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#paginedigrazia - Nel deserto: la natura dei rapporti umani tra egoismo e incomunicabilità

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Nel deserto
di Grazia Deledda
Ilisso, Nuoro, 2007

Prefazione di Giulio Angioni

pp.234
11 euro (cartaceo)
4,90 euro (ebook)


 Egli non la capiva ed ella si sentiva sola, accanto a lui. (p. 139)

Basta forse questa frase per intuire il senso profondo di Nel deserto, romanzo deleddiano del 1911: una grave incomunicabilità, sembra dirci la scrittrice sarda, esiste tra uomo e donna, ma verrebbe da dire, esiste tra essere umano ed essere umano.
Sono l’incomunicabilità, l’egoismo che ne è la causa e l’autocommiserazione condita di infelicità, che ne è spesso la conseguenza, le grandi tematiche al centro della vicenda narrativa: Lia Asquer è una giovane sarda, orfana di entrambi i genitori. Vive in un paesino vicino al mare, in condizioni umili, e in compagnia di una anziana zia (la zia Gaina) che si prende cura di lei da quando i genitori sono morti. Lia è animata da un profondo senso di insoddisfazione, da una grande smania di fuggire dai confini angusti di quell’orizzonte chiuso: così, quando lo zio Luigi la chiama a Roma per fargli compagnia, non esita ad accettare, convinta di trovare, in una città tanto grande e lontana, la felicità che agogna. Ma l’arrivo nella capitale, dove trova uno zio molto diverso da quello che si aspettava, non porterà nella sua vita quel cambiamento a lungo ricercato, sebbene la donna trovi un brav’uomo da sposare, Justo, e si affezioni con affetto materno al figlio di lui, Salvador.

“Puoi andare anche dall'altra parte del mondo, ma se non esci da certe stanze della mente abiterai sempre nello stesso luogo” recita un celebre adagio che si adatta perfettamente al caso di Lia.
La giovane sarda sembra non uscire mai da quella prigione rappresentata da un’infelicità quasi autoimposta: ogni evento della sua vita, lieto o doloroso che sia, non fa che accrescere in lei la convinzione che la vita sia un deserto, una distesa di sabbia piatta dove sono poche le oasi raggiungibili e in esse è esiguo il tempo in cui si può sostare.
Vide una rosa secca i cui petali eran ridotti ad una specie di cenere rossiccia e lo stelo e il calice sembravan di legno corroso: le spine soltanto erano ancora intatte. (p. 230)
Come la rosa, anche nella vita di Lia, i momenti di felicità e speranza son ridotti in cenere; i suoi affetti più cari, i figli, il marito morto prematuramente, sono stampelle corrose dall’incapacità di sorreggere adeguatamente il peso di un’insoddisfazione che sembra essere l’unica ragione di vita per Lia, come un’abitudine a cui si è incapaci di rinunciare.
Sono frequenti nel libro le metafore che attingono al mondo naturale: oltre al titolo, che allude all’umana solitudine e allo smarrimento, ma anche (mi sento di dire) alla totale assenza, all’interno del romanzo stesso, di buoni sentimenti e predisposizioni, ogni stato d’animo di Lia è continuamente ricondotto al mondo naturale, quasi a voler mostrare una implicita alleanza tra esso e l’essere umano.
«…ella è forte, ha la grande fortuna di bastare a sé stessa, di resistere alla bufera della vita come lo stelo che si piega al vento ma che al primo raggio di sole si rialza e rivivo: io, invece, che cosa sono io? L’albero schiantato, signora Lia! Sono un vinto, io: un tronco da cui il vento finisce di staccare le foglie inaridite.» (p. 155)
È Giulio Angioni, nella sua prefazione, a svelarci le ragioni per cui Nel deserto, uno dei romanzi più riusciti di Grazia Deledda, non ha avuto il successo di pubblico e critica che avrebbe meritato: il romanzo è profondamente legato alle vicende autobiografiche della scrittrice, trasferitasi a Roma da un decennio ormai, con il marito Palmiro Madesani (impiegato dell’Intendenza di Finanza, come il lo zio Asquer del libro). È proprio questo cambio di ambientazione, dalle lande selvagge della Sardegna al contesto urbano di Roma, rivela Angioni, a determinare il minor appeal del romanzo. Come negare il fatto che la forza letteraria della Deledda sia legata anche e soprattutto alla sua capacità di raccontare la Sardegna e i sardi con un talento narrativo che affascina il lettore di ogni parte del mondo?
Ma quella che appare come una debolezza di Nel deserto è, al contrario, un punto di estrema forza: se la Sardegna è quasi totalmente assente come sfondo orizzontale, non lo è altrettanto come topos narrativo. È anzi presente, lo riconosce Angioni stesso, come «orizzonte, mancanza e richiamo elastico». Ma, sento di dover aggiungere, è presente in una dimensione duale che svela forse l’elemento più autobiografico del romanzo; al suo interno, infatti, convivono due visioni della terra natia: come prigione e luogo di pena e come nostalgico ideale. In questa duplice natura, Grazia Deledda rivela non solo la natura contraddittoria del ricordo (per cui quando siamo lontani da qualcosa o qualcuno, finiamo per idealizzarlo, mondandolo di ogni difetto), ma anche la natura contraddittoria dell’amore, e primariamente di quello verso la propria madre (madre patria, in questo caso).
È su questo sguardo distante rivolto alla Sardegna che ruota il fascino del romanzo, insieme alla capacità della scrittrice sarda di fare un passo oltre quello che è da sempre il motivo del suo apprezzamento internazionale: nel tratteggiare la figura di  Lia Asquer, i suoi desideri insoddisfatti, la speranza di un nuovo amore, la disillusione, la Deledda ci offre un efficace affresco della natura dei rapporti umani, in primis, e della natura della donna, in secondo luogo.
E lo fa (ancora una volta) con grande modernità morale e intellettuale.
All’improvviso, leggendo, ci troviamo svelata la mera realtà del rapporto con l’altro, quella che ci affanniamo a negare ogni giorno: l’altro, l’amato, non è mai verità svelata, ma resta mistero, soprattutto perché, essenzialmente, ci ostiniamo a vedere in lui (o lei) nient’altro che noi stessi. È lo specchio attraverso il quale lodiamo i nostri pregi e demonizziamo le nostre mancanze:
«Perché piange?» si domandò.
Lia piangeva d’amore: ma l’uomo non aveva mai veduto un simile spettacolo e credeva che si piangesse solo di rabbia o di pietà.
«Ella ricorda ancora il suo passato» disse tra sé, appunto perché egli, in quel momento, si sentiva ancora avvinto dal suo. «Bisogna aspettare.» (p. 190)
È questo principio di incomunicabilità che detta il ritmo delle nostre relazioni e che ci impedisce di trarne, sembra suggerirci la Deledda, una benché minima soddisfazione o appagamento.
Se egoismo e incomunicabilità dominano i rapporti umani, è il profondo senso di insoddisfazione a regolare l’esistenza di Lia e, attraverso la sua figura, di ogni donna: la scrittrice sarda, che certo si è specchiata nella sua protagonista, trascina questa prostrazione dalla prima all’ultima pagina del romanzo.
È quindi latente, e martellante, una domanda senza risposta: se non può trovare felicità nell’amore matrimoniale; se non le basta l’affetto dei figli; se dedicarsi con fervore al lavoro, manuale e intellettuale, non permette di ricavare la pace che anela; se nemmeno un amore sensuale può appagarla appieno: che cosa può davvero bastare a una donna?
«Tu sei come una giornata di marzo: un momento nera e un momento col sole…» (p. 228)
«Qui tutto è preistorico: bisogna adattarsi…»
«Ma se è tutto bello, signora Lia! O lei è incontentabile?» (p. 131)

Barbara Merendoni 

Quasi sempre la casa è il rifugio. Ma a volte, "casa" può divenire sinonimo di "prigione". E allora comincia un viaggio per il mondo e dentro la tua anima, alla ricerca di quella pace e di quella felicità che sembra sempre sfuggirti... È quanto accade a Lia Asquer, la protagonista di Nel Deserto, il romanzo al centro della nuova puntata di #paginedigrazia di oggi pomeriggio recensito dalla nostra @babe_mer: appuntamento alle 14.00 sul sito! Photo: @ichbincecilia #paginedigrazia #graziadeledda #unnobelpertutti #criticaletteraria #neldeserto #ilisso #ilissoeditore #ilissoedizioni #distrettoculturaledelnuorese #atenedellasardegna #libro #book #instalibro #instabook #leggere #reading #recensire

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