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La vocazione dell’Assoluto. Gottfried Benn cronista della nuova stagione letteraria

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La nuova stagione letteraria
di Gottfried Benn
Adelphi, 2017

a c. di Amelia Valtolina

pp. 50
€ 7,00



All’individualità pare dedicata l’intera opera di Gottfried Benn, come un’ode a quella figura che potrebbe aver nome di “Io”. No, nessuno spazio all’egoismo, a una centralità particellare, a un “Io” piuttosto, che sia da contemplare e carezzare con lo spirito di chi errabondo descriva l’età moderna. La città: che farsene? Così Rönne, voce protagonista del romanzo “Cervelli” (Adelphi), si risolve per “farsi occupare” dall’ambiente. Parecchi anni dopo aver goduto delle simpatie nazionalsocialiste e da queste esser stato tradito per via di quel suo spirito francamente anti-pratico, e dunque “degenerato” per chi faceva della terra l’unico teatro su cui allestire la recita dello “spazio vitale”, l’autore scriverà, tra le riflessioni di “Romanzo del Fenotipo” (Adelphi): «In un’epoca che dava importanza soltanto alla massa, l’ipotesi di un cadavere dotato di individualità era una romanticheria».

L’Io non pare allora signore di alcun “punto di vista”, si limita a lasciarsi ammirare, al Nulla si abbandona non senza peccare d’accidia. Il soggetto di cui si legge nell’opera di Benn si abbandona al nichilismo, diviene esule dentro l’ambiente cittadino; La Natura lo sovrasta, ma è degna di lode quale prorompente incanto dell’Assoluto, si manifesta nello spettro del Mito da cui lasciar digradare qualsiasi narrazione, l’epica dell’esistenza umana. Le città, dunque, congiurando contro l’Assoluto, non occupano che lo spazio dell’immanenza. Attraverso la Metropoli benniana di casermoni e vetrine è inverosimile qualsiasi flâneurie. Se Walter Benjamin osservava infatti un’urbanità dove l’osservatore fosse capace di perdersi per riscoprire l’altrimenti inedito volto dell’epoca moderna, Benn pare invece conoscerlo bene, quel volto, e avervi decifrato i caratteri della piccolezza. Ancora in “Cervelli” si legge: «sotto le macerie di un’epoca malata si erano già ricongiunti il movimento e lo spirito, senza intercapedini». Quelli che per Sartre, ad esempio, si manifestavano come spazi dove l’individualità riusciva a respirare l’essenza dell’alleanza, nella costruzione granitica cui Benn si sente rinchiuso non v’è crepa che tenga, il monadismo è non condizione ontologica, bensì desiderata: l’Assoluto dialoga con la metafisica e la teologia, la cittadina non chiacchiera che con sé stessa.
Neppure contemplata allo sguardo, la magra figura dell’altro, non un’ombra né un fruscio. Non che uomini non ve ne siano, anzi, a frotte, in moltitudini talvolta grottesche disturbano l’atemporalità dell’Io e lasciano che si faccia “tardo”, come recita il titolo di un poema incluso nella raccolta “Flutto Ebbro”, in Italia per Guanda, con la traduzione di Anna Maria Carpi. Eppure, questo soggetto in contemplazione di cui scrive Benn, questo flâneur che passeggia tra i rovi delle proprie fantasticherie, non può preoccuparsi dei sentimenti. Ma come? Non sono proprio quelli a far tale un uomo? Gli avvenimenti interiori, i moti da cui bisogna lasciarsi vivere e che tutto sommato “si è”? Benn spoglia l’individuo dell’abito lacrimoso cui per tradizione pare vestirsi. «Stati d’animo e principi sono pur sempre le pietre angolari della poesia piccolo-borghese», dichiara nel corso di un intervento radio in data 1931 che Adelphi pubblica in edizione longform con la solita cura di Amelia Valtolina.

Francamente nazista, fieramente aristocratico, Benn si beffa della nuova stagione letteraria, pungendo l’ancestrale stagione del sentimentalismo.
Gli eroi dell’epoca si chiamavano Hans e Grete, quelli di oggi rispondono al nome di Evelyn e Kay; all’epoca passavano al tu dietro una siepe di rose a pagina 200 e si giuravano fedeltà per la vita, oggi, alla sostituzione di uno pneumatico o alla rottura di un’elica, soppesano con un’occhiata i loro connotati bruniti dallo sport, discutono l’affare, discoprono l’un l’altra i loro complessi e deliberano di lanciarsi nel clinch dei baci per le due settimane successive. Non mi pare sia questa una grande differenza […].
«Se», scrive ancora in “Flutto ebbro”, risultano «esaurite le parole/e l’azione finita», allora non v’è più alcuna lingua attraverso cui chiacchierare di letteratura (come di vita o di sentimento). È annichilita qualsiasi discussione, sia pure con sé stessi: non si può che ruminare sugli avvenimenti. Un ritorno perpetuo, come una perpetua immobilità. C’è mai stato un tempo in cui la stagione letteraria non potesse fregiarsi di coordinate temporali quali “nuova” o “superata”? Certo non quello del ‘30, ove la contingenza ideologico-politica deturpa col ticchettio dell’orologio l’acronicità della letteratura, la cui peggior sorte la desidera “collettivistica” invece che “artistica”, utile per la costruzione della virtù. «Fare arte», continua Benn da quel mezzo radiofonico che pur non apprezzava troppo «significa, dalla prospettiva dell’artista, escludere la vita», ovvero osservare il mondo quale entità non contingente: metafisica. Uscir fuori dalla propria epoca. Si necessita per tale ragione di quel “peso” di cui l’autore fa menzione nel corso del discorso funebre per Kablund, in appendice all’edizione italiana della conferenza radiofonica: il peso della vocazione. La vita: un avvenimento crepuscolare di profonda inquietudine, non ancora nausea né malinconia, bensì tensione verso l’Assoluto.


Antonio Iannone