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Figli di una storia ingannevole

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Gli ultimi ragazzi del secolo
di Alessandro Bertante
Giunti, 2016

pp. 215
€ 16


Stavolta mi trovo in difficoltà e sarà difficile restare imparziale. Perché sono anch’io, a questo punto, un ultimo ragazzo del secolo. D’altronde fra la mia nascita e quella di Alessandro Bertante corrono pochi giorni. L’identificazione con il protagonista del libro, Alessandro, è scattata subito. A rendere la cosa ancora più empatica, il mio viaggio, nel 1996, sempre come il protagonista, nella ex Jugoslavia. Magari c’è mancato poco che c’incontrassimo.

Spogliamoci per quanto possibile di autoreferenzialità e cominciamo con il titolo: chi sono questi ultimi ragazzi del secolo? Anagraficamente siamo… pardon sono quelli nati nella seconda metà degli anni Sessanta. Più verso i Settanta che verso il 1965. Nel 2000 questa generazione ha compiuto 31, 32, 33 anni, era già dentro la cosiddetta maturità. Chi è nato, ad esempio, nel 1977 di anni nel 2000 ne aveva 23: doveva consumare nel nuovo millennio un pezzo di gioventù. Noi, l’abbiamo esaurita nel Novecento. Gli ultimi a poterselo permettere. Con un particolare ulteriore: siamo cresciuti negli anni Ottanta.

Alessandro Bertante dà una lettura di quel famoso decennio da bere. La trama del romanzo si articola su vari binari. Di tempo e di luogo. Il tempo è sdoppiato perché seguiamo il protagonista sia durante la sua crescita nella «Milano metropoli degli anni Ottanta» sia nel corso di un viaggio tra Croazia e Bosnia-Erzegovina con tappe obbligate a Mostar e, soprattutto, a Sarajevo. La forbice dello spazio come avrete già colto, si allarga invece tra il capoluogo lombardo e la città simbolo della guerra nei Balcani.

Quando ci siamo affacciati negli anni Ottanta, i nostri genitori hanno cominciato, così senza neppure accorgersene, ad abbandonare i furgoncini della Volkswagen, che avevano trasportato famiglie in vacanza, lavoratori e tantissimi hippie, per privilegiare una quiete asettica, domestica, si direbbe borghese. Ma non usiamo termini scontati perché Bertante è uno che non si accontenta. Resta il fatto che il Volkswagen T2, prima di andare in pensione ufficialmente e come esemplare motorizzato, aveva all’improvviso finito la sua carriera nell’immaginario collettivo e nelle abitudini dei padri.

Non è, dunque, tutta colpa nostra: abbandoniamo il senso di colpa generazionale. Se non altro perché non avevamo la patente e dunque quei pulmini spensierati non potevamo toglierli dal garage e guidarli. Poi ci è piovuta addosso una novità assoluta e inattesa: la televisione commerciale. Bertante non sta a piangere addosso a nessuno, in questo dimostra il suo carattere di narratore maturo, però sottolinea un aspetto fondamentale: il vocabolario. Gli adolescenti anni Ottanta sono stati vittima di una narrazione ingannevole, di una favola consolatoria di cui «Milano metropoli degli anni Ottanta» sarebbe diventata l’emblema. Il finale di questa favola era che vivevamo in un mondo pacificato sotto l’egida dal consumo. Pacificato nel senso di… spianato. Tipo un campo da cui non emergesse una zolla fuori posto. In Occidente non se la giocavano più le appartenenze, seppure violentemente contrapposte, di pochi anni prima. La contesa, al massimo, era tra sfitinzie e paninari per vedere chi cuccava di più.

Allora questa generazione si ritrovò a essere la testimone, inconsapevole, di una mutazione collettiva istantanea: dagli anni della politicizzazione all’estetica disimpegnata. E di maestri, buoni o cattivi, neppure l’ombra. La fine degli entusiasmi, lungo la scia di un’epoca in cui si sognava l’impossibile, ha in genere una conseguenza che potremmo ricondurre alla fisica: a ogni azione ne corrisponde un’altra uguale e contraria. Applicata questa legge alle scienze sociali viene fuori che dopo tempesta e impeto arriva la depressione. A Milano, dalla depressione all’autodistruzione il passo fu breve. Si moriva in strada, a 20 anni, a seguito di una mattanza chiamata eroina, alla quale seguì presto il cugino di primo grado: l’Aids. Credo sia ancora più chiaro, adesso, il senso dell’aggettivo ultimi contenuto nel titolo: il protagonista Alessandro, Alessandro Bertante, il sottoscritto, siamo dei sopravvissuti.
Se ad Alessandro hanno raccontato, nel corso degli anni cruciali della sua vita, l’inganno di una pax consumistica dentro la quale tutti saremmo confluiti, il contrappasso narrativo lo scaraventa nella Sarajevo del 1996. Dove la parola pace non ha senso da anni. Uno si salva, o muore, molto per caso. Scoprendo i Joy Division di Ian Curtis, il leader morto suicida nel 1980, capaci di una musica in grado di liberare dallo spazio claustrofobico della metropoli. Uno può arrivare a Sarajevo mentre se ne sta in vacanza su un’isola croata e tre ragazzi bosniaci, che portano sul corpo e nell’anima le cicatrici della devastazione, dicono: «Abbiamo bisogno dei vostri occhi».
Sarajevo: scolpita dalle bombe mentre i nostri paesaggi urbani erano, sono, scolpiti nel privilegio. O meglio: ci hanno fatto credere che fossero soltanto di questa forgia. Alessandro gira nella città vecchia sfidando il coprifuoco in un baratro di cemento che ricorda le periferie e le circonvallazioni che facevano da sfondo alle scorribande della sua gioventù. A Milano non c’erano cecchini serbi ma neppure un Occidente riconciliato. E a proposito di Bosnia, Alessandro Bertante ci dice qualcosa con grande chiarezza: al di là della retorica dell’odio etnico, della brutalità balcanica e del pessimo carattere degli slavi del sud, altra novella che è piaciuta tanto alle televisioni occidentali, evidentemente ci hanno preso gusto, quella guerra fu una questione economica. Leggete questo bel libro per avere un punto di vista diverso, anche qui, su com’è andata.

Marco Caneschi