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Ninna nanna letale

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Ninna nanna
di Leïla Slimani
Rizzoli, 2016

204 pp.
18 € (cartaceo)



Il piacere della lettura non è il risultato di un’equazione matematica, non è proporzionale alla qualità o al successo di un libro. In realtà, a volte leggere non procura piacere, anche quando si stringe fra le mani un libro dall’indiscutibile valore letterario. Ne sanno qualcosa i lettori di Ninna nanna, il romanzo della scrittrice franco-marocchina Leïla Slimani, aggiudicatosi il premio Goncourt 2016. Ninna nanna appartiene a quella categoria di libri che causano un fastidio epidermico, un’angoscia paralizzante. Li si legge d’un fiato per sbarazzarsene il prima possibile, li si tiene lontani dal comodino per evitare che turbino i nostri sonni. È un libro agghiacciante, che graffia la pelle e contorce lo stomaco, ma alla cui melodia è difficile sottrarsi se della lettura si è fatto il proprio principale strumento di comprensione del mondo e della natura umana.

Ninna nanna è un romanzo intriso di classicismo e modernità: non mancano riferimenti a grandi autori del passato (Zola, Dostoevskij, Tolstoj,…), ma il pensiero correrà soprattutto a tristemente noti fatti di cronaca raccontati da romanzieri e cineasti («L’Adversaire», di Emmanuèle Carrère; «Cérémonie», di Claude Chabrol) e alle atmosfere hitchcockiane di Delphine de Vigan. La solitudine e l’alienazione dell’uomo moderno si stagliano sullo sfondo di questo romanzo, che senza mezzi termini ci presenta le conseguenze catastrofiche di una prolungata astinenza d’amore e dolcezza, in una realtà urbana in cui gli spazi sono troppo stretti, l’umanità è lontana e il tempo è una nozione relativa: per molti troppo veloce, per altri, insopportabilmente lento. Il tema della maternità, tanto voluta quanto complessa, contraddittoria, è altresì al centro di questa ninna nanna moderna, che i neo-genitori troveranno ancora più amara.


Ninna nanna, come molti hanno osservato, non è un libro da regalare ma è certamente un’opera letteraria di grande spessore: volenti o nolenti, ci apre gli occhi su un mondo duro, dove amore e violenza, fragilità e dolore, lucidità e follia coesistono e come un veicolo fuori controllo vanno a schiantarsi lì dove non dovrebbero. Ninna nanna è il racconto di una storia banale, e per questo insopportabile.

Nell’undicesimo arrondissement di Parigi, al quinto piano di un’elegante palazzina situata in via Hauteville, il corpo di un bambino galleggia in una vasca da bagno, un altro giace sul pavimento. Adam è morto. Mila soccomberà nel giro di pochi minuti. Si è battuta come una belva senza riuscire a sfuggire alla mano assassina che le ha infine sottratto la vita. La donna che li ha mandati al macello si è accoltellata anche lei, senza tuttavia riuscire a darsi la morte. È la madre dei bambini a lanciare l’allarme. Un grido di lupa ferita, fuoscito dagli anfratti più profondi della terra, ha squarciato il silenzio di un mite pomeriggio di maggio. I soccorsi arrivano in poco tempo sulla scena del crimine dove l’impotenza già ghiaccia le membra e fa digrignare i denti. Vicini e passanti si radunano di fronte all’immobile, mormorando pezzi di frasi, brandelli d’informazione. Quella che per anni era stata una donna ignota a tutti, invisibile presenza nel mondo, è ora al centro di ogni discorso; il suo nome sulla bocca di tutti: Louise.

È passato poco più di un anno da quando i Mosé hanno accolto Louise nella loro casa per occuparsi di Mila e del piccolo Adam. Non era questo il piano iniziale. Myriam, neolaureata in legge, una brillante carriera di avvocato all’orizzonte, aveva inizialmente scelto di mettere da parte il suo futuro professionale per dedicarsi completamente ai suoi due figli. Ad assumersi questo compito la spingeva non soltanto Paul, suo marito, ma soprattutto la sua coscienziosità di giovane madre, desiderosa di assistere ad ogni attimo della vita dei suoi figli e di sopperire ai loro bisogni quotidiani. Tuttavia, dopo anni di inerzia coatta trascorsi in un bilocale assediato da giocattoli e pannoliti, Myriam aveva deciso di riemergere dall’oblio e di gridare al mondo che lei c’era, esisteva ancora; che non era fatta per fare la madre a tempo pieno e che, forse a torto, l’amore dei suoi figli non l’aveva privata dell’amore per se stessa. L’eccellente avvocato che aveva sempre sognato di essere le imponeva di uscire allo scoperto e di rimettersi in gioco.

Il primo colloquio con l’aspirante babysitter non aveva lasciato spazio a dubbi. Il viso di Louise è come un mare tranquillo di cui nessuno intravede gli abissi, il suo linguaggio è gentile e contegnoso. Prima ancora di aver verificato le ottime referenze della donna, Paul e Myriam sono già sedotti dalla silouhette snella di Louise, dai tratti lisci del suo viso, dal suo sorriso franco e imperturbabile. Louise ha quel fascino della donna all’antica che sembra trovarsi del tutto per caso nel ventunesimo secolo: l’accostamento alla "supertata" Mary Poppins è immediato, malgrado l’ombra di velata tristezza che emerge a tratti sul suo volto, ma della quale i Mosé si accorgeranno solo più tardi.

Louise «è una fata», non si stancheranno di ripere ai loro amici. Non si limita ad occuparsi dei bambini ma svolge di buon grado ogni mansione domestica, trasformando l'appartamento dei Mosé in un focolare accogliente. Con il passare delle settimane, Louise è diventata una componente essenziale di questa famiglia dove i ritmi hanno ripreso a scorrere veloci, dove l’ambizione e la sete di carriera accorciano le giornate e rendono ogni momento libero infinitamente prezioso. Come trattenersi dal delegare quando la collaboratrice assunta, di sua iniziativa, prepara pasti succulenti, pulisce e riordina casa, riempie i bambini di attenzioni, li tiene occupati tutto il giorno tanto che la sera, al ritorno dei genitori, non resta più energia che per gli abbracci e i baci della buonanotte ? Da mesi, grazie a questa bambinaia magica caduta dal cielo, ogni cosa è tornata in ordine e la felicità è lì, a portata di mano.
   
Louise è cosciente dell’importanza che in poco tempo ha assunto in seno a questa nuova famiglia. Nei Mosé ha trovato una ragione di vita, come le è capitato già altre volte quando il suo destino ha incrociato quello di genitori da rassicurare e di figli da accudire. Ogni giorno, malgrado si sforzi di prolungare il più possibile la sua giornata lavorativa, Louise è costretta a far rientro in un monolocale angusto e umido nella banlieu sud-est di Parigi. Lungo la strada del ritorno cammina lentamente, prende tempo, guarda le persone sfrecciarle davanti, ansiose di ritrovare il proprio conforto domestico; percorre corridoi stretti e cupi, sale a bordo del RER e aspetta pazientemente la sua fermata, senza mai parlare a anima viva. Ogni sera, ogni nuovo ritorno, lungo lo stesso cammino, un pezzo in più di lei si stacca e muore. Raggiunto il suo domicilio, la donna riprende a pulire minuziosamente ogni angolo di casa. Con il cipiglio di una guerriera, lucida le scarpe, fa brillare le finestre, toglie la polvere dai mobili, nel tentativo di dare un aspetto più accogliente alla tana in cui è costretta a vivere.

Louise non ha amici. Le altre tate del quartiere diffidano di questa donna distinta, discreta, che si aggira per le vie del quartiere senza far rumore ed evita abilmente i loro sguardi.
Lei che sembra fatta per prodigare affetto e attenzioni non ha mai conosciuto l’amore, né quello carnale, né quello filiale o materno. Fin da giovane ha avuto la sensazione di doversi fare piccola e silenziosa per non destare l’attenzione del mondo, per non disturbarlo. Quand’è rimasta incinta di Stéphanie, la sua unica figlia, Louise lavorava come badante alle dipendenze di un’anziana paralitica. Da allora, non ha mai smesso di svolgere la professione di tata al servizio di famiglie che l’amavano così: mansueta, discreta e servizievole.
Come lei, anche sua figlia è cresciuta rispettando la clausola del silenzio e del buon costume: nascosta sotto tavoli o rintanata in un angolo, ad intrattenersi con giochi che altri bambini avevano da tempo smesso di reclamare. A distanza di qualche anno, Stéphanie alternava momenti di apatia e di ribellione, suscitando l’immenso imbarazzo di sua madre. Poi un giorno, invisibile com’era arrivata, Stéphanie si era chiusa alle spalle la porta di casa e da allora sua madre non l’aveva più rivista.
Dopo qualche vano tentativo di ritrovamento, la vita di Louise era andata avanti come se niente fosse, fra lunghe giornate e serate consumate al servizio di suo marito Jacques, un uomo pesante e rumoroso, sempre in collera col mondo intero.
Jacques adorara dire a Louise di stare zitta, non sopportava la sua voce e faceva di tutto per umiliarla. Alla sua morte, ha lasciato alla moglie una pila di debiti ed un enorme vuoto da riempire.

Louise si è insidiata in casa dei Mosé come un ragno in un angolo di soffitto. Giorno dopo giorno vi ha tessuto la sua tela, vi ha costruito il suo caldo nido. La presenza dei bambini la rassicura, i loro sguardi innocenti ed interrogativi conferiscono uno scopo alla sua vana esistenza. Louise è sempre presente, come un’ombra misteriosa su un dipinto. Partecipa alle cene tra amici, accompagna la famiglia in vacanza; lavora fino a tarda notte, si rannicchia come un feto sul divano dei Mosé e sprofonda in un sonno senza sogni. Senza rendersene conto, Myriam e Paul assicurano alla donna molto più di un lavoro: le offrono una tregua dagli incubi di solitudine, di povertà e di vecchiaia che la attanagliano.

A distanza di un anno la presenza di Louise è più che mai indispensabile, ma è diventata invadente, fastidiosa. Sicura di sé, come un'ape regina nel suo alveare, Louise oltrepassa con sempre più frequenza i limiti consentiti e non si astiene dall’esprimere giudizi non richiesti. Ci sono giorni in cui i Mosé non riconoscono più la tata di cui hanno decantato per mesi le lodi. Una crespatura sulle labbra, una parola di disapprovazione, un gesto improvviso e violento, manie e tic che emergono alla superficie: Louise sembra nascondere un segreto che la rende sempre più nervosa, sempre più sfuggente. La complicità che per mesi aveva unito i genitori alla tata lascia progressivamente posto ad un profondo disagio che spinge Paul e Myriam a considerare con sempre maggiore serietà un’alternativa all’ingombrante tata. Un post-Louise comincia a sembrare possibile ai due genitori, desiderosi di tornare in possesso dei loro spazi e dell’intimità perduta con i loro figli.

Dall’altro lato, sul fronte opposto del campo di battaglia, desolazione e sgomento assalgono Louise. Respinta ed isolata, la tata si agita come un pesce schizzato fuori dal vaso, si dimena fra l’illusione di un idillio d’amore senza fine e la delusione di vedere il suo intero mondo crollare in pezzi. Che ne sarà di lei una volta uscita per sempre dalla vita dei Mosé, lontana da quello che per mesi è stato il suo solo ed unico rifugio? Attraverso i vetri immacolati del suo appartamento, Louise contempla la sua solitudine immensa e paralizzante; l’odore di muffa e di chiuso le si infiltra nel naso e la disgusta. Schiacciata dal peso dei debiti e degli anni ormai perduti, Louise sa di essere giunta al termine. Una bambola descrepita e senza vita: ecco cos’è diventata a poco più di quarantanni, il suo cuore si è indurito come una pietra.

Louise ne è certa: non c’è alternativa ai Mosé, rimanere nella loro casa è l’unica cosa che conti. Farsi polvere, eco, svanire nell’aria portando con sé l’illusione di una vita diversa, di un futuro ancora possibile. Fermare il tempo, fondersi con questa famiglia, ai suoi occhi eterna e perfetta. È questo il solo obiettivo che valga ancora la pena di perseguire, costi quel che costi.

Flavia Lucidi