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L'elogio del barista: meglio berci su!

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L'elogio del barista. Riflessioni semiserie di una psicoterapeuta sull'inutilità della psicoanalisi
di Caterina Ferraresi
Corbaccio, 2017

pp. 144
€ 10 (cartaceo)



Titolo curioso, sottotitolo davvero paradossale, copertina ammiccante con caffè e cuore in bella vista: ma davvero in questo sottile librino (tra schegge di memoria, consigli teorico-pratici, riflessioni) la carica della caffeina si mescola al calore del sentimento? Purtroppo, dopo le prime pagine, qualcosa si raffredda: l'ironia promessa dal sottotitolo è congelata da alcune dichiarazioni che la psicoterapeuta fa, senza tante cerimonie, sui suoi pazienti. "Clienti", anzi: so che il termine è assolutamente à la page e dovrebbe essere neutro; se mi urta, è solo perché in questo caso Ferraresi mantiene un distacco che va al di là di quello professionale. E cade nel giudizio. La stessa Ferraresi si autoproclama di tanto in tanto moralista, lascia che la sua "vocina interiore" la redarguisca sul fatto che non dovrebbe trovare antipatico o noioso questo o quel cliente; eppure accade. Ed è umano, inevitabile, se vogliamo. Il problema è quello che succede dopo: il cliente viene sottilmente deriso. Per carità, ci saranno nickname e dettagli storpiati, ma tutto lascia supporre una domanda: perché farlo? Può essere veramente utile al lettore?
Senza sottrarsi alla logica economica che muove la maggior parte dei suoi rapporti lavorativi, senza nemmeno schermarsi dietro idealismi di sorta, l'autrice gestisce L'elogio del barista muovendosi con disinvoltura tra casi, quotidianità, consigli teorico-pratici, metariflessioni sulla propria attività.
Presto, una domanda ha iniziato a farsi strada fino a rimbombare: ma la dott.ssa ama il suo lavoro? Senza dubbio ci vuole coraggio per dichiarare con questa libertà certe idiosincrasie, superando gli scogli del politicamente corretto, ma cosa penseremmo, se fossimo un suo "cliente"? Chiamatemi pure permalosa o magari incline a manie di persecuzione o chissà che altro, ma se leggessi il caso di altri miei "colleghi-clienti", non come spesso avviene in libri di psicoterapia come casi clinici, ma per deridere un po' paternalisticamente una fissa o un preconcetto, ecco che mi sentirei in dovere di disdire ogni appuntamento futuro e cambiare terapeuta. In gioco non c'è affatto la bravura della dott.ssa Ferraresi, ma la sua capacità di scaldare in un cantuccio anche la mia storia, e non ridurre il mio caso a un mero appuntamento in agenda o a ciò che permetterà di pagare le sue multe bolognesi. 
Con ciò, lungi dal ritenere lo psicoterapeuta un Dio disceso in Terra, pronto a risolvere miracolosamente gli incagli della vita di ognuno. Eppure mi piace vedere in lui/lei una sorta di Prometeo, pronto a fare di tutto per di portare il fuoco nella vita dell'uomo; a costo di pagarne le conseguenze, di trascorrere notti in bianco per documentarsi su una patologia complessa, aggiornarsi o confrontarsi con un po' di ansia con un collega più esperto per far luce insieme dove da soli non si riesce. E questa non è utopia, ma lo spirito con cui molti amici-psicoterapeuti costruiscono le loro affaccendate, complesse, ora frustranti ora appaganti carriere. Per questo, leggendo L'Elogio del barista sorge una domanda che ha dell'inquietante: dobbiamo veramente credere all'"inutilità della psicoanalisi" come da sottotitolo? Come spiegare allora gli sforzi di tanti terapeuti per migliorarsi ed essere d'aiuto agli altri? 
Sarà che ho sempre avuto la convinzione che il "conosci te stesso" avvenga attraverso l'incontro con l'Altro (anche uno psicoterapeuta, se necessario, perché no?) e non ritirandosi in una turris eburnea di giudizi e preconcetti. Sarà che vorrei proprio capire lo scopo di L'elogio del barista. Forse non l'ho proprio compreso e, anzi, io stessa sono incappata in un giudizio (ma la recensione dovrebbe essere anche questo). Piena di dubbi, non mi resta che sorseggiare un caffè - amaro - e sorridere alla mia barista di fiducia.

 GMGhioni

PS - Altra perplessità, questa volta linguistica. Ho controllato sulle grammatiche a mia disposizione e per ora la Crusca e Treccani sono con me: "quindi" è una congiuzione conclusiva, non causale. O si tratta di un riuso particolare in ambito psicoanalitico?

(p. 30)