uno scrittore piacevole, nonché illuminante anche per i lettori d'oggi.

Gloria M. Ghioni

* i brani sono tutti tratti da A. Soffici, Arlecchino, Firenze, Vallecchi, 1987 [1^ ed. 1914]

Tutto scorre, ma non è detto che non ci si possa fermare


Francesco Scatigno,
Lo scarabeo

edizioni Bastogi
pagg. 43

prezzo 7 €

Lo scarabeo, che il titolo e la copertina suggeriscono, era ai tempi e nei luoghi degli antichi faraoni un animale sacro rappresentante in un certo qual modo la nozione stessa del divenire. Infatti al momento del trapasso per propiziarne l'arrivo nell'Aldilà era comune usanza inserirne qualche effigie nei sarcofagi che etimologicamente mangiavano le carni per restituire la libertà all'anima del defunto. In realtà in questo agile volumetto, poco più che un racconto lungo in effetti, lo scarabeo si presenta come un oggetto apparentemente inutile ai fini narrativi ma che ad una lettura più attenta si rivela essere la vera chiave portante di tutta la narrazione, che senza questa interpretazione potrebbe rivelarsi un po' futile e scontata. Gli eventi seguiti da una morte in famiglia tacitamente accettata dal "moriturus" potrebbero sviare il lettore più sprovveduto ad intendere l'autore come l'ennesimo scrittoruncolo che gioca sulle passioni umane per attrarre il pubblico (e non faccio esempi in tal senso, intelligenti pauca). Ma non è così. Non ci troviamo certo dinanzi ad un narratore particolarmente ricercato o completamente estraneo alla vicenda, ma il suo stile è fatto di brevi ed incisive proposizioni, perlopiù riflessioni e non descrizioni, che ricomposte come i tasselli di un puzzle restituiscono un'immagine d'insieme della realtà letteraria (perché non si scrive mai il vero, ma il verosimile) sicuramente pensata e ragionata. L'incipit in versi, che riprende tanti temi dalla filosofia antica fino a quella moderna (Socrate, Eraclito, Leibniz ecc...), sintetizza e specifica il significato di una trama certamente esile ma non insignificante. Il senso complessivo dell'opera è da leggersi con una certa cautela, macchiato qui e lì da un mistico cripticismo: la morte, nella sua accezione più fisica, non è altro che un passaggio, un proseguimento di un viaggio di cui bisogna essere consapevoli. E qui la scoperta di Renato che la accetta silenziosamente rifiutando ogni cura al proprio male, poiché è consapevole di dover continuare il suo viaggio e di essersi fermato solo in una tappa intermedia per ora (come un novello Odisseo, sua moglie prende il nome di Calipso). Il frutto di questa tappa intermedia è la figlia Rebecca, vera protagonista del racconto che accoglie, all'inizio con una certa difficoltà e poi completamente, il messaggio del padre deponendogli nella bara uno scarabeo nero di pietra.
Eraclitea la conclusione del panta rei, ma non finisce qui. E' vero sì che tutto scorre, ma se l'acqua del fiume arriva al mare la nostra vita dove va a finire? Nel punto d'arrivo che c'è dopo la morte, ci risponde Scatigno. Prima di questo arrivo ci si può tranquillamente fermare, ma sempre nella consapevolezza di non aver raggiunto nessun punto stabile di equilibrio. Il mondo appare così come un giocattolo che dopo la morte non è più adatto. Concludendo con le parole dell'autore - la morte, quella voluta, è il momento in cui si capisce il gioco e lo si affronta consapevolmente, si smette di essere bambini innocenti e si diventa consapevoli delle proprie azioni - . E il "giocattolo" del mondo è pronto per passare nelle mani di chi verrà dopo di noi.

I dimenticati: Ardengo Soffici, Giornale di bordo




Segue un nuovo invito alla lettura, che spera di riavvicinare alla lettura di Ardengo Soffici (vd. una rapida biografia). E' quindi molto ultile leggere i brani riportati in fondo, a integrazione del mio scritto.

GIORNALE DI BORDO
Su «Lacerba» dal 1913
Firenze, Libreria della «Voce», 1915 [Vallecchi]

Siamo davanti a quella che Carlo Maria Simonetti definisce nel suo saggio introduttivo ad Arlecchino (Firenze, Vallecchi, 1987) «PROSA ANTINARRATIVA DI DERIVAZIONE IMPRESSIONISTICA», una prosa che si inserisce tra la TRADIZIONE del bozzetto-frammento lirico e lo SPERIMENTALISMO d’avanguardia (ricordiamo l’efficace formula “rivoluzionari per vocazione, ma moderati per tradizione”, 23 febbr.). Preciso subito che la definizione è adatta sia ad Arlecchino (di cui parleremo presto) che a Giornale di bordo, visto che i libri sono connessi da richiami intertestuali, a testimoniare un’OPERA UNITARIA PENSATA PER COLLAGE DI FRAMMENTI. Ad esempio, l’alter-ego dell’autore Menalio torna in entrambi i testi.

La concezione che emerge da molti dei frammenti di quest’opera è quella di una SCRITTURA LIBERA e SPONTANEA (cfr. 1 genn.), AUTOBIOGRAFICA (contrariamente alla tradizione del romanzo, cfr. 28 feb.), in cui il valore della PAROLA STA A SE’ (cfr. 11 febbr.), OGGETTIVANTE (cfr. 13 magg.). A questo ideale di concretezza si ricollega il fine dell’arte: un’arte che ESASPERI i SENSI (cfr. 2 dic.; qui forse una delle maggiori tangenze con il senso avanguardistico provocatorio d’inizio secolo).

È piuttosto evidente che una simile concezione dell’arte non passasse sotto silenzio all'epoca: in particolare, è lo stesso Soffici a riflettere sulla SPENDIBILITA’ DELLA PROPRIA LETTERATURA (cfr. 15 apr.), e senza apologie vere e proprie arriva a ribadire la propria preferenza per una letteratura fatta di brevità ammiccante, allusiva.

Non tutti recepiscono il messaggio VITALE, talvolta SARCASTICO, IMMORALISTICO, CINICO, IRONICO, di questo scrittore che concepisce l’arte come FELICITA’ (cfr. 19 genn.); c’è un continuo movimento tra approvazione e scontro da parte dei compagni vociani. In particolare, il lato sentimentale che emerge in non pochi punti dell’opera (qui ho riportato solo i più ironici che smontano paradossi assodati, come 10 giu. – 15 sett.) non viene mai apprezzato dagli amici futuristi milanesi (cfr. 8 ago).
Difficile e combattuto infatti il rapporto che unisce Soffici ai futuristi. Egli ritiene che il futurismo sia necessario, come forma di SVECCHIAMENTO dell’ARTE italiana, per via della sua carica eversiva (“l’unico movimento a cui possiamo associarci” scrive nelle lettere). Le soluzioni tecniche sono però diverse (in Soffici convivono un desiderio di ordine di precisione e di chiarezza che manca al futurismo milanese):
«Siamo per l’eleganza, la raffinatezza e lo spirito, contro la violenza, il virtuosismo e la serietà».
(ultimo numero di «Lacerba»)
Pertanto, al futurismo imperante non aderisce mai davvero, ma l'incontro-scontro con il gruppo di Marinetti è comunque un momento di efficace chiarimento della propria posizione, dal momento che rifiuta la morte dell’io, il paroliberismo (che, anzi, critica con giudizi piuttosto impietosi) e soprattutto ritiene che la natura e l’arte siano un fatto di cuore. Questa sua posizione lo porta ad un ISOLAMENTO di cui è consapevole, al punto da non nascondere un certo COMPIACIMENTO ORGOGLIOSO (cfr. 2 mar.) che possiamo ricondurre ad esempio allo Zarathustra e a Cardarelli, in quanto la solitudine è riconosciuta come necessaria al creatore (cfr. 21 nov.). Non manca neanche una traccia di TITANISMO post-romantico (cfr. 23 genn.), che ha una forte vicinanza al Rimbaud di Aube. Solo nella MEMORIA il poeta potrà quindi trovare il rifugio per sentirsi poeta e cantare se stesso.

Dunque, Soffici è un uomo che rifiuta la MORALE tradizionale (cfr. 17 genn.) e si sente misura ed interpretazione dell’universo (cfr. 28 ott.), al punto da rinunciare a una serenità religiosa (cfr. 14 genn.).
D’altra parte, è invece la FUSIONE CON LA NATURA, descritta spesso “solarmente”, a testimoniare un’assoluta ADESIONE ALLA VITA (cfr. 1 apr., in cui il valore rigenerante dell’acqua richiama lo Slataper del Mio carso), anche nei momenti di DIFFICOLTA’ (cfr. 17 mar.), quando occorre mantenere un atteggiamento STOICO (cfr. 5 febbr.)

Gloria M. Ghioni


I seguenti brani, che corredano l'invito alla lettura, sono tutti tratti da A. Soffici, Giornale di bordo, Firenze, Vallecchi, 1938:

1 gennaio
Ogni volta che pigli la penna in mano, tu ti prepari a far della letteratura, tranne quando tu la prendi per scrivere alla tua amante o al tuo amico, - se sei un uomo. Il tuo libro, tu lo sai, dovrebbe essere scritto con lo stesso stile di quelle lettere; ma tutti ti accuserebbero di non rispettare l’arte. L’arte deve dunque essere necessariamente un po’ falsa – un artificio, in fondo – per piacere agli altri. Perché gli altri non ti amano. Se ti amassero ,capirebbero la tua delicatezza, sarebbero offesi ogni volta che ti cogliessero al balzello della frase ben tornita, o della parola che scolpisce e colorisce altrimenti che per la forza interna della tua passione messa in geroglifici.
Anche sono guasti da pregiudizi tradizionalistici: chiamano stile la maniera di esprimersi particolare di questo o quello reputato grande, e non capiscono che basta esser vivi per essere perfetti.
Così, tu hai bisogno di lettori nuovi, cordiali, amorosi che sappiano leggere fra le linee del tuo scritto: di lettori liberi da preconcetti; sensibilissimi. Ma questi lettori, probabilmente, non gli troverai, e ti converrà esser falso se vuoi piacere, o oscuro e vilipeso se vuoi esser sincero.
Sii sincero lo stesso. I lettori, tuoi, verranno o non verranno. – Forse verranno.

14 gennaio
Spalanco la finestra, e a dispetto del tramontano che spazza l'aria gelata, mi tuffo tutto nel cielo stellato. Che notte, amici!
Avete mai pensato che, il numero delle stelle essendo sterminato, se i nostri occhi avessero una potenza qualche migliaio di volte maggiore a quella che hanno e potessero scorgere anche gli astri più remoti, il cielo ne apparirebbe sì gremito, sì compatto, senza un filo di tenebra, che noi ci sentiremmo come sotto una volta di fuoco?
Questa idea mi si presentò n modo sensibile per la prima volta anni fa, a Milano, in una cappella di Sant'Ambrogio vecchio, sotto una cupola bizantina di mosaico tutto d'oro - e mi ha poi sempre colmato, non so perché, di gioia.
Ma lì v'era nel centro un dio rosso e turchino che stonava maledettamente...

17 gennaio
Mi par d'aver risolto in un lampo la questione morale.
La morale, dicono, è necessaria all'Umanità.
Concediamolo; e facciamo dunque così: che l'Umanità si abbia la sua morale, e ogni Individuo ne faccia a meno.

19 gennaio
Il solo uomo veramente degno di questo nome è l’artista. Meglio dello scienziato e del filosofo egli conosce il mondo nella sua pienezza e bellezza, e meglio di loro sa goderne. La felicità è una forma dell’arte.

23 gennaio
[...] Gloria, grandezza! Ci sono dei giorni, così, in cui uno si sente tanto pieno, tanto sublime, tanto futuro, che vorrebbe avere i biografi alle calcagna.

5 febbraio
Della durezza tragica. – Se ti lagni sei vile. Sii feroce con te stesso e con gli altri; ma più con te stesso, perché sei più forte e più nobile. (E solo a questo patto).
Tu sei il padrone della vita e della morte. Tu scegli la vita: dunque stringila dappresso e non ti perdere in parole inutili, in piagnistei. Se fosse clamente, tu l’odieresti, perché ti sentiresti umiliato dalla sua compassione. […] Appena monto nel bastimento, io vo subito a prua; mi levo il cappello e mi sbottono la giubba e la camicia perché il vento mi percota in pieno e senza ripari. E godo crudelmente di sentirmi morso, strapazzato, schiaffeggiato dalla raffica; di sentir che ogni metro guadagnato dal bastimento e da me è una conquista della violenza contro la violenza.
Disprezzo, odio e vomito sui paurosi, quelli che si rimpastranano e scappan brontolando sotto coperta. […]


11 febbraio
[…] Poter fare che la parola non sia un membro di un discorso condotto, sviluppato verso un fine, chiaro alla ragione cattivata passo a passo, ma un segno autonomo, folgorante, irradiante, propagantesi in mille onde suggestive, slargantesi in tutte le sue possibilità evocative, senza intermediari, fino al seguente che gli si associa e lo giustifica, ed è a sua volta giustificato ed illuminato da esso per l’espressione finale di un momento di vita!
Posar le parole come il pittore i colori e vedere il mondo spiegarsi nel suo splendore! […]

23 febbraio
[…] Italiani, cari Italiani, voi siete pur sempre quelli! Prudenza, circospezione, calcolo, paura del nuovo e dell’ardito – serietà e luoghi comuni. Come se il mio spirito non fosse libero, immensamente, spregiudicato, avventato, leggero, vagabondo, pronto a volare verso il minimo raggio di vita – e non odiasse appunto tutte codeste virtù che rendono voi così saggi, così rispettabili, e così mediocri!

28 febbraio
Il romanzo, la novella, il dramma sono forme d’arte ibride, transitorie, destinate a sparire per lasciar libero il campo al puro lirismo. – E all’autobiografia.

2 marzo
Malinconia di non somigliare a nessuno, d’essere in disaccordo con tutti!
Orgoglio immenso di sentirsi soli, tremendamente; costretti a proiettar lontano nel futuro tutta la nostra anima affamata di simpatia vera, di ardente fraternità!

17 marzo
A Fiesole, a Bellosguardo, ad Arcetri ho respirato il profumo delle rose. Sdraiato all’ombra delle ginestre fiorite sulle alture dell’Incontro ho guardato le allodole inabissarsi trillando nell’azzurro infiammato di giugno. Ho bevuto a Carmignano l’aleatico e il moscadello fra una brigata d’amici. Ho letto Dante e Platone in una vigna nel rignanese sul far del giorno: ho dormito fra le canne dell’Arno vicino a Camaioni.
Ho portato a spasso i miei amori per le città e per i campi. Ho posseduto la gioia sotto tutti i cieli.
Sia benedetta la vita.

A Parigi, in una camera oscura del Boulevard Saint Michel, ho sofferto il freddo e la fame. Ho passato una notte di pioggia sur una panchina del Quai Voltaire. Una donna straniera ha calpestato il mio cuore dalle parti di Vaugirard: altre donne l’han calpestato un po’ dappertutto. Un amico, due amici, tre amici mi hanno fatto soffrire.
Ho pensato seriamente alla morte nella foresta di Saint Germain, a Basilea sul ponte del Reno, in riva al mare nel golfo di Genova; più d’una volta in questa vecchia casa campagnola. Sono stato infelice sotto tutti i cieli.
Sia benedetta la vita.

Bonistallo, 1 aprile
Pioggia d’aprile! Scendimi sulle palpebre socchiuse, come un milione di bianchi baci di giovinetta. La mia carne sana ti riceve come fa la terra bruna aperta nello spasimo della gestazione. Con voluttà, come fanno le raganelle nel delirio tra il pacciame laggiù nei fossati. Le mie labbra ti bevono, più avide delle foglie nuove un po’ sorprese della tua carezza amorosa. […]

15 aprile
Rileggo questo giornale e mi domando se davvero non è cosa troppo sciocca, vanesia – impudica magari, uno scribacchiar così giorno per giorno senza costrutto; spiattellare in questa maniera tutto ciò che mi passa per la testa. – Questo mostrarsi nudo agli occhi di tutti […]. Le cose più gravi sono sfiorate appena, prese come di sottogamba e stiaffate là, a tratti, a bottate, superficialmente, in una parola, e secondo un’estetica e una logica da lazzarone. Mi domando se non è uno scandalo, alla fine.
Ebbene: sarò categorico. È proprio questo che voglio: affermare col fatto ch’io non credo alla superiorità delle lunghe fatiche, dell’opere vaste e sublimi. […]
Esistono due tipi di letteratura. Una, misurata, architettonica, esplicativa […] degli spiriti lenti e degli imbecilli: l’altra riassuntiva, in iscorcio, sommaria, furbesca, per così dire, tutta fatta di cenni, di strizzatine d’occhio passando, di sorrisi sottili, e che solo gli amici, gl’iniziati, i fratelli possono capire e gustare. La mia. […] io, meno timoroso o più sfrontato dispregiatore della maggioranza leggente, mando per il mondo le mie farfalle, i miei foglietti volanti, i miei petali sciolte. – Giacchè, sia detto con piena franchezza e per concludere, qui si marcia sur una promessa: il genio che vivifica e rende tutto degno d’esistere e d’essere amato.
È così che uno di questi giorni, stamperò un menu di locanda, se mi avrà procurato un’ora di contentezza, o un’indigestione.

13 maggio
Ideale di scrittura – Ah! Poter avere uno stile che sbucciasse il mondo sensibile come un’arancia che ti metterei davanti col suo profumo e il suo sugo colante! Che ogni parola fosse pretta e concreta al pari della cosa stessa che significa, e si movesse nel saluto della frase come le molecole di un corpo in perpetuo travaglio vitale! […]

10 giugno
Non mi piace che la polizia s’immischi in cose amorose; ma semmai, nel caso di una donna còlta in fragrante adulterio, si cominci coll’arrestare il marito. Nove volte su dieci è colpa del marito.

8 agosto
Ricevo degli amici futuristi di Milano questa lettera raccomandata:
«Carissimo Soffici,
Ti scriviamo preoccupatissimi da molte voci correnti le quali (da noi combattute per solidarietà) collimano però colla nostra personale opinione (che teniamo per noi). Queste voci si riassumono in questo:
il tuo «Giornale di Bordo» è SPAVENTOSAMENTE SENTIMENTALE, malgrado il grande ingegno che contiene.
Carrà soggiunge che in ogni numero potresti finire colle parole: CERCO UN’AMANTE.
Boccioni è disposto ad aprirti il suo harem e a tenerti anche il lume. […]».

15 settembre
- Con voi, signora, ho visitato il paradiso e l'inferno; ora passeggio con le altre per i giardini pubblici.

28 ottobre
L’universo è una sfera il cui raggio è uguale alla portata della mia immaginazione.

21 novembre
Troppi amici, troppi impegni, troppe faccende. Sbarazzarsi di tutti i legami, tagliarsi dietro tutti i ponti, non conoscer più nessuno, non scriver lettere, nascondere con gelosia il proprio indirizzo.
Realizzare la perfetta SOLITUDINE!
(Ci vorrebbero però dei capitali).

2 dicembre
Portare ogni senso all’esasperazione, al parossismo dell’impressionabilità, ecco il fine delle arti prese nella loro purezza.
Il mondo percepito in una allucinazione infiammata: penetrato, bevuto in tutto il suo essere concreto da ogni singolo senso.

30 dicembre
Grandezza letteraria: Non si tratta che di scrivere parole vive.

Viaggio al centro della terra


Jules Verne

Viaggio al centro della terra
pp. 289

1^ ed. 1864


Scalate ai cieli, fin sulla luna, immersioni negli abissi oceanici, viaggi nelle tempeste sui palloni aerostatici, discese profonde fino alle viscere della terra: tutto questo Jules Verne ci ha raccontato, tutta questa è la sua ansia di conoscenza. Il XIX secolo è una ciminiera in continua attività, che mastica materiali, mastica la terra, se ne appropria, la possiede, e la trasforma in fumo nero e grigio che si disperde nell' aria. Così sono i romanzi di Verne: essi sono tragitti, percorsi lineari, appropriazioni di segmenti di realtà sconosciute, essi dono segnati da un famelico appetito conoscitivo che, se da una parte è meraviglia del mondo e voglia di conoscerlo, dall' altra è dominio, e imposizione della superiorità umana sulle altre specie e sulla vita della terra. La Natura non è più spettacolo, ma è una natura antropizzata, cioè un mezzo subordinato ad un fine.


Dialogo al centro della terra: “In ogni caso non possiamo rammaricarci di essere venuti fin qui. Lo spettacolo è magnifico e...” Risposta: “Non si tratta di vedere: mi sono proposto un fine e voglio raggiungerlo. E non parlarmi di spettacolo!”.


E così anche il celebre “Viaggio al centro della terra” si allinea al clima positivista e progressista della seconda metà del XIX secolo, c' è in esso una fiducia nelle capacità cognitive e manipolatorie dell' uomo, nulla è impossibile per l' uomo, l' uomo è l' essere nato per spaccare l' orizzonte dell' impossibile e allontanarlo da sé in un nuovo tracciato. In una tranquilla domenica di maggio del 1863, il professor Lidenbrock, docente universitario di Amburgo, mentre sfoglia un vecchio libro appena acquistato, scopre fra una pagina e l' altra, una pergamena: l' iscrizione di Arne Saknussem, l' esploratore islandese scomparso nel nulla. Così, decide di ripercorrere la spedizione dell' antico esploratore, accompagnato in questo suo folle viaggio dal nipote Axel e dalla mite guida islandese Hans. Il viaggio, lungo, difficile, sarà pieno di insidie, di mostri inattesi, di sconvolgimenti naturali nelle viscere della terra. Un classico della letteratura d' avventura che, se non si prodiga nell' accurata analisi psicologica dei personaggi, perchè intende convogliare tutta l' attenzione del lettore sull' andamento sussultorio della trama ( che però talvolta pare incepparsi, pare avere disperato bisogno di effetti speciali, di colpi si scena artatamente innestati, più che intesi come esiti necessari e naturalmente prodotti), è pure godibile ad ogni età, ed è un buon crogiolo di indizi circa la temperie culturale del fumoso XIX secolo e delle sue rivoluzioni meccaniche e del pensiero.

Arancia meccanica


Arancia meccanica
di Anthony Burgess

1^ ed. 1962
Titolo originale: A clockwork orange

Mai capitato un sabato sera liscio e svogliato? Alex, il narratore di Anthony Burgess, passa le sue serate da “cinebrivido” al Korova Milkbar, uno di quei posti dove puoi “glutare latte corretto” e sedere ad osservare “mammole” col “truglio dipinto” ed il “planetario imparruccato”. L’anti- eroe del romanzo, il cui nome propone un personaggio “a- lex” cioè “a- morale”, ci racconta una storia di violenza perpetrata dalla sua banda di teppisti ai danni della società e successivamente, in un feedback positivo votato all’autodistruzione, dalla società, ottusa ed intorpidita, a scapito del protagonista, “l’artista del male”, colui che aggredisce e picchia e violenta ascoltando Beethoven.
“La mia parabola, e quella di Kubrick- afferma Burgess- vogliono affermare che è preferibile un mondo di violenza assunta scientemente a un mondo programmato per essere buono ed inoffensivo”. Il problema etico, teologico va a cozzare contro la scienza: scegliere il progresso a tutti i costi, una società mondata dalla criminalità che funzioni così come è stata programmata, come un’arancia meccanica in cui il conformismo ed un’ inevitabile rettitudine imperino o piuttosto rischiare di imbattersi nell’inferno della crudeltà umana preservando il libero arbitrio? Il lettore è costretto a schierarsi, Alex lo rende complice dei suoi reati, implicitamente gli chiede solidarietà, lo obbliga ad interrogarsi perchè cosa sarebbe stato l’uomo senza l’albero del bene e del male? Adamo non è Adamo se la mela non gli viene neanche offerta… così la disobbedienza diviene gesto di emancipazione da chi vuole appiattire e livellare chi volutamente fa il diverso. Una diversità che si riflette nella lingua “nadsat”, l’ impasto verbale tra cockney e russo che Alex usa con scioltezza.
La malvagità distopica del protagonista è un riferimento all’ incremento della criminalità che la stampa britannica constatò alimentarsi dell’insoddisfazione dei giovani del dopoguerra. La soluzione deterrente di una situazione in procinto di degenerare è, nel romanzo, una terapia del disgusto, il “metodo Ludovico”. Significativo che la “cura” scientifica tragga il suo nome da quello del musicista autore della nona sinfonia. Sembra quasi che si venga a creare una sorta di contrappunto, di dialettica, tra una scienza più pericolosa dello Stato perché, come dice Kubrick, in grado di determinare effetti più persistenti sulla società, ed un’arte che, prima di diventare “ancilla scientiae”, è per sua natura “amplificatrice emozionale” e veicolo di speranze palingenetiche.
A causa di alcune scene giudicate dalla critica “poco digeribili” si accusò l’autore di violenza gratuita senza tener conto del messaggio sociale che la vicenda racchiude. Burgess, implicitamente, stabilisce un paragone con il ruolo svolto dalla tragedia classica parlando del ritarre la violenza come di un “atto catartico” in una lettera inviata al “Los Angeles Times” nel 1972.
Non va dimenticata tra l’altro la consapevolezza con cui l’autore parla di seconde possibilità per i criminali: l’episodio dell’ aggressione di Alex ai danni della moglie di uno scrittore, ( il quale, per un curioso processo metaletterario, scrive un romanzo omonimo a quello di Burgess), contiene una notazione biografica riferita allo stupro della propria moglie ad opera di tre americani durante i bombardamenti a Londra… l’ ennesima prova di come l’arte sia visceralmente legata alla vita vissuta.

Esposto Ultimo Eva Maria