Il mio nemico mortale

Il mio nemico mortale
di Willa Cather
Fazi editore, 2017

Traduzione di Stefano Tummolini

pp. 90
€ 9 (cartaceo)
€ 4.99 (ebook)

La prima volta che incontrai Myra Henshawe avevo quindici anni, ma ricordavo di averne sempre sentito parlare. Lei e la sua fuga d’amore erano uno degli argomenti più interessanti – l’unico interessante, direi – di cui si conversava in casa durante le vacanze o le cene di famiglia.
Myra è brillante, ha fascino, opportunità, denaro; disprezza le convenzioni sociali, le regole, un percorso prestabilito. Quando si innamora dell’affascinante e spiantato Oswald Henshawe non esita un solo istante a sacrificare gli agi e l’eredità dello zio Discoll che – orfana – l’ha cresciuta come una figlia, per fuggire con quell’uomo. Se ne va a testa alta, così simile ad un’eroina romantica, incurante dello scandalo provocato dalla sua fuga. Anni dopo, quella ribellione è ancora argomento di chiacchiere, alimentate dalla rare apparizioni della coppia nella piccola comunità di Parthia, Illinois. È durante una di queste visite che Nellie, voce narrante di questa storia, incontra Myra e, come tutti, ne resta affascinata, in un misto di curiosità e soggezione per quella donna brillante, dalla vita eccitante, che tanto stride con la lenta monotonia della comunità di provincia:
Di tutte le loro amiche d’infanzia, era stata la più carina e la più brillante, e la sua vita ci appariva tanto varia e avventurosa, quanto monotona era la nostra.
Eppure, appena sotto la superficie del glamour, delle risate e delle battute pungenti, degli abiti raffinati, della vita di città, si svela allo sguardo attento di Nellie tutta la complessità di una donna forte e tormentata insieme, indomabile, crudele a tratti. E, insieme, le ombre di un matrimonio, di un amore, imperfetto, che mostra i segni della rovina imminente.
La cosa più sorprendente di questo romanzo è che, laddove altri impiegano un numero considerevole di pagine, digressioni, dialoghi serrati, descrizioni dettagliate, per tentare - non sempre riuscendoci del tutto – di indagare tra le pieghe di una vita e di un matrimonio come tanti, Willa Cather costruisce una storia così intensa, dolorosa, ricchissima di spunti di riflessione, nel breve spazio di nemmeno novanta pagine. Pochissime pagine, quindi, dove nemmeno una parola è superflua: una lezione di scrittura che tanti autori contemporanei, persi nei loro romanzi-mondo, in una sovrabbondanza di temi, personaggi, luoghi, dovrebbero assimilare.
Un romanzo che racchiude in sé alcuni elementi caratteristici della short story: una certa brevità, naturalmente, ma soprattutto la frammentarietà della trama, gli spazi bianchi, il non detto, la parte sommersa dell’iceberg che è compito del lettore tentare di capire. Personalmente è proprio questo il tipo di narrazione a me più congeniale, perché richiede al lettore uno sforzo di immaginazione, la concentrazione su ogni piccolo dettaglio, su ogni parola misurata, mai superflua.

Cather riesce, in questa manciata di pagine, a rappresentare le pieghe di un matrimonio, delle solitudini e delle piccole, grandi, infelicità quotidiane, il rimpianto, il rancore, il sentimento che talvolta non è abbastanza. Pubblicato per la prima volta nel 1926, il testo di Cather (vincitrice del Pulitzer, nel '23, con il romanzo Uno dei nostri) mostra senza falsi perbenismi le zone d'ombra di un matrimonio, scegliendo come protagonista una donna testarda, ribelle a suo modo, tormentata, perfino crudele. Una storia non banale, retta da una scrittura perfetta e adeguatamente resa nella traduzione di Stefano Tummolini, ogni parola soppesata, ogni silenzio, ogni spazio vuoto a comporre la melodia della narrazione.

Ecco, un amore epico, una felicità smisurata, una vita lontana dalla mediocrità del quotidiano, avrebbero potuto perfettamente giustificare la scelta avventata di Myra, la perdita dell’eredità, e quella sorta di esilio sarebbe stato un piccolo prezzo da pagare in nome dell’amore. Ma la realtà, tanto mirabilmente rappresentata da Cather, per Nellie e per i lettori, è spiazzante:
«Ma sono stati felici, alla fine?», le chiedevo talvolta.
«Felici? Oh, si! Come la maggior parte della gente».
Che delusione, quella risposta. Il senso della loro storia era che avrebbero dovuto essere molto più felici degli altri.
Felici «come la maggior parte della gente» non può essere abbastanza. Non per Nellie, così affascinata da quella donna, non di certo per Myra, che gli anni ci mostrano delusa, spezzata, feroce. No, quella fuga romantica non è stato l’happy ending che entrambi avevano immaginato, il matrimonio stesso si è dimostrato qualcosa di differente dalle segrete aspettative dei due giovani innamorati. Ne emerge, tra le pagine, la rappresentazione di quegli angoli bui della coppia, le meschinità quotidiane, le solitudini, le incomprensioni, le difficoltà economiche che hanno minato il rapporto. Eppure – ed è qui, ancora una volta, l’abilità narrativa di Cather – il lettore può solo ricostruire sommariamente che cosa è stato quel matrimonio, in che misura abbia portato felicità e dolore a Myra ed Oswald. E in poche, lapidarie, parole, Myra rivela tutta l’amarezza, il dolore che annulla quella felicità che un tempo deve esserci stata:
«È stata la nostra rovina. Ci siamo distrutti l’una l’altra»
Rovina. Un termine ricorrente in questa storia, in cui aleggia fin dalle primissime pagine un senso, come si è detto, di dramma imminente, in una tensione che cresce ed inchioda il lettore fino all’epilogo. Rovina. Di una giovane che ha rinunciato a tutto in nome dell’amore. Di un amore che, forse, non è stato all’altezza. Di un uomo e una donna così umani nei loro difetti, nelle loro mancanze. E di un’altra giovane, Nellie, che acutamente osserva per piano piano comprendere chi sia, in fondo, quel “nemico mortale”.

Di Debora Lambruschini