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#paginedigrazia - "La chiesa della solitudine": se l'ultima eroina deleddiana è "un'amazzone di bronzo dorato"...

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La chiesa della solitudine
di Grazia Deledda
Prefazione di Giovanna Cerina
Ilisso, 2008

pp. 171

cartaceo: 11, 00 euro
e-book: 4,90 euro



Nel parlare di La chiesa della solitudine, ultima opera di Grazia Deledda pubblicata prima della morte della scrittrice (che spirò la mattina del 15 agosto 1936), è difficile, se non impossibile, glissare sulla macroscopica coincidenza tra arte e autobiografia: come non sottolineare il fatto che il suo principale personaggio femminile, Maria Concezione, è affetto proprio da un cancro al seno, ovvero dallo stesso morbo che fu fatale all’autrice Premio Nobel? La malattia, del resto, non è un dato irrilevante nell’economia del romanzo, al contrario: la coscienza del tumore – che la protagonista, con la complicità della madre, tiene nascosto a tutti anche dopo l'operazione che le ha asportato la mammella – è proprio ciò che impedisce alla pur giovane donna di continuare a vivere con gioia e ottimismo, e dunque, sostanzialmente, di concedersi alle lusinghe dell’amore o di arrendersi a quelle convenzioni socio-culturali che la vorrebbero (più che “moglie” e “madre”) “sposa” e “fattrice”. È, però, proprio la voce del sentimento, modulata ora sottospecie di corteggiamento rispettoso, ora di proposta invadente, ora di vaga infatuazione, a non dare pace alla donna, desiderata e ambita da tutti per la sua bellezza e anche (se non esclusivamente) per la sua ricca dote.

Proprio per questo La chiesa della solitudine può essere interpretato come una storia di resistenza, penitenza e autoaffermazione: decisa a negarsi a nuove avventure, oppressa dal rimorso di un rapporto di gioventù finito in tragedia, e certa di scontare le colpe del suo stesso padre – la cui relazione extraconiugale sfociò nella nascita di Maria Pasqua, nota prostituta del paese – Maria Concezione respinge sia l’innamorato Aroldo (un giovane virtuoso che per lei si perderà, tradendola proprio con la sorellastra), sia i bruschi pretendenti che la tormentano con modi a dir poco rozzi e ferini: i due fratelli Pietro e Paolo, il tanto bello quanto stolto Costante, addirittura il brigadiere Calogero, che a un certo punto busserà alla sua porta per indagare proprio sulla misteriosa scomparsa del principale spasimante… Anche i vecchi, come per un incantesimo diabolico, sembrano incapaci di resistere a Maria Concezione: così non è difficile scorgere le tracce di un’insinuante lascivia senile nell’atteggiamento di Pietro Giordano, amico di famiglia che pure agisce per sistemare almeno uno dei due nipoti, o del vecchio dottore di paese ormai decaduto, che con il pretesto di un caffè o di un pasto caldo appare sempre desideroso di ben altri favori. Addirittura il sacerdote, don Serafino, pare segretamente infatuato della donna, la cui casa ha la ventura di comunicare direttamente con la sagrestia della chiesetta da cui il romanzo prende il titolo. E non sarà certo un caso, in un’opera fitta di riferimenti religiosi e dall’onomastica “parlante” (si veda a proposito anche la bella prefazione, a firma di Giovanna Cerina), se è proprio al personaggio del prete che la scrittrice affida una delle descrizioni più convincenti dello status della protagonista; la quale, tuttavia, alla pari di moltissimi personaggi deleddiani, si configura come un'anima purgante impegnata in un percorso di espiazione e redenzione:
«Sai che cosa devo dirti, Maria Concezione? Tu sei un po’ come la vita: tu mi capisci: tutti guardano alla vita, con la speranza di riceverne piacere, denari, amore: mentre invece la vita, in fondo, ci sfugge e non ci dà che delusioni e spesso dolore. Mio nonno, i miei fratelli, altri, forse, guardano a te per la tua fortuna, e ti credono una donna che oltre ai denari, può dare anche la felicità. Mentre anche tu sei una povera creatura debole e infelice».
Al lettore, che con Concezione e la madre condivide il segreto intimo della sua malattia, non può sfuggire, per contrappunto, il becero e retrogrado maschilismo dei suoi pretendenti, mentre nella descrizione delle loro “gesta”, più che una critica al tradizionale patriarcato, pare di leggere una messa in ridicolo di certe direttive culturali del coevo regime fascista: «la donna è fatta per sposarsi, per crearsi una famiglia, compiere il proprio ciclo, come lo hanno compiuto le nostre madri e le nostre nonne» dice il prete Serafino a una Concezione pronta a ribattere: «Ma sta zitto, - ella disse, cercando di prendere la cosa alla leggera; - non devo poi sposarmi per forza, con uno che non amo». E che dire della disamina bucolico-agraria del dottore ridotto in miseria, improvvisatosi filosofo dei sentimenti? Così parla, a propria volta, alla protagonista, convinto di persuaderla:
«La primavera è fatale alle donne. Come la terra, esse hanno bisogno, in questa stagione, di fiorire, godere, essere feconde. L’amore è il miglior polline per loro. Tutto va bene quando c’è l’amore: null’altro conta, nella vita, poiché la vita stessa è l’essenza, il principio e la fine dell’amore. Se tu, mia cara amica, ti fossi sposata dieci anni fa, a quest’ora avresti tre o quattro bambini, qui intorno, a far compagnia ai fiori, agli uccelli, e sopra tutto al tuo cuore. Ma tu, forse, hai badato alle altre vane cose della vita, e così adesso ti sciupi, ti consumi lentamente, sei come una mandorla che si secca entro il suo guscio prima di esser venuta a maturazione».
Al cospetto di tutti i personaggi maschili che avidamente le gravitano intorno – e che mossi dai loro bassi istinti la percepiscono solo come “una monaca con occhi da zingara” o come “una strega con occhi di fata” – il personaggio di Maria Concezione, nel suo privatissimo dramma, non può che apparire come una gigantessa: pur nell'inferiorità fisica, la sua sagoma si staglia vincente contro un mondo di uomini deboli per troppa bontà o vacui per eccessiva virilità. Il bellissimo passaggio in cui la Deledda la descrive intenta a spogliarsi per compiere una toeletta pre-pasquale (e dunque in un simbolico processo di preparazione alla rinascita) resta tra i brani più forti di tutto il romanzo, capace di proiettare sull’ultima eroina deleddiana una luce epica, un bagliore mitico, se non quasi mitologico:
«E portato in camera il paiolino chiuse a chiave l’uscio: adesso si trattava di fare le abluzioni, e cinque litri d’acqua le sembravano anche troppi. Lentamente, con ordine, le sue vesti furono stese sulla sponda del letto: il corpetto di lana, la camicetta di cotone a quadretti bianchi e blu; e poi un altro corpetto di tela con una parvenza di merletto alla scollatura, e il sottanino di lana a maglia, e infine la camicia lunga e larga come la misericordia divina. E apparve tutta nuda, bruna ma lucida, col seno che le mancava; pareva un’amazzone di bronzo dorato».

Cecilia Mariani

Chi è Maria Concezione, protagonista di La chiesa della solitudine? Una "monaca con occhi da zingara"? Una "strega con occhi di fata"? Niente di tutto ciò, bensì "un'amazzone di bronzo dorato". Oggi pomeriggio, per il #paginedigrazia di questo lunedì, c'è la recensione della nostra @ichbincecilia all'ultimo romanzo deleddiano... (e si: sullo sfondo ci sono proprio i modelli per la porta della Chiesa della solitudine di Nuoro, disegnata da Eugenio Tavolara) #graziadeledda #unnobelpertutti #criticaletteraria #lachiesadellasolitudine #ilisso #ilissoeditore #ilissoedizioni #distrettoculturaledelnuorese #atenedellasardegna #libro #book #instalibro #instabook #leggere #reading #recensire #eugeniotavolara

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